Sentenze Europee sull’immigrazione clandestina e di condanna dell’Italia (Sarigiannis; Hirsi ; Mannai;Severovic)

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Sentenza

Provvedimento del 05/04/2011 Seconda Sezione
Caso: SARIGIANNIS contro ITALIA.
Numero del Ricorso: 14569/05
Presidente: Françoise Tulkens.
Caso di Rilievo
Abstract
Riferimento al file originario – sintesi Sarigiannis.doc


Diritto alla libertà e alla sicurezza – In materia di controlli sui viaggiatori da parte della polizia di frontiera – Principio di legalità – Esecuzione di un obbligo prescritto dalla legge – Violazione dell’art. 5 CEDU – Non sussiste. Divieto di trattamenti inumani e degradanti – In ordine all’uso della forza in relazione alle circostanze del caso – Violazione dell’art. 3 CEDU – Sussiste

In caso di privazione della libertà personale è di fondamentale importanza osservare il principio generale della sicurezza giuridica. È quindi essenziale che siano chiaramente definite le condizioni della privazione della libertà in virtù del diritto interno e la legge stessa prevedibile nella sua applicazione, così da soddisfare il principio di legalità stabilito dalla Convenzione, secondo il quale qualsiasi legge deve essere sufficientemente precisa per evitare ogni rischio di arbitrio. Nel caso di specie, non integra la violazione dell’art. 5, par. 1 lettera b), CEDU, il comportamento degli agenti di polizia che, in esecuzione di un obbligo prescritto dalla legge italiana, trattengano presso i locali della polizia chiunque si rifiuti di dare le proprie generalità.
L’art. 3 CEDU, pur non vietando il ricorso alla forza da parte degli agenti di polizia durante un fermo per accertamenti, assoggetta tale uso della forza a specifici requisiti di proporzione e necessità alla luce delle circostanze del caso. Nel caso di specie, la Corte ha ritenuto che, considerata la gravità delle lesioni personali constatate, i ricorrenti sono stati sottoposti a maltrattamenti di gravità superiore a quella soglia minima sufficiente a far scattare l’applicazione dell’articolo 3 della Convenzione, ed ha pertanto constatato la violazione dell’art. 3 CEDU.
Fatto. La sentenza prende le mosse da un ricorso presentato nel 2005 da due cittadini francesi, Georges e François Sarigiannis, rispettivamente padre e figlio, nei confronti della Repubblica italiana. In particolare, i ricorrenti lamentavano la violazione degli artt. 3 e 5 della Convenzione per maltrattamenti e detenzione irregolare e ingiustificata subiti per mano di quattro agenti della polizia italiana durante un controllo delle generalità effettuato all’aeroporto “Leonardo da Vinci” di Fiumicino.
Il 30 giugno 2002, dopo essere atterrata con un volo proveniente da Parigi, la Sig.ra Sarigiannis, che viaggiava in compagnia dei due ricorrenti e della figlia, fu fermata dagli agenti per un controllo del passaporto. Tale situazione allarmò il primo ricorrente e marito della signora al quale, tornato indietro per chiedere spiegazioni circa il trattenimento della moglie, fu ugualmente intimato di sottoporsi ai controlli. Ribadita la richiesta di chiarimenti, i sigg. Sarigiannis, mentre il figlio era accorso in aiuto del padre, furono fatti entrare in due diversi uffici della Guardia di Finanza dai quali uscirono, un’ora e mezza più tardi con ecchimosi e visibilmente provati. Presso il pronto soccorso dell’ospedale “San Carlo di Nancy” di Roma, ai ricorrenti furono constatati trauma cranico, contusioni ed escoriazioni varie.
Dopo aver sporto querela nei confronti degli agenti per i reati di lesioni, sequestro di persona e abuso di ufficio, i sigg. Sarigiannis furono a loro volta segnalati al Tribunale di Civitavecchia per aver commesso i reati di violenza e resistenza a pubblico ufficiale ai sensi degli artt. 336 e 337 del codice penale.
I due procedimenti penali furono riuniti presso il Tribunale di Civitavecchia, competente per territorio e, il 13 ottobre del 2003, accolta la richiesta del pubblico ministero, il giudice per le indagini preliminari archiviò i procedimenti riuniti vista l’impossibilità di stabilire se l’intervento degli agenti fosse legittimo e proporzionato rispetto alla condotta dei ricorrenti.
Il GIP di Civitavecchia osservò come, da un lato, l’intervento degli agenti di polizia incaricati della sicurezza dell’aeroporto era stato giustificato dal comportamento scorretto del primo ricorrente, il quale, allarmato, si era introdotto nella sala di consegna dei bagagli dove si trovava la moglie, malgrado il divieto in vigore, rendendo così necessario il controllo delle generalità all’origine del successivo scontro fisico. Dall’altro lato, in considerazione dei tratti orientali della Sig.ra Sarigiannis, lo stesso GIP ritenne probabile che le proteste del marito fossero state motivate dal sospetto di un atteggiamento discriminatorio nei confronti della moglie non considerando, così, l’atteggiamento dei signori Sarigiannis, in un primo momento, violento o sproporzionato.
In tale provvedimento il GIP inoltre sottolineò che tanto gli agenti di polizia quanto i ricorrenti avevano subito delle lesioni e la natura delle ferite di questi ultimi era compatibile con l’intento di immobilizzarli, avallando, in questo modo, la versione dei fatti fornita dagli agenti e considerando la tesi circa i maltrattamenti subiti, sostenuta dai ricorrenti, poco credibile.
Diritto. La Corte ha preliminarmente considerato ricevibile il ricorso in quanto non manifestamente infondato ai sensi dell’art. 35 della CEDU.
Nel merito, la Corte si è pronunciata riconoscendo la violazione dell’art. 3 CEDU in ordine al divieto di trattamenti inumani e degradanti. Al contrario, non ha riscontrato la violazione dell’art. 5 CEDU relativo al diritto alla libertà e alla sicurezza.
Sull’articolo 5 CEDU (legalità dei casi di privazione della libertà).
Nel caso di specie, i ricorrenti avevano addotto di essere stati sottoposti ad una detenzione, da loro definita «sequestro aggravato», non prevista dalla legge né in alcun modo giustificata dalle circostanze del caso, in palese violazione dell’art. 5 della CEDU. Al riguardo, hanno evidenziato come il criticato controllo delle generalità risultasse discriminatorio e ingiustificato transitando questi all’interno dello spazio Schengen(L’Accordo di Schengen ha come obiettivo, tra gli altri, proprio l’abolizione dei controlli sistematici delle persone alle frontiere interne dello spazio Schengen) e non trovandosi in una zona vietata dell’aeroporto.
Il Governo italiano, al contrario, ha affermato non solo la necessità del trattenimento dei ricorrenti alla luce della legislazione in vigore (gli agenti avevano ritenuto di avviare la procedura di identificazione prevista dall’art. 11 del Dl n.59/78 visto il comportamento equivoco dei ricorrenti in una zona invalicabile dell’aeroporto e, stando agli atti del Gip italiano, il loro accertato rifiuto di farsi identificare), ma anche che l’ingerenza nel diritto alla libertà dei ricorrenti mirava, quale scopo legittimo, alla tutela dell’ordine pubblico ed era proporzionata allo scopo perseguito.
