ILLECITI DISCIPLINARI dei magistrati

9. LA RESPONSABILITÀ DISCIPLINARE DEL MAGISTRATO. 9.1 Gli illeciti disciplinari.

Il decreto legislativo n. 109/2006 relativo alla “Disciplina degli illeciti disciplinari dei magistrati e delle relative sanzioni e della procedura per la loro applicazione” modifica in modo significativo il sistema precedente, inserendosi nell’ambito della riforma globale dell’ordinamento giudiziario approvata con la legge delega n. 150 del 2005. Il primo capo del decreto legislativo si distingue in due sezioni, una dedicata agli illeciti disciplinari dei magistrati e l’altra dedicata alle sanzioni disciplinari.

Gli illeciti disciplinari sono distinti in due categorie, da un lato le ipotesi di illeciti commessi nell’esercizio delle funzioni giudiziarie e dall’altro le ipotesi di illeciti commessi fuori dell’esercizio delle funzioni. La disciplina sostanziale è improntata ad una tendenziale tipizzazione degli illeciti disciplinari dei magistrati, sia per le condotte inerenti l’esercizio delle funzioni giudiziarie che per quelle estranee ad esse, senza la previsione di norme di chiusura.

Il primo articolo del citato decreto legislativo è dedicato ai “doveri del magistrato” e prevede una elencazione dettagliata dei doveri fondamentali cui devono attenersi i magistrati nell’esercizio delle funzioni giudiziarie. Si tratta di principi e valori deontologici essenziali per chi esercita la funzione giudiziaria e ricalca doveri ampiamente riconosciuti nell’elaborazione dottrinaria e giurisprudenziale.

Vengono quindi richiamati il dovere di imparzialità, correttezza, diligenza, laboriosità, riserbo, equilibrio nonché di rispetto della dignità della persona come principi fondamentali da osservare nell’esercizio delle funzioni di magistrato.

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L’art. 2 del decreto legislativo contiene un dettagliato elenco tassativo di ipotesi di illeciti disciplinari nell’esercizio delle funzioni, mentre l’art. 3 prevede una serie di condotte tenute fuori dell’esercizio delle funzioni che possono dar vita ad un procedimento disciplinare.

Sulla premessa che non possono mai dar luogo a responsabilità disciplinare l’attività di interpretazione di norme di diritto e quella di valutazione del fatto e delle prove, vengono individuate 25 ipotesi che costituiscono fattispecie tipiche di illecito commesso nell’esercizio delle funzioni; si indicano, a mero titolo di esempio, i comportamenti che, violando i doveri del magistrato, arrecano ingiusto danno o indebito vantaggio ad una delle parti; ovvero l’omessa comunicazione al Consiglio superiore della magistratura della sussistenza di una delle situazioni di incompatibilità parentale di cui agli artt. 18 e 19 dell’ordinamento giudiziario, nonché la consapevole inosservanza dell’obbligo di astensione; così anche i comportamenti abitualmente o gravemente scorretti nei confronti delle parti, dei loro difensori, dei testimoni o di chiunque abbia rapporti con il magistrato nell’ambito dell’ufficio giudiziario, ovvero nei confronti di altri magistrati o di collaboratori; l’ingiustificata interferenza nell’attività giudiziaria di altro magistrato e nell’omessa comunicazione al capo dell’ufficio, da parte del magistrato destinatario, delle avvenute interferenze, ed inoltre la grave violazione di legge determinata da ignoranza o negligenza inescusabile ed il travisamento dei fatti determinato da negligenza inescusabile; e numerose altre di altrettanto rilievo.

