Non è questa l’accoglienza: MSF lascia l’hotspot di Pozzallo con una dura denuncia

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“«MSF non può prendersi cura dei pazienti, a causa di condizioni di accoglienza inadeguate e poco dignitose». In maniera secca e netta, Medici Senza Frontiere, organizzazione umanitaria premio Nobel nel 1999, attiva in molti teatri di guerra, di fuga e di crisi e che da sempre ha fatto dell’indipendenza da ogni istituzione il proprio punto di forza, ha annunciato di uscire dal Centro di Primo Soccorso e Accoglienza (ormai di fatto hot spot) e contemporaneamente la chiusura del progetto di supporto psicologico nei CAS della provincia di Ragusa. «L’organizzazione -riprende il comunicato stampa- ritiene che il centro di Pozzallo non offra le garanzie minime per una collaborazione efficace e rinnova il proprio appello alle autorità italiane affinché sviluppino risposte concrete e di lungo termine. I bisogni medici e umanitari delle persone più vulnerabili, passate attraverso condizioni durissime nel loro viaggio verso l’Europa, devono essere la priorità».

Sono mesi che Msf, e con loro tante realtà dell’attivismo antirazzista, del volontariato e dell’informazione, europarlamentari, denunciano pubblicamente e inascoltate le carenze del sistema di prima accoglienza. Il 17 novembre, gli operatori dell’organizzazione hanno avuto una audizione con la Commissione Parlamentare d’Inchiesta su CIE, CARA e sistema di accoglienza, da allora non solo non ci sono stati segnali concreti di cambiamento sia dalle autorità locali che nazionali.
Nel corso dell’incontro con la Commissione parlamentare, MSF ha consegnato un dettagliato rapporto sui punti di criticità del centro, Le attività di MSF all’interno del CPSA di Pozzallo, che hanno avuto inizio nel mese di febbraio 2015, in base ad un Protocollo di Intesa stipulato con l’Azienda Sanitaria Provinciale di Ragusa. Una collaborazione iniziata già un anno prima, per garantire lo screening sanitario in banchina lasciando la gestione degli altri servizi all’ente preposto. Nel 2015, con la stipula del protocollo, c’erano state, secondo MSF, buone forme di collaborazione, grazie anche alla definizione di un team misto MSF e ASP Ragusa di medici, infermieri e mediatori interculturali, e all’elaborazione di procedure operative standard. Nel periodo febbraio settembre, a Pozzallo ci sono stati 45 arrivi per un totale di 12483 persone sbarcate. Ma il centro, situato nei locali della vecchia dogana, ha mostrato totale incompatibilità con i compiti prestabiliti.
Intanto il sovraffollamento: la struttura può ospitare 180 max 220 persone ma, secondo l’organizzazione umanitaria, il tetto è stato più volte sforato, tenendo le persone per più di 3 giorni ammassate. Nonostante l’amministrazione abbia provato ad attuare in maniera superficiale una separazione tra individui di diverso sesso, ha indotto persone con disabilità e con vulnerabilità di diverso tipo (donne sole, possibili vittime di tratta e minori non accompagnati) a situazioni di forzata promiscuità in uno spazio limitato. A questo vanno ad aggiungersi le condizioni di degrado e insalubri della struttura (muffe che hanno creato allergie e problemi respiratorie tanto agli assistiti che agli operatori), l’infestazione di blatte, nello stesso ambulatorio medico (un intervento di deblattizzazione si è fatto solo il 5 ottobre), i servizi igienici non funzionanti o bisognosi di manutenzione, il tetto con perdite in più punti. I piccoli interventi di manutenzione si sono rivelati irrisori. Non solo wc e docce rotti, ma assenza di tende e/o di porte funzionanti per avere un minimo di riservatezza, poca acqua calda e solo nelle prime ore del mattino, erogazione poco attenta dei kit di cura per la scabbia (malattia cutanea estremamente diffusa in tali contesti), in alcuni casi secondo MSF i kit erano incompleti o inadeguati. MSF aveva fatto richiesta che il centro si dotasse di un’area per il trattamento della scabbia ma questo veniva svolto nei bagni, poco illuminati, scivolosi per l’acqua e che di fatto, imponendo alle persone in cura di spogliarsi, in condizioni poco dignitose le esponevano a trattamento inumano e degradante, violando l’Art 3 CEDU. Anche in tale ambito dovevano essere fatti dei lavori di manutenzione entro il 30 settembre, ma che finora hanno avuto solo adempimento parziale
Tali carenze sono dovute a detta dell’organizzazione, tanto a limiti dell’ente gestore quanto al fatto che le stesse autorità locali non avrebbero adempiuto ai propri obblighi sottoscritti.