La Corte al riguardo ha ricordato, innanzitutto, che l’art. 5 CEDU esige che la detenzione sia regolare e che rispetti tutti i canoni previsti dalla legge nazionale. Inoltre, ha rammentato che la Convenzione enumera un elenco tassativo di casi in cui è consentita la privazione della libertà personale. Tale elenco è esaustivo e risponde allo scopo di garantire che nessuno ne sia privato arbitrariamente (Vasileva c. Danimarca, 25 settembre 2003). In caso di privazione della libertà personale, inoltre, è essenziale che siano chiaramente definite le condizioni di tale privazione, in virtù del diritto interno, e la legge stessa prevedibile nella sua applicazione, così da soddisfare il principio di «legalità» stabilito dalla Convenzione, secondo il quale qualsiasi legge deve essere sufficientemente precisa per evitare ogni rischio di arbitrio (Nasrulloyev c. Russia, ricorso n. 656/06; Khudoyorov c. Russia, ricorso n. 6847/02).
Ciò premesso, la Corte ha considerato che il trattenimento dei ricorrenti fosse stato disposto al fine di garantire l’esecuzione di un obbligo prescritto dalla legge italiana ovvero, nel caso di specie, quello di dichiarare le proprie generalità su richiesta degli agenti con la possibilità in capo a questi ultimi, di trattenere nei locali della polizia chiunque si rifiuti di adempierlo (si veda l’art. 11 del Dl. n. 59 del 78) e tutto ciò in conformità con l’art. 5, par. 1, lett. b) CEDU. Inoltre, affinché la detenzione sia giustificata ai sensi dell’articolo 5 citato l’obbligo in questione deve risultare specifico e concreto.
Al riguardo, la Corte ha valutato l’obbligo di collaborare con la polizia nel caso di specie come sufficientemente specifico e concreto. Inoltre, a giudizio della Corte, l’accertata breve durata del trattenimento dei ricorrenti negli uffici della Guardia di Finanza dell’aeroporto di Fiumicino, unita alle circostanze del caso, ha condotto alla conclusione che sia stato rispettato un certo ed equo equilibrio tra l’importanza di garantire l’esecuzione immediata dell’obbligo di legge in questione, fondamentale in una società democratica, e l’importanza del diritto alla libertà dei ricorrenti non potendosi rivelare, quindi, una violazione del diritto alla libertà personale.
Sull’articolo 3 CEDU (divieto di tortura e trattamenti degradanti).
In ordine alla presunta violazione dell’art. 3 CEDU, lamentata dai ricorrenti, la Corte ha preliminarmente ricordato che tale articolo sancisce uno dei valori fondamentali propri di ogni società che si definisce democratica: il divieto di tortura e di trattamenti inumani e degradanti. La Convenzione prevede tale divieto in termini assoluti senza restrizioni o deroghe neanche in caso di pericolo pubblico che minacci la vita della nazione. (Selmouni c. Francia, ricorso n. 25803/94). Inoltre, affinché si possa far rientrare nel campo di applicazione dell’art. 3, un maltrattamento deve raggiungere un minimo di gravità. Tale parametro dipende da un insieme di fattori, tra i quali: gli elementi della causa, la durata del maltrattamento, le conseguenze fisiche e psicologiche dello stesso nonché dal sesso, dall’età e dallo stato di salute della vittima.
Nella valutazione di tali elementi, la Corte ha aderito al principio della prova “al di là di ogni ragionevole dubbio”. Ha precisato, però, che una tale prova può ben risultare anche da un insieme di indizi o da presunzioni non confutate che siano sufficientemente gravi, precise e concordanti (Jalloh c. Germania, ricorso n. 54810/00; Ramirez Sanchez c. Francia, ricorso n. 59450/00). Del resto, quando un individuo si trova privato della libertà, l’uso della forza fisica che non risulti strettamente necessario alla luce del comportamento di tale individuo, lede la dignità umana e costituisce, in linea di principio, una violazione del diritto sancito dall’art. 3 (Ribitsch c. Austria, sentenza del 4 dicembre 1995 e Tekin c. Turchia, sentenza del 9 giugno 1998).
Parimenti, la Corte ha rilevato che l’art. 3 CEDU, pur non vietando il ricorso alla forza da parte degli agenti di polizia durante un fermo per accertamenti, assoggetta tale uso della forza a specifici requisiti di proporzione e necessità alla luce delle circostanze del caso (si veda, tra molte altre, Rehbock c. Slovenia, ricorso n. 29462/95; Altay c. Turchia, ricorso n. 22279/93).
Nel caso di specie, i certificati medici riguardanti la liberazione dei ricorrenti, attestino gravi lesioni effettivamente subite nel corso del trattenimento presso gli uffici. Sulla base di questi elementi di prova, che il Governo non ha contestato, la Corte ha ritenuto che, considerata la gravità delle lesioni personali constatate, i ricorrenti siano stati sottoposti a maltrattamenti di gravità superiore a quella soglia minima sufficiente a far scattare l’applicazione dell’articolo 3 della Convenzione (Afanassïev c. Ucraina, ricorso n. 38722/02; Sashov ed altri c. Bulgaria, ricorso n. 14383/03).
In ordine alla proporzione e alla necessità dell’uso della forza esercitata dagli agenti in relazione al comportamento dei Sigg. Sarigiannis, la Corte ne ha riconosciuto la necessità, viste le circostanze del caso, ma ha manifestato una certa perplessità in ordine alla sussistenza del requisito della proporzionalità. La Corte ha osservato, infatti, che se una parte delle lesioni subite dagli interessati, in particolare a livello delle braccia e delle gambe, è sembrata compatibile con l’obiettivo di immobilizzarli ed ammanettarli, come sostenuto dal Governo, le numerose ferite a livello della testa e del volto dei ricorrenti non hanno trovato spiegazione né da parte delle autorità nazionali né da parte del Governo. Inoltre, i ricorrenti, stranieri e con difficoltà ad esprimersi in italiano, furono trattenuti separatamente, nell’impossibilità di comunicare tra loro e con la Sig. Sarigiannis la quale, in compagnia della figlia, si trovavano in comprensibile stato di apprensione.
In conclusione, la Corte ha riconosciuto che la situazione era tale da causare sofferenze fisiche e mentali nei ricorrenti e, tenuto conto delle circostanze del caso, da infondere in loro anche paura, angoscia e senso di inferiorità tali da umiliare, avvilire ed eventualmente vincere la loro resistenza fisica e mentale. Sono questi gli elementi che hanno indotto la Corte a ritenere che i maltrattamenti inflitti ai ricorrenti siano stati inumani e degradanti tali da violare l’art. 3 CEDU.
(A CURA DELL’AVVOCATURA DELLA CAMERA DEI DEPUTATI)

Riferimenti normativi: Conv. Eur. Dir. Uomo art. 3
Conv. Eur. Dir. Uomo art. 5
Decreto Legge 21/03/1978 num. 59 art. 11
Legge 04/08/1955 num. 848 art. 3
Legge 04/08/1955 num. 848 art. 5
Vedi: 54810/00 11/07/2006
59450/00 04/07/2006
14383/03 07/01/2010
29462/95 28/11/2000
22279/93 22/05/2001
41461/02 24/07/2008
69908/01 11/04/2006
52792/99 25/09/2003
656/06 11/10/2007
6847/02 08/11/2005
28358/95 28/03/2000
19776/92 25/06/1996
*** riferimenti *** Caso JALLOH contro GERMANIA Data della Decisione 11/07/2006 Numero del Ricorso 54810/00
Caso RAMIREZ SANCHEZ contro FRANCIA Data della Decisione 04/07/2006 Numero del Ricorso 59450/00
Caso SASHOV ET AUTRES contro BULGARIA Data della Decisione 07/01/2010 Numero del Ricorso 14383/03
Caso REHBOCK contro SLOVENIA Data della Decisione 28/11/2000 Numero del Ricorso 29462/95
Caso ALTAY contro TURCHIA Data della Decisione 22/05/2001 Numero del Ricorso 22279/93
Caso VLADIMIR ROMANOV contro RUSSIA Data della Decisione 24/07/2008 Numero del Ricorso 41461/02
Caso Pejrusan JAŠAR contro EX REPUBBLICA YUGOSLAVIA DI MACEDONIA Data della Decisione 11/04/2006 Numero del Ricorso 69908/01
Caso VASILEVA contro DANIMARCA Data della Decisione 25/09/2003 Numero del Ricorso 52792/99
Caso NASRULLOYEV contro RUSSIA Data della Decisione 11/10/2007 Numero del Ricorso 656/06
Caso KHUDOYOROV contro RUSSIA Data della Decisione 08/11/2005 Numero del Ricorso 6847/02
Caso BARANOWSKI contro POLONIA Data della Decisione 28/03/2000 Numero del Ricorso 28358/95
Caso AMUUR contro FRANCIA Data della Decisione 25/06/1996 Numero del Ricorso 19776/92

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Provvedimento del 23/02/2012 Grande Camera
Caso: HIRSI JAMAA contro ITALIA.