L’art. 3 del decreto legislativo elenca 8 fattispecie relative a condotte disciplinarmente rilevanti tenute fuori dell’esercizio delle funzioni. Si segnalano, ad esempio, l’uso della qualità di magistrato al fine di conseguire vantaggi ingiusti per sé o per altri; il frequentare persona sottoposta a procedimento penale o di prevenzione comunque trattato dal magistrato, o persona che a questi consta

essere stata dichiarata delinquente abituale, professionale o per tendenza o aver

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subito condanna per delitti non colposi alla pena della reclusione superiore a tre anni o essere sottoposto a misura di prevenzione, salvo che sia intervenuta riabilitazione, ovvero l’intrattenere rapporti consapevoli di affari con una di tali persone. Nonché l’assunzione di incarichi extragiudiziari senza la prescritta autorizzazione del Consiglio superiore della magistratura; ovvero la partecipazione ad associazioni segrete o i cui vincoli sono oggettivamente incompatibili con l’esercizio delle funzioni ed altresì l’iscrizione o la partecipazione sistematica e continuativa a partiti politici ovvero il coinvolgimento nelle attività di soggetti operanti nel settore economico o finanziario che possono condizionare l’esercizio delle funzioni o comunque compromettere l’immagine del magistrato.

L’art. 4 del decreto individua inoltre gli illeciti disciplinari conseguenti al reato stabilendo una specie di automatismo fra i fatti per i quali è intervenuta una condanna per delitto doloso e 52 l’azione disciplinare, mentre per i delitti colposi puniti con la reclusione, occorre riscontrare il carattere di particolare gravità per le modalità e le conseguenze del fatto.

9.2 Le sanzioni disciplinari

La seconda sezione del decreto legislativo fissa l’apparato sanzionatorio della riforma della responsabilità disciplinare. La legge prevede varie tipologie di sanzioni, che vengono adattate alle singole fattispecie disciplinari descritte in precedenza. La legge ha introdotto, infatti, l’applicazione del criterio tale crimen talis poena, come conseguenza doverosa della tipizzazione degli illeciti.

Le varie sanzioni previste dalla legge sono: a) l’ammonimento, che è un

richiamo all’osservanza dei doveri del magistrato; b) la censura, che è una

dichiarazione formale di biasimo; c) la perdita dell’anzianità, che non può essere

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inferiore a due mesi e non superiore a due anni; d) l’incapacità temporanea a esercitare un incarico direttivo o semidirettivo, che non può essere inferiore a sei mesi e non superiore a due anni; e) la sospensione dalle funzioni, che consiste nell’allontanamento dalla funzioni con la sospensione dello stipendio ed il collocamento fuori dal ruolo organico della magistratura; f) la rimozione, che determina la cessazione del rapporto di servizio.

Vi è poi la sanzione accessoria del trasferimento d’ufficio che il giudice disciplinare può adottare quando infligge una sanzione più grave dell’ammonimento, mentre tale sanzione ulteriore è sempre adottata in taluni casi specificamente individuati dalla legge.

Il trasferimento d’ufficio può anche essere adottato come misura cautelare e provvisoria, ove sussistano gravi elementi di fondatezza dell’azione disciplinare e ricorrano motivi di particolare urgenza.

9.3 Il procedimento disciplinare

Il procedimento disciplinare ha carattere giurisdizionale ed è regolato dalle norme del codice di procedura penale, in quanto compatibili. Il giudice disciplinare è un organo collegiale che si identifica nella Sezione disciplinare del C.S.M., composta da sei membri: il Vice Presidente del Consiglio superiore, che la presiede, e cinque componenti eletti dallo stesso C.S.M. tra i propri membri, dei quali uno eletto dal Parlamento, un magistrato di cassazione con effettive funzioni di legittimità e tre magistrati di merito.

Il procedimento disciplinare è promosso dal Ministro della Giustizia e dal Procuratore Generale presso la Corte di Cassazione. L’esercizio dell’azione

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disciplinare è stato trasformato per il Procuratore Generale da discrezionale in obbligatorio, mentre per il Ministro permane discrezionale.

L’obbligatorietà dell’azione disciplinare si collega alla scelta della tipizzazione degli illeciti, molto vicina a quella operante nel settore della giustizia penale, ed impone una rigorosa osservanza del principio di certezza del diritto, tale da eliminare il più possibile le incertezze applicative.

La legge ha anche previsto una clausola generale di irrilevanza disciplinare della condotta qualora il fatto sia di “scarsa rilevanza”, clausola destinata ad operare su un piano diverso – anche se convergente quanto alla finalità – con il potere di archiviazione ad opera dello stesso Procuratore generale.