Il Rapporto presentato era metodico, raccontava di come un veicolo della polizia, parcheggiato davanti all’uscita di sicurezza era posizionato in maniera tale da impedire l’apertura di tale ingresso, necessario in caso di incendio. L’area esterna restava spesso inaccessibile, causando tensione fra gli ospiti, a pagare le conseguenze di tali limitazioni anche donne e bambini, in un centro che non è un CIE.
Nei mesi di lavoro nel centro è stato ravvisato come gli ospiti si ritrovassero con una difficoltà oggettiva a comunicare con l’esterno anche quando la presenza si protraeva oltre le 48 ore. Un solo apparecchio telefono installato e difficoltà per avere una scheda telefonica a cui si ha diritto. Ma, la beffa, era stato segnalato come: l’apparecchio fosse stato ubicato in un’area il cui accesso è negato o limitato ad ore precise, la distribuzione di schede non adatte alle chiamate per aree geografiche diverse o non compatibili con l’apparecchio telefonico o, addirittura, scadute dopo l’utilizzo del primo coupon. Questo mentre ad alcuni ospiti venivano requisiti temporaneamente i cellulari dalla polizia e tenuti in custodia per l’intero periodo di internamento.
Ed è giusto utilizzare detto termine visto che, sempre a detta di MSF, fra febbraio e maggio si sono registrati 47 casi accertati di protratto trattenimento al centro di alcune persone ai quali era vietato tanto di uscire quanto l’accesso alla zona aperta. Un regime di convivenza forzata che ha acuito sofferenza psicologica, tensioni fra gli ospiti e gli operatori. Ad esempio, nel settembre, per due settimane un gruppo di minorenni di nazionalità egiziana, è rimasto all’interno del centro senza poter uscire. Confinati in una stanza isolata, privati della possibilità di accedere a zone all’aria aperta e nessuna attività di svago. Questo perché non si sapeva dove collocare i minori. Nel rapporto si citano vari casi di autolesionismo.
Il centro di Pozzallo era, ed è ancora, privo di uno spazio per minori non accompagnati, diviso in due ambienti (sala uomini e sala donne) privi di barriera fisica di separazione, addirittura, quando è capitato che vi fossero poche persone, la sala “donne” veniva chiusa e tutti erano messi nella sala “uomini. E, citando a piè pari il testo: «Il centro non assicura inoltre un adeguato servizio in termini di spazi riservati e protetti che offrano le condizioni necessarie all’accoglienza e alla eventuale identificazione di vittime di tratta, tortura e altre forme di violenza fisica, psicologica e sessuale. Tale spazio è essenziale per la corretta individuazione delle vulnerabilità sopra elencate al fine di garantire una corretta e capillare identificazione dei casi assicurando alle vittime la protezione alla quale hanno diritto».
Si è poi riscontrata una “mancanza di accesso sistematico ad un’adeguata informativa legale” che è stata spesso causa di tensioni. Lo staff di MSF ha dovuto rispondere anche e spesso a quesiti di ordine legale che non trovavano risposta nei servizi del centro. E anche qui il rapporto va ripreso direttamente: «La possibilità di comunicare con i propri familiari, le richieste di chiarimento circa la procedura di identificazione o il fotosegnalamento, la preoccupazione di non aver capito ciò che viene richiesto al momento della fase di screening effettuata immediatamente dopo l’arrivo, sono solo alcune tra le tante situazioni con le quali siamo chiamati a confrontarci quotidianamente e che suscitano interrogativi circa l’adeguatezza di tale servizio nel contesto della prima accoglienza all’interno del CPSA. La possibilità concreta di poter offrire un adeguato servizio in termini di informazione legale, ci pare inoltre compromessa all’origine dalla modalità nella quale, attualmente, l’intero processo di primo soccorso, accoglienza e successivo trasferimento è espletato. Nell’ambito di tale processo, infatti, ci pare che le procedure di identificazione e screening di vulnerabilità avvengano in tempi rapidissimi e immediatamente dopo lo sbarco, quando i migranti appena arrivati, spesso reduci da violenze e abusi occorsi in Libia, si trovano ancora in una fase in cui la risposta medico-umanitaria svolge un ruolo primario al fine di garantire il benessere psico-fisico della persona assistita. In tale fase, l’intero processo si svolge in maniera accelerata e spesso confusa dal punto di vista di colui/colei che al momento dello sbarco è sottoposto/a ad una serie di procedure di cui non è ancora a conoscenza e di cui non comprende la portata. Spesso le persone che ci avvicinano, si lamentano di non aver capito (a causa della mancanza di elementi di identificazione) chi e a quale istituzione appartiene l’intervistatore (polizia, interprete ecc.) o capire che cosa c’è scritto nei fogli firmati al termine di tale fase».