Numero del Ricorso: 27765/09
Presidente: Nicolas Bratza.
Caso di Rilievo
Sentenza
Riferimento al file originario – 185ut12 Hirsi c. Italia.doc

Questa sentenza è definitiva. Può subire modifiche di forma.
La Corte europea dei diritti dell’uomo, riunita in una Grande Camera composta da:
Nicolas Bratza, presidente,
Jean-Paul Costa,
Françoise Tulkens,
Josep Casadevall,
Nina Vajić,
Dean Spielmann,
Peer Lorenzen,
Ljiljana Mijović,
Dragoljub Popović,
Giorgio Malinverni,
Mirjana Lazarova Trajkovska,
Nona Tsotsoria,
Işıl Karakaş,
Kristina Pardalos,
Guido Raimondi,
Vincent A. de Gaetano,
Paulo Pinto de Albuquerque, giudici,
e da Michael O’Boyle, cancelliere aggiunto,
Dopo aver deliberato in camera di consiglio il 22 giugno 2011 e il 19 gennaio 2012,
Rende la seguente sentenza, adottata in quest’ultima data:

PROCEDURA
1. All’origine della causa vi è un ricorso (n. 27765/09) presentato contro la Repubblica italiana e con cui undici cittadini somali e tredici cittadini eritrei («i ricorrenti»), i cui nomi e date di nascita sono riportati nella lista allegata alla presente sentenza, hanno adito la Corte il 26 maggio 2009 in applicazione dell’articolo 34 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali («la Convenzione»).
2. I ricorrenti sono rappresentati dagli avv. A.G. Lana e A. Saccucci, del foro di Roma. Il Governo italiano («il Governo») è rappresentato dal suo agente, E. Spatafora, e dal suo co-agente, S. Coppari.
3. I ricorrenti sostenevano in particolate che il loro trasferimento verso la Libia da parte delle autorità italiane aveva violato gli articoli 3 della Convenzione e 4 del Protocollo n. 4, e denunciavano l’assenza di un ricorso conforme all’articolo 13 della Convenzione, che avrebbe permesso loro di fare esaminare i motivi di ricorso sopra citati.
4. Il ricorso è stato assegnato alla seconda sezione della Corte (articolo 52 § 1 del regolamento della Corte). Il 17 novembre 2009 una camera di tale sezione ha deciso di comunicare il ricorso al Governo. Il 15 febbraio 2011 la camera, composta dai seguenti giudici: Françoise Tulkens, presidente, Ireneu Cabral Barreto, Dragoljub Popović, Nona Tsotsoria, Isil Karakas, Kristina Pardalos, Guido Raimondi, e da Stanley Naismith, cancelliere di sezione, ha rimesso la causa alla Grande Camera, in quanto nessuna delle parti si è opposta (articoli 30 della Convenzione e 72 del regolamento).
5. La composizione della Grande Camera è stata decisa conformemente agli articoli 27 §§ 2 e 3 della Convenzione e 24 del regolamento.
6. Come consentito dall’articolo 29 § 1 della Convenzione, è stato deciso che la Grande Camera si sarebbe pronunciata contestualmente sulla ricevibilità e sul merito del ricorso.
7. Sia i ricorrenti che il Governo hanno depositato delle osservazioni scritte sul merito della causa. All’udienza, ciascuna delle parti ha risposto alle osservazioni dell’altra (articolo 44 § 5 del regolamento). Sono pervenute delle osservazioni scritte anche da parte dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (HCR), di Human Rights Watch, della Columbia Law School Human Rights Clinic, del Centro di Consulenza sui Diritti Individuali in Europa (Centre AIRE), di Amnesty International nonché della Fédération internationale des ligues des droits de l’homme (FIDH), che agiscono collettivamente. Il presidente della camera li aveva autorizzati ad intervenire in applicazione dell’articolo 36 § 2 della Convenzione. Sono pervenute delle osservazioni anche da parte dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite ai diritti dell’uomo (HCDH), che il presidente della Corte aveva autorizzato a intervenire. L’HCR è stato inoltre autorizzato a partecipare alla procedura orale.
8. Una pubblica udienza si è svolta al Palazzo dei Diritti dell’Uomo, a Strasburgo, il 22 giugno 2011 (articolo 59 § 3 del regolamento).
Sono comparsi:
–per il Governo
S. COPPARI,co-agente,
G. ALBENZIO,avvocato dello Stato;
–per i ricorrenti
A.G. LANA,
A. SACCUCCI,avvocati,
A. SIRONI,assistente;
–per l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati,
terzi intervenienti
M. GARLICK, capo dell’unità per la politica generale
e il sostegno giuridico, Ufficio per l’Europa,avvocato;
C. WOUTERS, consulente principale in diritto dei rifugiati,
Divisione della protezione nazionale,
S. BOUTRUCHE, consulente giuridico dell’unità di sostegno
politica e giuridica, Ufficio per l’Europa,consiglieri.

La Corte ha sentito le dichiarazioni dei sigg. Coppari, Albenzio, Lana, Saccucci e Garlick, nonché le risposte degli stessi alle domande poste dai giudici.

IN FATTO
I.LE CIRCOSTANZE DEL CASO DI SPECIE
A.L’intercettazione e il rinvio dei ricorrenti in Libia.
9. I ricorrenti, undici cittadini somali e tredici cittadini eritrei, fanno parte di un gruppo di circa duecento persone che ha lasciato la Libia a bordo di tre imbarcazioni allo scopo di raggiungere le coste italiane.
10. Il 6 maggio 2009, quando le imbarcazioni si trovavano a trentacinque miglia marine a sud di Lampedusa (Agrigento), ossia all’interno della zona marittima di ricerca e salvataggio («zona di responsabilità SAR») che rientra nella giurisdizione di Malta, furono avvicinate da tre navi della Guardia di finanza e della Guardia costiera italiane.
11. Gli occupanti delle imbarcazioni intercettate furono trasferiti sulle navi militari italiane e ricondotti a Tripoli. I ricorrenti affermano che, durante il viaggio, le autorità italiane non li hanno informati della loro vera destinazione e non hanno compiuto alcuna procedura di identificazione.
Tutti i loro effetti personali, ivi compresi alcuni documenti attestanti la loro identità, furono confiscati dai militari.
12. Una volta arrivati al porto di Tripoli, dopo dieci ore di navigazione, i migranti furono consegnati alle autorità libiche. Secondo la versione dei fatti presentata dai ricorrenti, questi si opposero alla loro consegna alle autorità libiche, ma furono obbligati con la forza a lasciare le navi italiane.
