Cass.ne sent.26027/2011 sull’ art.14 c.5 ter immigrazione


 REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Udienza pubblica
Dott. GRASSI Aldo Presidente del 08/06/2011
Dott. OLDI Paolo Consigliere SENTENZA
Dott. DE BERARDINIS Silvana Consigliere N. 1486
Dott. LAPALORCIA Grazia rel. Consigliere REGISTRO GENERALE
Dott. DE MARCHI ALBENGO Paolo Consigliere N. 40020/2010
ha pronunciato la seguente:

SENTENZA
sul ricorso proposto da:
1) MAROUANI HASSEN, N. IL 31/07/1984;
avverso la sentenza n. 1544/2009 CORTE APPELLO di BRESCIA, del 19/01/2010;
visti gli atti, la sentenza e il ricorso;
udita in PUBBLICA UDIENZA del 08/06/2011 la relazione fatta dal Consigliere Dott. GRAZIA LAPALORCIA;
Udito il Procuratore Generale in persona del Dott. Izzo G., che ha concluso per l’annullamento senza rinvio della sentenza impugnata, non essendo il fatto più previsto dalla legge come reato. RITENUTO IN FATTO
Con sentenza 23-6-2009 la prima sezione di questa corte annullava con rinvio alla Corte d’Appello di Brescia la decisione in data 20-5-2006 con la quale il Tribunale di Bergamo, ad esito di giudizio abbreviato, aveva assolto MAROUANI HASSEN dal reato di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 14, comma 5 ter, per inottemperanza all’ordine del questore di allontanamento dal territorio nazionale, a seguito di espulsione amministrativa.
L’annullamento era motivato sul rilievo che l’allegazione della situazione ostativa all’allontanamento – integrante scriminante non codificata – non consentiva di pervenire a pronuncia assolutoria in assenza di accertamenti sia in ordine alla corrispondenza alla realtà, che in ordine alla congruità della giustificazione addotta dall’imputato.
La Corte d’Appello di Brescia, rilevato che l’allegazione dell’esigenza di dover provvedere al sostentamento di parenti residenti in Marocco, non era accompagnata neppure dalla dimostrazione dell’esistenza di tali parenti, e che comunque lo stesso Marouani aveva riferito che alcuni di costoro lavoravano, sì da non essere neppure provato l’effettivo bisogno delle rimesse di denaro ipoteticamente provenienti dall’Italia, ha dichiarato, con sentenza 19-1-2010, l’imputato responsabile del reato ascritto condannandolo alla pena di legge (la minima, con generiche e diminuente dell’abbreviato, nonché sospensione condizionale). Ricorre personalmente Marouani con unico motivo, deducendo violazione di legge e vizio di motivazione.
La corte è incorsa in mancanza assoluta di motivazione non avendo verificato l’eventuale sussistenza di altre ipotesi integranti giustificato motivo della permanenza in Italia, alcune delle quali possono essere rilevate direttamente dal giudice, e non avendo comunque considerato l’assoluta carenza dell’elemento psicologico del reato.
Il ricorrente richiama inoltre le possibili ripercussioni sotto il profilo della illegittimità “comunitaria” di norme quale quella in esame, a seguito dell’attuazione della direttiva 2008/115/CE (ed direttiva rimpatri).
Si chiede quindi l’annullamento della sentenza.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso è fondato.
A seguito della scadenza, il 24-12-2010, del termine per l’attuazione della direttiva comunitaria 2008/115 (intitolata “Norme e procedure comuni applicabili negli Stati membri al rimpatrio di cittadini di paesi terzi il cui soggiorno è irregolare”), è divenuto attuale il richiamo ad essa effettuato dal ricorrente in vista delle sue ripercussioni sul reato ascritto, peraltro rilevabili d’ufficio. Conformemente al recente orientamento di questa corte e a quello dottrinale (P. Cervo), l’inutile decorso del termine per l’attuazione della direttiva, ne determina l’applicazione immediata, con conseguente disapplicazione della norma interna in contrasto. Ciò secondo il principio sancito dalla sentenza CEG 15.7.1964 (causa 4/64 Costa/Enel), secondo cui il giudice dello Stato membro è tenuto a dare integrale applicazione al diritto comunitario disapplicando le disposizioni eventualmente contrastanti della legge interna, sia anteriore che successiva, nonché secondo quanto affermato da Corte Cost. 170/84 e 389/89, secondo cui “nel campo riservato alla loro competenza, le norme comunitarie direttamente applicabili prevalgono rispetto alle norme nazionali, anche se di rango legislativo”. Sempre che, s’intende, come in subiecta materia, le previsioni della direttiva siano in blocco self executing, il che avviene quando: 1) sia scaduto inutilmente il termine di recepimento; 2) abbiano contenuto precettivo chiaro ed incondizionato, sicché non occorre l’emanazione di atti da parte delle autorità nazionali; 3) prevedano per l’individuo effetti giuridici favorevoli nei confronti dell’ordinamento (c.d. effetto verticale della direttiva). Condizioni tutte nella specie realizzate.