È attribuito, infatti, al Procuratore generale un potere di autonoma archiviazione quando il fatto addebitato non costituisce condotta disciplinarmente rilevante o forma oggetto di una denuncia non circostanziata, ovvero non rientra in alcuna delle previsioni tipiche individuate dalla legge, oppure infine se dalle indagini svolte il fatto risulta inesistente o non commesso.

Tale provvedimento di archiviazione viene trasmesso al Ministro della giustizia il quale entro dieci giorni può chiedere copia degli atti e nei successivi sessanta giorni può chiedere al Presidente della sezione disciplinare la fissazione di una udienza di discussione orale formulando l’incolpazione.

All’udienza le funzioni di pubblico ministero sono comunque esercitate dal Procuratore generale o da un suo sostituto.

Superato il primo stadio, la legge prevede che l’azione deve essere promossa entro un anno dalla notizia del fatto, della quale il Procuratore Generale presso la Corte di Cassazione ha conoscenza a seguito dell’espletamento di sommarie indagini preliminari o di denuncia circostanziata o di segnalazione del Ministro della Giustizia. Secondo il decreto legislativo, poi, entro due anni dall’inizio del

procedimento il Procuratore generale deve formulare le richieste conclusive ed

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entro due anni dalla richiesta, la Sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura si pronuncia. La legge ha inoltre stabilito che non può essere promossa azione disciplinare quando siano decorsi dieci anni dal fatto.

Dell’inizio dell’azione disciplinare deve essere data comunicazione all’incolpato entro trenta giorni e l’incolpato può farsi assistere da un altro magistrato o da un avvocato.

Successivamente le indagini vengono svolte dal Procuratore generale, il quale formula le sue richieste inviando il fascicolo alla sezione disciplinare del C.S.M., e dandone comunicazione all’incolpato. Il Procuratore generale, se non ritiene di dovere chiedere la declaratoria di non luogo a procedere, formula l’incolpazione e chiede la fissazione dell’udienza di discussione orale.

I momenti di intervento del Ministro della giustizia nel procedimento disciplinare si individuano, oltre che nel promuovimento dell’azione disciplinare con la richiesta di indagini, nella richiesta di estensione ad altri fatti dell’azione disciplinare promossa dal Procuratore generale, nel potere di formulare un’integrazione della contestazione disciplinare in caso di azione promossa dal Procuratore Generale e di chiedere la modificazione della contestazione disciplinare in caso di azione promossa da lui medesimo, nel potere di formulare l’imputazione e di chiedere autonomamente la fissazione del giudizio disciplinare in tutti i casi in cui dissente dalla richiesta di proscioglimento avanzata dal Procuratore Generale.

La discussione nel giudizio disciplinare avviene in udienza pubblica con la relazione di uno dei componenti della Sezione disciplinare, l’acquisizione d’ufficio di ogni prova utile, la lettura di rapporti, ispezioni, atti e prove acquisite in istruttoria, nonché l’esibizione di documenti. La sezione disciplinare delibera sentite le parti e la decisione può essere impugnata dinanzi alle Sezioni unite civili

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della Corte di cassazione, mentre la sentenza divenuta irrevocabile può essere soggetta comunque a revisione.

10. LA RESPONSABILITÀ CIVILE DEL MAGISTRATO.

La responsabilità disciplinare consegue alla violazione dei doveri funzionali che il magistrato assume nei confronti dello Stato nel momento della nomina. Diversa ed ulteriore è la responsabilità civile che il magistrato assume, invece, nei confronti delle parti processuali o di altri soggetti a causa di eventuali errori o inosservanze compiute nell’esercizio delle sue funzioni.

Tale ultima forma di responsabilità, analoga a quella di qualunque altro pubblico dipendente, trova il suo fondamento nell’art. 28 Cost.

La materia, dopo gli esiti di una consultazione referendaria che ha importato l’abrogazione della previdente disciplina, fortemente limitativa dei casi di responsabilità civile del giudice, trova la sua attuale regolamentazione nella l. 13 aprile 1988, n. 117.

Sotto il profilo sostanziale, la legge afferma il principio della risarcibilità di qualunque danno ingiusto conseguente ad un comportamento, atto o provvedimento giudiziario posto in essere da un magistrato con «dolo» o «colpa grave» nell’esercizio delle sue funzioni ovvero conseguente «a diniego di giustizia» (art. 2).