13. Durante una conferenza stampa tenuta il 7 maggio 2009, il ministro dell’Interno italiano dichiarò che le operazioni di intercettazione delle imbarcazioni in alto mare e di rinvio dei migranti in Libia facevano seguito all’entrata in vigore, il 4 febbraio 2009, di accordi bilaterali conclusi con la Libia, e rappresentavano una svolta importante nella lotta contro l’immigrazione clandestina. Il 25 maggio 2009, in occasione di un intervento davanti al Senato, il ministro indicò che, tra il 6 e il 10 maggio 2009, più di 471 migranti clandestini erano stati intercettati in alto mare e trasferiti verso la Libia conformemente agli accordi bilaterali suddetti. Dopo aver spiegato che le operazioni erano state condotte in applicazione del principio di cooperazione tra Stati, il ministro affermò che la politica di rinvio costituiva un metodo molto efficace di lotta contro l’immigrazione clandestina. Tale politica scoraggiava le organizzazioni criminali legate al traffico illecito e alla tratta delle persone, contribuiva a salvare delle vite in mare e riduceva sensibilmente gli sbarchi di clandestini sulle coste italiane, sbarchi che, nel maggio 2009, erano stati cinque volte meno numerosi che nel maggio 2008, secondo il ministro dell’Interno.
14. Durante l’anno 2009, l’Italia procedette a nove intercettazioni di clandestini in alto mare conformemente agli accordi bilaterali con la Libia.
B.La sorte dei ricorrenti e i loro contatti con i loro rappresentanti
15. Secondo le informazioni trasmesse alla Corte dai rappresentanti dei ricorrenti due di essi, Mohamed Abukar Mohamed e Hasan Shariff Abbirahman (rispettivamente n. 10 e n. 11 della lista allegata alla presente sentenza), sono deceduti dopo i fatti in circostanze sconosciute.
16. Dopo la presentazione del ricorso, gli avvocati hanno potuto mantenere dei contatti con gli altri ricorrenti. Questi erano raggiungibili telefonicamente e tramite posta elettronica.
Tra giugno e ottobre 2009, a quattordici di essi (indicati sulla lista) è stato accordato lo status di rifugiato dall’ufficio dell’HCR di Tripoli.
17. A seguito della rivolta scoppiata in Libia nel febbraio 2011 e che ha spinto molte persone a fuggire dal Paese, la qualità dei contatti tra i ricorrenti e i loro rappresentanti è peggiorata. Gli avvocati sono attualmente in contatto con sei dei ricorrenti:
– Ermias Berhane (n. 20 della lista) è riuscito a raggiungere clandestinamente le coste italiane. Il 21 giugno 2011 la Commissione territoriale di Crotone gli ha accordato lo status di rifugiato;
– Habtom Tsegay (n. 19 della lista) si trova attualmente al campo di Choucha, in Tunisia. Desidera raggiungere l’Italia;
– Kiflom Tesfazion Kidan (n. 24 della lista) risiede a Malta;
– Hayelom Mogos Kidane e Waldu Habtemchael (rispettivamente n. 23 e n. 13 della lista) risiedono in Svizzera, dove attendono una risposta allo loro domanda di protezione internazionale;
– Roberl Abzighi Yohannes (n. 21 della lista) risiede nel Benin.
II.IL DIRITTO INTERNO PERTINENTE
A. Il codice della navigazione
18. L’articolo 4 del codice della navigazione del 30 marzo 1942, modificato nel 2002, recita:
«Le navi italiane in alto mare e gli aeromobili italiani in luogo o spazio non soggetto alla sovranità di alcuno Stato sono considerati come territorio italiano.».
B.Gli accordi bilaterali tra l’Italia e la Libia
19. Il 29 dicembre 2007 l’Italia e la Libia firmarono a Tripoli un accordo bilaterale di cooperazione per la lotta contro l’immigrazione clandestina. Lo stesso giorno, i due Paesi sottoscrissero anche un Protocollo addizionale che fissava le modalità operative e tecniche dell’esecuzione di detto accordo. L’articolo 2 dell’accordo recita:
[Traduzione (in francese. N.d.T.) della cancelleria]
«L’Italia e la Grande Giamahiria [araba libica popolare socialista] si impegnano a organizzare delle pattuglie marittime per mezzo di sei navi messe a disposizione, temporaneamente, dall’Italia. A bordo delle navi verranno imbarcati degli equipaggi misti, formati da personale libico e da agenti di polizia italiani, ai fini dell’addestramento, della formazione e dell’assistenza tecnica per l’utilizzo e la manutenzione delle navi. Le operazioni di controllo, ricerca e salvataggio saranno condotte nei luoghi di partenza e di transito delle imbarcazioni destinate al trasporto di immigrati clandestini, sia nelle acque territoriali libiche che nelle acque internazionali, nel rispetto delle convenzioni internazionali vigenti e secondo le modalità operative che saranno definite dalle autorità competenti dei due Paesi.»
L’Italia, inoltre, si impegnava a cedere alla Libia, per un periodo di tre anni, tre navi senza bandiera (articolo 3 dell’accordo) e a promuovere presso gli organi dell’Unione europea (UE) la conclusione di un accordo-quadro tra l’UE e la Libia (articolo 4 dell’accordo).
Infine, secondo l’articolo 7 dell’accordo bilaterale, la Libia si impegnava a «coordinare i propri sforzi con quelli dei Paesi di origine per la riduzione dell’immigrazione clandestina e il rimpatrio degli immigrati».
Il 4 febbraio 2009 l’Italia e la Libia sottoscrissero a Tripoli un Protocollo addizionale volto a rafforzare la collaborazione bilaterale ai fini della lotta contro l’immigrazione clandestina. Quest’ultimo Protocollo modificava in parte l’accordo del 29 dicembre 2007, in particolare con l’introduzione di un nuovo articolo che recita:
[Traduzione (in francese. N.d.T.) della cancelleria]
«I due Paesi si impegnano ad organizzare delle pattuglie marittime con equipaggi comuni formati da personale italiano e personale libico, equivalenti per numero, esperienza e competenze. Le pattuglie operano nelle acque libiche e internazionali sotto la supervisione di personale libico e con la partecipazione di equipaggi italiani, e nelle acque italiane e internazionali sotto la supervisione di personale italiano e con la partecipazione di personale libico.
La proprietà delle navi offerte dall’Italia in applicazione dell’articolo 3 dell’accordo del 29 dicembre 2007 sarà ceduta definitivamente alla Libia.
I due Paesi si impegnano a rimpatriare gli immigrati clandestini e a concludere accordi con i Paesi di origine per limitare il fenomeno dell’immigrazione clandestina».
20. Il 30 agosto 2008 l’Italia e la Libia firmarono a Bengasi il Trattato di amicizia, partenariato e cooperazione che, nel suo articolo 19, prevede degli sforzi per prevenire il fenomeno dell’immigrazione clandestina nei Paesi di origine dei flussi migratori. Ai sensi dell’articolo 6 di tale trattato, l’Italia e la Libia di impegnavano ad agire conformemente ai principi della Carta delle Nazioni Unite e della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo.
21. Secondo una dichiarazione del Ministro italiano della Difesa del 26 febbraio 2011, l’applicazione degli accordi tra Italia e Libia è stata sospesa a seguito dei fatti del 2011.