Immaginiamo cosa accadrà ora con la messa in moto del sistema hot spot.
MSF ha riportato anche la testimonianza di una persona appena sbarcata e subito identificata e interrogata.
La persona in questione, pur avendo chiesto a voce protezione, non sa che foglio ha firmato, si è sentito trattato, stanco come era, come un criminale. Nelle conclusioni del 17 novembre MSF ha espresso tutte le proprie criticità su una struttura ancora concepita come di carattere “emergenziale” e poco attenta a rispondere ai bisogni dei beneficiari.
Il 30 dicembre, dopo un mese e mezzo in cui nulla è cambiato, MSF ha fatto la propria scelta: «Nonostante le nostre richieste, le condizioni precarie e poco dignitose in cui vengono accolti migranti e rifugiati appena sbarcati – quali sovraffollamento, scarsa informazione legale e tutela dei diritti – rischiano di rimanere la realtà del futuro – ha dichiarato Stefano di Carlo, capo missione MSF in Italia. -In queste condizioni, la nostra capacità di offrire una risposta efficace ai bisogni medici e psicologici delle persone vulnerabili – come le donne gravide, i minori e le vittime di tortura – accolte nel centro di Pozzallo e nei centri di accoglienza di Ragusa è estremamente limitata».
Nell’ultimo anno, oltre 150.000 persone sono arrivate in Italia via mare, di cui circa 15.000 sono sbarcate nel porto di Pozzallo, dove l’equipe medica di MSF – composta da medici, infermieri, psicologi e mediatori culturali – ha supportato l’Azienda Sanitaria Provinciale di Ragusa per attività di screening sanitario al momento dell’arrivo degli ospiti e servizio medico 24h/24h all’interno del CPSA di Pozzallo. Dal mese di febbraio 2015, sono state effettuate oltre 3.000 consultazioni mediche. Inoltre, nei CAS della provincia di Ragusa, MSF ha fornito oltre 800 consultazioni di supporto psicologico e assistenza a vittime di eventi traumatici. «Sempre meno attenzione viene data alla protezione delle persone più vulnerabili che arrivano provate dal lungo viaggio. Durante lo sbarco e la prima accoglienza l’aspetto medico-umanitario deve avere la priorità e il benessere psico-fisico delle persone deve essere assicurato”, ha sostenuto la Dott.ssa Federica Zamatto, responsabile medico per MSF dei programmi sulla migrazione. Proprio mentre il centro di Pozzallo si appresta a diventare un hotspot, siamo estremamente preoccupati che si trasformi nel modello della prima accoglienza in Italia, un modello che riteniamo del tutto inadeguato». MSF, che continuerà le sue attività di supporto a rifugiati e migranti in Italia in vari progetti a Trapani, Catania, Roma e Gorizia, insiste per il rispetto di condizioni adeguate di accoglienza e per l’adozione di un modello che presti maggiore attenzione alle esigenze dei soggetti più vulnerabili. A partire dallo scorso maggio, MSF ha avviato per la prima volta attività di ricerca e soccorso nel Mediterraneo. Fino ad oggi le navi di MSF hanno assistito e soccorso più di 23.000 persone. Inoltre una nuova équipe di primo soccorso psicologico d’emergenza – composta da uno psicologo e da mediatori culturali – è intervenuta in 14 occasioni in 8 porti italiani prendendosi cura di circa 2500 persone, fornendo assistenza ai sopravvissuti di eventi traumatici durante il viaggio in mare».
Ma lavorare a Pozzallo non è più possibile, nessuna risposta è stata data alle richieste fatte in commissione e la scelta è un atto di denuncia forte quanto significativo.
Sarebbe positivo se il loro esempio venisse seguito, non per sguarnire un fronte ma per costringere i dirigenti politici, locali e nazionali, le prefetture, gli enti gestori dei luoghi di accoglienza a cambiare radicalmente il proprio approccio. Un dovere che è dello Stato e dell’UE e che non può essere continuamente sopperito dal lavoro prezioso di organizzazioni serie come MSF.”(fonte: a-dif.org)

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