E che in particolare la normativa di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 14, comma 5 ter sia in contrasto con quella comunitaria, discende da quanto segue.
Sempre sulla scorta dell’orientamento sopra richiamato, si osserva, partendo dal deliberato del Consiglio Europeo di Bruxelles del 4 e 5 novembre 2004, che la direttiva si propone di “definire una politica di rimpatrio efficace” allo scopo di garantire la corretta gestione delle politiche di immigrazione; a tal fine, va preferito il rimpatrio volontario al rimpatrio forzato, concedendo allo straniero un termine compreso tra i sette ed i trenta giorni per lasciare lo Stato, eventualmente prorogabile in relazione al caso concreto. Al rimpatrio forzato dovrebbe dunque procedersi solo se quello volontario si riveli in concreto inattuabile. In tali casi la direttiva consente l’adozione di misure coercitive funzionali all’espulsione, che devono però rispondere ai principi di proporzionalità e di efficacia rispetto all’obiettivo perseguito, cioè il rimpatrio dello straniero. In quest’ottica, il trattenimento in un centro del genere dei CIE rappresenta l’extrema ratio, potendo essere disposto solo se le altre misure progressivamente indicate dalla direttiva (quali l’obbligo di presentarsi periodicamente all’autorità, di prestare adeguata cauzione, di consegnare i documenti, o di dimorare in un determinato luogo) si rivelino insufficienti, ed in ogni caso deve essere strettamente limitato all’esecuzione del rimpatrio.
Tale varietà e gradualità di misure cautelari-amministrative, risulta quindi distonico rispetto al sistema italiano, che contempla il trattenimento nei CIE come unica misura coercitiva finalizzata all’espulsione del clandestino, in contrasto con la esplicita richiesta della direttiva, che vuole sia garantito “il pieno rispetto” dei diritti fondamentali e della dignità del soggetto da espatriare.
Se dunque si confrontano la disciplina italiana previgente al 24 dicembre 2010 e quella introdotta dalla direttiva in esame, non pare possibile una interpretazione della normativa interna conforme a quella comunitaria in materia di rimpatri, neppure se si tiene conto che la prassi applicativa privilegia l’ordine di allontanamento del questore all’esecuzione coattiva dell’espulsione. Infatti ciò non vale certo a rendere il sistema italiano conforme agli standard fissati dalla direttiva, sia perché, nelle intenzioni del legislatore italiano, l’ordine di allontanamento è un succedaneo dell’esecuzione coattiva dell’espulsione, sia perché i termini concessi allo straniero dall’ordine di allontanamento, sono pur sempre inferiori a quelli stabiliti dalla direttiva. Poiché le norme incriminatici di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 14, comma 5 ter e comma 5 quater sanzionano l’inosservanza di ordini che costituiscono parte integrante di una procedura amministrativa di rimpatrio ai sensi della direttiva, l’eventuale difformità di tale procedura rispetto almeno alle norme della direttiva dotate di effetto diretto, determinerà l’illegittimità dello stesso provvedimento del Questore la cui inottemperanza viene penalmente sanzionata, e/o del decreto di espulsione che ne costituisce il presupposto; con conseguente obbligo per il giudice penale di disapplicare il provvedimento medesimo ex L. 20 marzo 1865, n. 2248, art. 5, all. E, e di assolvere quindi l’imputato per insussistenza di un presupposto del reato.
Anzi la stessa previsione dei delitti di cui al D.Lgs. n. 286 del 1989, art. 14, comma 5 ter e comma 5 quater, con i loro gravosi effetti sulla libertà personale dello straniero, conduce ad un risultato di sostanziale elusione delle garanzie stabilite dalla direttiva UE, finendo così per pregiudicarne ogni effetto utile, in violazione del principio di leale collaborazione dello Stato italiano con le istituzioni europee; con conseguente illegittimità comunitaria delle relative incriminazioni, le quali dovranno pertanto essere tout court disapplicate dal giudice ordinario. Segue l’annullamento senza rinvio della sentenza impugnata per abolitio criminis.
P.Q.M.
La Corte annulla senza rinvio la sentenza impugnata, non essendo il fatto più previsto dalla legge come reato.
Così deciso in Roma, il 8 giugno 2011.
Depositato in Cancelleria il 1 luglio 2011








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