III.ELEMENTI PERTINENTI DI DIRITTO INTERNAZIONALE E DI DIRITTO EUROPEO
A.La Convenzione di Ginevra relativa allo status dei rifugiati (1951)
22. L’Italia è parte alla Convenzione di Ginevra del 1951 relativa allo status dei rifugiati («la Convenzione di Ginevra»), che definisce le modalità secondo le quali uno Stato deve accordare lo status di rifugiato alle persone che ne fanno richiesta, nonché i diritti e i doveri di tali persone. Gli articoli 1 e 33 § 1 di detta Convenzione recitano:
Articolo 1
«Ai fini della presente Convenzione, il termine «rifugiato» è applicabile a chiunque (…) nel giustificato timore d’essere perseguitato per la sua razza, la sua religione, la sua cittadinanza, la sua appartenenza a un determinato gruppo sociale o le sue opinioni politiche, si trova fuori dello Stato di cui possiede la cittadinanza e non può o, per tale timore, non vuole domandare la protezione di detto Stato; oppure a chiunque, essendo apolide e trovandosi fuori del suo Stato di domicilio in seguito a tali avvenimenti, non può o, per il timore sopra indicato, non vuole ritornarvi.»
Articolo 33 § 1
«Nessuno Stato Contraente espellerà o respingerà, in qualsiasi modo, un rifugiato verso i confini di territori in cui la sua vita o la sua libertà sarebbero minacciate a motivo della sua razza, della sua religione, della sua cittadinanza, della sua appartenenza a un gruppo sociale o delle sue opinioni politiche».
23. Nella sua nota sulla protezione internazionale del 13 settembre 2001 (A/AC.96/951, § 16), l’HCR, che ha il compito di vigilare sul modo in cui gli Stati parte applicano la Convenzione di Ginevra, ha indicato che il principio enunciato all’articolo 33, detto di «non-respingimento», era:
«un principio fondamentale di protezione al quale non sono ammesse riserve. Sotto molti aspetti, questo principio è il complemento logico del diritto di chiedere asilo riconosciuto nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo. Tale diritto ha finito per essere considerato una norma di diritto internazionale consuetudinario vincolante per tutti gli Stati. Inoltre, il diritto internazionale dei diritti dell’uomo ha stabilito che il non-respingimento è una componente fondamentale del divieto assoluto di tortura e di trattamenti crudeli, inumani o degradanti. L’obbligo di non respingere è anche riconosciuto come applicabile ai rifugiati indipendentemente dal loro riconoscimento ufficiale, il che comprende evidentemente i richiedenti asilo il cui status non è stato ancora determinato. Esso copre qualsiasi misura imputabile ad uno Stato che possa produrre l’effetto di rinviare un richiedente asilo o un rifugiato verso le frontiere di un territorio in cui la sua vita o la sua libertà sarebbero minacciate e in cui rischierebbe una persecuzione. Ciò include il rigetto alle frontiere, l’intercettazione e il respingimento indiretto, che si tratti di un individuo in cerca di asilo o di un afflusso massiccio.»
B.La Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare («Convenzione di Montego Bay») (1982)
24. Gli articoli pertinenti della Convenzione di Montego Bay recitano:
Articolo 92
Posizione giuridica delle navi
«1. Le navi battono la bandiera di un solo Stato e, salvo casi eccezionali specificamente previsti da trattati internazionali o dalla presente Convenzione, nell’alto mare sono sottoposte alla sua giurisdizione esclusiva (…).»
Articolo 94
Obblighi dello Stato di bandiera
«1. Ogni Stato esercita efficacemente la propria giurisdizione e il proprio controllo su questioni di carattere amministrativo, tecnico e sociale sulle navi che battono la sua bandiera.
(…)»
Articolo 98
Obbligo di prestare soccorso
«1. Ogni Stato deve esigere che il comandante di una nave che batte la sua bandiera, nella misura in cui gli sia possibile adempiere senza mettere a repentaglio la nave, l’equipaggio o i passeggeri:
a) presti soccorso a chiunque sia trovato in mare in condizioni di pericolo;
b) proceda quanto più velocemente è possibile al soccorso delle persone in pericolo, se viene a conoscenza del loro bisogno di aiuto, nella misura in cui ci si può ragionevolmente aspettare da lui tale iniziativa;
(…)»
C.La Convenzione internazionale sulla ricerca e il salvataggio marittimi («la Convenzione SAR») (1979, modificata nel 2004)
25. Il punto 3.1.9 della Convenzione SAR dispone:
«Le Parti devono assicurare il coordinamento e la cooperazione necessari affinché i capitani delle navi che prestano assistenza imbarcando persone in pericolo in mare siano dispensati dai loro obblighi e si discostino il meno possibile dalla rotta prevista, senza che il fatto di dispensarli da tali obblighi comprometta ulteriormente la salvaguardia della vita umana in mare. La Parte responsabile della zona di ricerca e salvataggio in cui viene prestata assistenza si assume in primo luogo la responsabilità di vigilare affinché siano assicurati il coordinamento e la cooperazione suddetti, affinché i sopravvissuti cui è stato prestato soccorso vengano sbarcati dalla nave che li ha raccolti e condotti in luogo sicuro, tenuto conto della situazione particolare e delle direttive elaborate dall’Organizzazione (Marittima Internazionale). In questi casi, le Parti interessate devono adottare le disposizioni necessarie affinché lo sbarco in questione abbia luogo nel più breve tempo ragionevolmente possibile.»
D.Il Protocollo addizionale alla Convenzione delle Nazioni Unite contro la Criminalità organizzata transnazionale per combattere il traffico illecito di migranti per via terrestre, aerea e marittima («Protocollo di Palermo») (2000)
26. L’articolo 19 § 1 del Protocollo di Palermo recita:
«Nessuna disposizione del presente Protocollo pregiudica gli altri diritti, obblighi e responsabilità degli Stati e degli individui derivanti dal diritto internazionale, compreso il diritto internazionale umanitario e il diritto internazionale relativo ai diritti dell’uomo e, in particolare, laddove applicabili, la Convenzione del 1951 e il Protocollo del 1967 relativi allo status dei Rifugiati e il principio di non respingimento ivi enunciato.»
E.La Risoluzione 1821 (2011) dell’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa
27. Il 21 giugno 2011, l’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa ha adottato la Risoluzione sull’intercettazione e il salvataggio in mare di richiedenti asilo, rifugiati e migranti in situazione irregolare, che recita:
«1. La sorveglianza delle frontiere meridionali dell’Europa è divenuta una priorità regionale. Il continente europeo si trova a dover affrontare l’arrivo relativamente importante di flussi migratori via mare provenienti dall’Africa e che giungono in Europa soprattutto attraverso l’Italia, Malta, la Spagna, la Grecia e Cipro.
2. Migranti, rifugiati, richiedenti asilo e altre persone rischiano la vita per raggiungere le frontiere dell’Europa meridionale, generalmente in imbarcazioni di fortuna. Questi viaggi, sempre effettuati con mezzi irregolari e per lo più a bordo di navi senza bandiera, a rischio di cadere nelle mani di reti di traffico illecito di migranti e tratta di esseri umani, sono l’espressione della situazione difficile in cui si trovano le persone imbarcate, che non hanno mezzi regolari e in ogni caso meno rischiosi per raggiungere l’Europa.
3. Anche se il numero di arrivi via mare è drasticamente diminuito negli ultimi anni, con un conseguente spostamento delle rotte migratorie (in particolare verso la frontiera terrestre tra la Turchia e la Grecia), l’Assemblea parlamentare, richiamando in particolare la sua Risoluzione 1637 (2008) «I boat people in Europa: arrivo via mare di flussi migratori misti in Europa», esprime nuovamente le sue vive preoccupazioni rispetto alle misure adottate per gestire l’arrivo via mare di questi flussi migratori misti. Molte persone in pericolo in mare sono state salvate e molte persone che hanno tentato di raggiungere l’Europa sono state rinviate, ma la lista degli incidenti mortali – tanto tragici quanto prevedibili – è lunga ed aumenta attualmente quasi ogni giorno.