La legge, dopo avere puntualmente fornito le nozioni di «colpa grave» (art. 2, comma 3) e del «diniego di giustizia» (art. 3), chiarisce, comunque, che non possono dare luogo a responsabilità l’attività di interpretazione di norme di diritto e quella di valutazione del fatto e delle prove (art. 2, comma 2): sotto questo profilo, all’evidenza, la tutela delle parti è esclusivamente endoprocessuale,

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attraverso il ricorso al sistema delle impugnazioni del provvedimento giurisdizionale che si assume viziato.

Ferma restando l’insindacabilità nel merito dell’attività giurisdizionale, può esservi eventualmente spazio per la responsabilità disciplinare del magistrato, laddove, secondo la costante giurisprudenza della Sezione disciplinare del C.S.M., ci si trovi in presenza di un’abnorme o macroscopica violazione di legge ovvero di un uso distorto della funzione giudiziaria.

Sotto il profilo processuale, va segnalato che la responsabilità per il risarcimento dei danni grava sullo Stato, nei confronti del quale il danneggiato può agire (art. 4); in caso di affermazione della sua responsabilità lo Stato può rivalersi, a determinate condizioni, sul magistrato (art. 7).

L’azione di responsabilità e il relativo procedimento soggiacciono a regole particolari: tra esse, le più significative riguardano la subordinazione della procedibilità dell’azione all’esperimento di tutti i mezzi ordinari d’impugnazione e degli altri rimedi per la modifica o la revoca del provvedimento che si assume causativo di danno ingiusto e la previsione di un termine di decadenza per l’esercizio di essa (art. 4); la delibazione dell’ammissibilità dell’azione, ai fini del controllo dei relativi presupposti, del rispetto dei termini e della valutazione della eventuale «manifesta infondatezza» (art. 5); la facoltà d’ intervento del magistrato nel giudizio contro lo Stato (art. 6).

Per garantire la trasparenza e l’imparzialità del giudizio, nel sistema è configurato lo spostamento della competenza a conoscere delle cause di che trattasi (artt. 4 e 8), onde evitare che possa essere chiamato a conoscerne un giudice dello stesso ufficio nel quale presta o ha prestato servizio il magistrato dalla cui attività si assume essere derivato un danno ingiusto. I criteri di individuazione del giudice competente sono stati modificati, con l. 2 dicembre

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1998, n. 420, proprio per evitare qualsivoglia rischio di pregiudizio nella cognizione delle cause di che trattasi.

11. LA RESPONSABILITÀ PENALE DEL MAGISTRATO.

Sotto il profilo penale non è revocabile in dubbio che il magistrato, quale pubblico ufficiale, possa essere chiamato a rispondere dei reati propri che presuppongono tale qualifica soggettiva (esemplificando: abuso d’ufficio, corruzione, corruzione in atti giudiziari, concussione, omissione di atti d’ufficio, ecc.); così come, parallelamente, può rivestire la qualità di persona offesa, unitamente allo Stato, dei reati commessi dai privati in danno della pubblica amministrazione (l’ipotesi tipica è quella dell’oltraggio e, in particolare, dell’oltraggio in danno di magistrato in udienza).

In proposito, va ricordato che con la già citata l. 2 dicembre 1998, n. 420 è stata profondamente riformata la disciplina della competenza per i procedimenti riguardanti i magistrati, al fine di garantire, anche sotto il profilo della trasparenza, la massima autonomia di giudizio ai magistrati chiamati a giudicare di procedimenti che vedono, a vario titolo, interessati altri colleghi.

Si è intervenuti, in maniera significativa, sulle regole processuali penali (artt. 11 c.p.p. e 1 disp. att. c.p.p.), con la costruzione di un meccanismo di individuazione del giudice competente tale da evitare il rischio delle competenze «reciproche» (o «incrociate»).

Il medesimo meccanismo, tra l’altro, opera anche in sede civile, allorquando un magistrato ne sia parte, limitatamente ai giudizi concernenti le restituzioni ed il risarcimento del danno da reato.

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