4. Peraltro, i recenti arrivi in Italia e a Malta avvenuti in seguito alle agitazioni in Africa del Nord confermano la necessità per l’Europa di essere pronta ad affrontare, in qualsiasi momento, l’arrivo massiccio di migranti irregolari, di richiedenti asilo e di rifugiati sulle sue coste meridionali.
5. L’Assemblea prende atto che la gestione di tali arrivi via mare solleva numerosi problemi, tra cui cinque sono particolarmente inquietanti:
5.1. Mentre vari strumenti internazionali pertinenti si applicano in materia ed espongono in maniera soddisfacente i diritti e gli obblighi degli Stati e degli individui, sembrano esservi delle divergenze nell’interpretazione del loro contenuto. Alcuni Stati non concordano sulla natura e la portata delle loro responsabilità in alcuni casi ed alcuni Stati rimettono anche in discussione l’applicazione del principio di non respingimento in alto mare;
5.2. Benché la priorità assoluta in caso di intercettazione in mare sia assicurare lo sbarco rapido delle persone cui è stato prestato soccorso in «luogo sicuro», la nozione di «luogo sicuro» non sembra essere interpretata allo stesso modo da tutti gli Stati membri. È evidente che la nozione di «luogo sicuro» non può essere limitata alla sola protezione fisica delle persone ma comprende necessariamente il rispetto dei loro diritti fondamentali;
5.3. Tali disaccordi mettono direttamente in pericolo la vita delle persone da soccorrere, in particolare ritardando o impedendo le azioni di salvataggio, e possono dissuadere i navigatori dal venire in soccorso delle persone in pericolo. Inoltre, potrebbero dare luogo alla violazione del principio di non-respingimento nei confronti di un numero importante di persone, comprese quelle che necessitano di tutela internazionale;
5.4. Mentre l’Agenzia europea per la gestione della cooperazione operativa alle frontiere esterne degli Stati membri dell’Unione europea (Frontex) svolge un ruolo sempre più importante in materia di intercettazioni in mare, le garanzie del rispetto dei diritti dell’uomo e degli obblighi derivanti dal diritto internazionale e dal diritto comunitario nel contesto delle operazioni congiunte che coordina sono insufficienti;
5.5. Infine, tali arrivi via mare fanno gravare un onere sproporzionato sugli Stati situati alle frontiere meridionali dell’Unione europea. Lo scopo di una ripartizione più equa delle responsabilità e di una maggiore solidarietà in materia di migrazione tra gli Stati europei è lungi dall’essere raggiunto.
6. La situazione è complicata dal fatto che i flussi migratori in questione sono di natura mista ed esigono dunque risposte specifiche che tengano conto dei bisogni di tutela e adattate allo status delle persone cui è stato prestato soccorso. Per fornire agli arrivi via mare una risposta adeguata e conforme alle norme internazionali pertinenti, gli Stati devono tenere conto di questo elemento nelle loro politiche e nelle attività di gestione delle migrazioni.
7. L’Assemblea ricorda agli Stati membri i loro obblighi derivanti dal diritto internazionale, in particolare ai sensi della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, della Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare del 1982 e della Convenzione di Ginevra del 1951 relativa allo status dei rifugiati, in particolare il principio di non-respingimento e il diritto di chiedere asilo. L’Assemblea ricorda anche gli obblighi degli Stati parte alla Convenzione internazionale per la salvaguardia della vita umana in mare del 1974 e alla Convenzione internazionale del 1979 sulla ricerca e il salvataggio marittimi.
8. Infine, e soprattutto, l’Assemblea ricorda agli Stati membri che hanno l’obbligo sia morale che giuridico di soccorrere le persone in pericolo in mare senza il minimo indugio e riafferma senza ambiguità l’interpretazione fatta dall’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (HCR) secondo cui il principio di non-respingimento si applica anche in alto mare. L’alto mare non è una zona in cui gli Stati sono esenti dai loro obblighi giuridici, ivi compresi gli obblighi derivanti dal diritto internazionale dei diritti dell’uomo e dal diritto internazionale dei rifugiati.
9. L’Assemblea chiama dunque gli Stati membri, nel compimento delle attività di vigilanza delle frontiere marittime, che sia nel contesto della prevenzione del traffico illecito e della tratta degli esseri umani o in quello della gestione delle frontiere, che esercitino la loro giurisdizione di diritto o di fatto:
9.1. a rispondere senza eccezioni e senza ritardo al loro obbligo di soccorrere le persone in pericolo in mare;
9.2. a vigilare affinché le loro politiche e attività relative alla gestione delle loro frontiere, ivi comprese le misure di intercettazione, riconoscano la composizione mista dei flussi di persone che tentano di varcare le frontiere marittime;
9.3. a garantire a tutte le persone intercettate un trattamento umano e il rispetto sistematico dei loro diritti umani, ivi compreso il principio di non-respingimento, indipendentemente dal fatto che le misure di intercettazione siano attuate nelle loro acque territoriali, in quelle di un altro Stato sulla base di un accordo bilaterale ad hoc, o in alto mare;
9.4. ad astenersi dal ricorrere a qualsiasi pratica che possa essere assimilata ad un respingimento diretto o indiretto, ivi compreso in alto mare, nel rispetto dell’interpretazione dell’applicazione extraterritoriale di questo principio fatta dall’HCR e delle sentenze pertinenti della Corte europea dei diritti dell’uomo;
9.5. ad assicurare in via prioritaria lo sbarco rapido delle persone cui è stato prestato soccorso in «luogo sicuro» e a considerare come «luogo sicuro» un luogo che possa rispondere alle necessità immediate delle persone sbarcate, che non metta in alcun modo a rischio i loro diritti fondamentali; tenendo presente che la nozione di «sicurezza» va oltre la semplice protezione dal pericolo fisico e tenendo conto altresì della prospettiva dei diritti fondamentali del luogo di sbarco proposto;
9.6. a garantire alle persone intercettate che hanno bisogno di una tutela internazionale l’accesso a una procedura di asilo giusta ed efficace;
9.7. a garantire alle persone intercettate vittime della tratta di esseri umani o che rischiano di diventarlo l’accesso a una tutela e ad un’assistenza, ivi comprese le procedure di asilo;
9.8. a vigilare affinché il trattenimento di persone intercettate – escludendo sistematicamente i minori e i gruppi vulnerabili – indipendentemente dal loro status, sia autorizzato dalle autorità giudiziarie e abbia luogo solo in caso di necessità e per motivi previsti dalla legge, in assenza di alternative appropriate e nel rispetto delle norme minime e dei principi definiti nella Risoluzione 1707 (2010) dell’Assemblea sul trattenimento amministrativo dei richiedenti asilo e dei migranti in situazione irregolare in Europa;
9.9. a sospendere gli accordi bilaterali che possono aver concluso con Stati terzi se i diritti fondamentali di persone intercettate non sono garantiti adeguatamente in tali strumenti, in particolare il diritto di accesso a una procedura di asilo, e se gli stessi possono essere assimilati a una violazione del principio di non-respingimento, e a concludere nuovi accordi bilaterali contenenti espressamente tali garanzie in materia di diritti dell’uomo e misure finalizzate al loro controllo regolare ed effettivo;
9.10. a firmare e ratificare, se non l’hanno ancora fatto, gli strumenti internazionali pertinenti sopra menzionati e a tenere conto delle Direttive dell’Organizzazione marittima internazionale (OMI) sul trattamento delle persone cui è stato prestato soccorso in mare;
9.11. a firmare e ratificare, se non l’hanno già fatto, la Convenzione del Consiglio d’Europa sulla lotta contro la tratta degli esseri umani (STCE n. 197) e i Protocolli detti «di Palermo» alla Convenzione delle Nazioni Unite contro la criminalità transnazionale organizzata (2000);
9.12. a vigilare affinché le operazioni di sorveglianza alle frontiere marittime e le misure di controllo alle frontiere non ostacolino la tutela specifica accordata a titolo del diritto internazionale alle categorie vulnerabili come i rifugiati, gli apolidi, i bambini non accompagnati e le donne, i migranti, le vittime della tratta o le persone che rischiano di diventarlo, nonché le vittime di torture e di traumi.
10. L’Assemblea è preoccupata per la mancanza di chiarezza per quanto riguarda le responsabilità rispettive degli Stati membri dell’Unione europea e di Frontex e per la mancanza di garanzie adeguate di rispetto dei diritti fondamentali e delle norme internazionali nell’ambito delle operazioni congiunte coordinate da tale agenzia. Pur rallegrandosi per le proposte presentate dalla Commissione europea per modificare il regolamento di tale agenzia al fine di rafforzare le garanzie del rispetto dei diritti fondamentali, l’Assemblea le ritiene insufficienti ed auspicherebbe che il Parlamento europeo venisse incaricato del controllo democratico delle attività di tale agenzia, con particolare riguardo al rispetto dei diritti fondamentali.
11. L’Assemblea considera anche che è fondamentale che vengano fatti degli sforzi per porre rimedio alle cause principali che spingono delle persone disperate a imbarcarsi verso l’Europa mettendo a rischio la loro vita. L’Assemblea invita tutti gli Stati membri a potenziare i loro sforzi per favorire la pace, lo Stato di diritto e la prosperità nei Paesi di origine dei candidati all’immigrazione e dei richiedenti asilo.
12. Infine, tenuto conto dei rischi seri che rappresenta per gli Stati costieri l’arrivo irregolare via mare di flussi misti di persone, l’Assemblea fa appello alla comunità internazionale, in particolare all’OMI, all’HRC, all’Organizzazione internazionale per le migrazioni (OIM), al Consiglio d’Europa e all’Unione europea (ivi compreso Frontex e l’Ufficio europeo di sostegno in materia di asilo) affinché:
12.1. forniscano tutta l’assistenza richiesta a tali Stati in uno spirito di solidarietà e di ripartizione delle responsabilità;
12.2. sotto l’egida dell’OMI, a spiegare degli sforzi concertati al fine di garantire un approccio coerente ed armonizzato del diritto marittimo internazionale, in particolare attraverso un consenso sulla definizione e il contenuto dei principali termini e norme;
12.3. a predisporre un gruppo inter-agenzie incaricato di studiare e risolvere i principali problemi in materia di intercettazione in mare, ivi compresi i cinque problemi individuati nella presente risoluzione, di fissare delle priorità politiche precise, di fornire consulenza agli Stati e ad altri attori interessati e di controllare e valutare l’applicazione delle misure di intercettazione in mare. Il gruppo dovrebbe essere composto di membri dell’OMI, dell’HCR, dell’OIM, del Consiglio d’Europa, di Frontex e dell’Ufficio europeo di sostegno per l’asilo.»
F.Il diritto dell’Unione europea
1.La Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (2000)
28. L’articolo 19 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea recita:
Protezione in caso di allontanamento, di espulsione e di estradizione
«1. Le espulsioni collettive sono vietate.
2. Nessuno può essere allontanato, espulso o estradato verso uno Stato in cui esiste un rischio serio di essere sottoposto alla pena di morte, alla tortura o ad altre pene o trattamenti inumani o degradanti.»
2.L’accordo di Schengen (1985)
29. L’articolo 17 dell’Accordo di Schengen recita:
«In materia di circolazione delle persone, le Parti si adopereranno per eliminare i controlli alle frontiere comuni, trasferendoli alle proprie frontiere esterne. A tal fine, si adopereranno in via preliminare per armonizzare, se necessario, le disposizioni legislative e regolamentari relative ai divieti ed alle restrizioni sulle quali si basano i controlli e per adottare misure complementari per la salvaguardia della sicurezza e per impedire l’immigrazione clandestina di cittadini di Stati non membri delle Comunità europee.»
3.Il Regolamento (CE) n. 2007/2004 del Consiglio del 26 ottobre 2004 che istituisce un’Agenzia europea per la gestione della cooperazione operativa alle frontiere esterne degli Stati membri dell’Unione europea (FRONTEX)
30. Il Regolamento (CE) n. 2007/2004 contiene le disposizioni seguenti:
«1) La politica comunitaria nel settore delle frontiere esterne dell’Unione europea mira a una gestione integrata atta a garantire un livello elevato e uniforme del controllo e della sorveglianza, necessario corollario alla libera circolazione delle persone nell’ambito dell’Unione europea nonché componente essenziale di uno spazio di libertà, sicurezza e giustizia. A tal fine è prevista l’istituzione di norme comuni in materia di criteri e procedure relativi al controllo delle frontiere esterne.
2) L’efficace attuazione delle norme comuni rende necessario un maggiore coordinamento della cooperazione operativa tra gli Stati membri.
3) Tenendo conto delle esperienze maturate dall’organo comune di esperti in materia di frontiere esterne, nell’ambito del Consiglio, dovrebbe essere istituito un organismo specializzato incaricato di migliorare il coordinamento della cooperazione operativa tra gli Stati membri nel settore della gestione delle frontiere esterne in veste di Agenzia europea per la gestione della cooperazione operativa alle frontiere esterne degli Stati membri dell’Unione europea, di seguito denominata «l’Agenzia».
4) Il controllo e la sorveglianza delle frontiere esterne ricadono sotto la responsabilità degli Stati membri. L’Agenzia dovrebbe semplificare l’applicazione delle misure comunitarie presenti e future in materia di gestione delle frontiere esterne, garantendo il coordinamento delle azioni intraprese dagli Stati membri nell’attuare tali misure.
5) L’efficacia del controllo e della sorveglianza delle frontiere esterne è una questione della massima importanza per gli Stati membri, qualunque sia la loro posizione geografica. Sussiste quindi l’esigenza di promuovere la solidarietà tra gli Stati membri nel settore della gestione delle frontiere esterne. L’istituzione dell’Agenzia, che assiste gli Stati membri nell’attuazione degli aspetti operativi riguardanti la gestione delle frontiere esterne, compreso il rimpatrio dei cittadini di paesi terzi presenti illegalmente negli Stati membri, rappresenta un significativo progresso in questa direzione.»
4.Il Regolamento (CE) n. 562/2006 del Parlamento europeo e del Consiglio del 15 marzo 2006 che istituisce un codice comunitario relativo al regime di attraversamento delle frontiere da parte delle persone (codice frontiere Schengen)
31. L’articolo 3 del Regolamento (CE) n. 562/2006 recita:
«Il presente regolamento si applica a chiunque attraversi le frontiere interne o esterne di uno Stato membro, senza pregiudizio:
a) dei diritti dei beneficiari del diritto comunitario alla libera circolazione;
b) dei diritti dei rifugiati e di coloro che richiedono protezione internazionale, in particolare per quanto concerne il non-respingimento.»
5.La Decisione del Consiglio del 26 aprile 2010 che integra il codice frontiere Schengen per quanto riguarda la sorveglianza delle frontiere marittime esterne nel contesto della cooperazione operativa coordinata dall’Agenzia europea per la gestione della cooperazione operativa alle frontiere esterne degli Stati membri dell’Unione europea (2010/252/UE)
32. La Decisione del Consiglio del 26 aprile 2010, nel suo allegato, precisa:
«Regole per le operazioni alle frontiere marittime coordinate dall’Agenzia [FRONTEX]:
1. Principi generali
1.1. Le misure adottate ai fini delle operazioni di sorveglianza sono attuate nel rispetto dei diritti fondamentali e in modo da salvaguardare l’incolumità delle persone intercettate o soccorse e delle unità partecipanti.
1.2. Nessuno può essere sbarcato o altrimenti consegnato alle autorità di un Paese in violazione del principio di non-respingimento o nel quale sussista un rischio di espulsione o di rimpatrio verso un altro paese in violazione di detto principio. Fatto salvo il punto 1.1, alle persone intercettate o soccorse sono fornite informazioni adeguate affinché possano esprimere qualunque motivo induca loro a ritenere che lo sbarco nel luogo proposto violerebbe il principio di non-respingimento.
1.3. Nel corso di tutta l’operazione si tiene conto delle particolari esigenze dei minori, delle vittime della tratta di esseri umani, di quanti necessitano di assistenza medica urgente o di protezione internazionale e di quanti si trovano in situazione di grande vulnerabilità.
1.4. Gli Stati membri provvedono affinché le guardie di frontiera che partecipano alle operazioni di sorveglianza ricevano una formazione sulle disposizioni pertinenti della normativa in materia di diritti dell’uomo e di diritto dei rifugiati, e abbiano dimestichezza con il regime internazionale di ricerca e soccorso.»
IV. DOCUMENTI INTERNAZIONALI RIGUARDANTI LE INTERCETTAZIONI IN ALTO MARE EFFETTUATE DALL’ITALIA E LA SITUAZIONE IN LIBIA
A. Il comunicato stampa dell’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i rifugiati
33. Il 7 maggio 2009, l’HCR pubblicò un comunicato stampa così redatto:
«L’HCR ha espresso viva preoccupazione giovedì per la sorte di circa 230 persone soccorse in mare mercoledì da motovedette italiane in servizio di pattugliamento marittimo nella zona di ricerca e salvataggio di competenza delle autorità maltesi. Tutte quelle persone sono state rinviate in Libia senza un’adeguata valutazione delle loro eventuali esigenze di tutela. Il salvataggio è stato compiuto a circa 35 miglia nautiche a sudest dell’isola di Lampedusa, tuttavia all’interno della zona di ricerca e salvataggio di competenza delle autorità maltesi.
Il rinvio in Libia è avvenuto al termine di una giornata di discussioni accese tra le autorità maltesi e quelle italiane sull’attribuzione della responsabilità del salvataggio e dello sbarco delle persone in pericolo che si trovavano a bordo delle tre imbarcazioni. Sebbene più vicine a Lampedusa, le navi incrociavano nella zona di ricerca e salvataggio di competenza delle autorità maltesi.
Anche se non abbiamo informazioni sulla nazionalità delle persone a bordo delle motovedette, è probabile che tra loro ve ne fossero di bisognose di tutela internazionale. Nel 2008, circa il 75% delle persone giunte in Italia via mare ha presentato richiesta di asilo e il 50% di loro ha ottenuto lo status di rifugiato o una tutela per altri motivi umanitari.
«Esorto le autorità italiane e maltesi a continuare a garantire alle persone soccorse in mare e bisognose di tutela internazionale libero accesso al territorio e alle procedure di asilo», ha dichiarato l’Alto Commissario António Guterres.
L’incidente segna un significativo cambio di rotta nelle politiche applicate fino ad allora dal governo italiano ed è motivo di grandissima preoccupazione. L’HCR condanna vivamente la mancanza di trasparenza che ha caratterizzato l’episodio.
«Lavoriamo a stretto contatto con le autorità italiane a Lampedusa e altrove per garantire che le persone che fuggono guerra e persecuzioni siano tutelate nel rispetto della Convenzione del 1951 relativa allo status dei rifugiati, adottata a Ginevra», ha aggiunto Laurens Jolles, delegato dell’HCR a Roma. «E’ di fondamentale importanza che il principio del diritto internazionale sul non respingimento continui ad essere pienamente rispettato».
Inoltre, la Libia non è firmataria della Convenzione delle Nazioni Unite del 1951 relativa allo status dei rifugiati e non dispone di un sistema nazionale di asilo operativo. L’HCR lancia un pressante appello alle autorità italiane affinché riconsiderino la loro decisione e facciano in modo di non attuare quelle misure in futuro.»
B. La lettera del sig. Jacques Barrot, vicepresidente della Commissione europea, datata 15 luglio 2009
34. Il 15 luglio 2009, il sig. Jacques Barrot ha indirizzato una lettera al presidente della Commissione delle libertà civili, della giustizia e degli affari interni del Parlamento europeo, in risposta ad una domanda di parere giuridico sul «riaccompagnamento in Libia via mare di vari gruppi di migranti da parte delle autorità italiane ». In quella lettera, il vicepresidente della Commissione europea si esprimeva così:
«Stando alle informazioni a disposizione della Commissione, i migranti in questione sono stati intercettati in alto mare.
Due complessi di norme comunitarie devono essere presi in esame riguardo alla situazione di cittadini di paesi terzi o apolidi che intendano entrare, illegalmente, nel territorio degli Stati membri e di cui alcuni potrebbero avere bisogno di tutela internazionale.
In primo luogo, l’acquis comunitario in materia di asilo mira a salvaguardare il diritto di asilo, quale enunciato nell’articolo 18 della Carta dei Diritti fondamentali dell’UE, in conformità alla Convenzione di Ginevra del 1951 relativa allo status dei rifugiati e agli altri trattati pertinenti. Tuttavia, tale acquis, compresa la direttiva sulle procedure di asilo del 2005, si applica unicamente alle domande di asilo fatte nel territorio degli Stati membri. Questo comprende le frontiere, le zone di transito nonché, nell’ambito delle frontiere marittime, le acque territoriali degli Stati membri. Pertanto, è chiaro giuridicamente che l’acquis comunitario in materia di asilo non si applica nelle situazioni in alto mare.
In secondo luogo, il Codice delle Frontiere Schengen (CFS) esige che gli Stati membri assicurino la sorveglianza delle frontiere per impedire tra l’altro l’attraversamento non autorizzato delle stesse (articolo 12 del regolamento (СЕ) n. 562/2006 (CFS)). Tuttavia, questo obbligo comunitario deve essere adempiuto in conformità al principio di non respingimento e fatti salvi i diritti dei rifugiati e dei richiedenti tutela internazionale.
Ad avviso della Commissione, le attività di sorveglianza delle frontiere svolte in mare, siano esse nelle acque territoriali, nella zona contigua, nella zona economica esclusiva o in alto mare, rientrano nel campo di applicazione del CFS. Al riguardo, la nostra analisi giuridica preliminare consente di supporre che le azioni dei guardacoste italiani corrispondano al concetto di «sorveglianza delle frontiere», come enunciato all’articolo 12 del CFS; esse hanno, infatti, impedito l’attraversamento non autorizzato della frontiera esterna marittima da parte degli interessati ed hanno portato al riaccompagnamento di questi nel paese terzo di partenza. Stando alla giurisprudenza della Corte di Giustizia europea, gli obblighi comunitari debbono essere applicati nello stretto rispetto dei diritti fondamentali che fanno parte dei principi generali del diritto comunitario. La Corte ha inoltre chiarito che il campo di applicazione di tali diritti nell’ordinamento giuridico comunitario deve essere stabilito prendendo in considerazione la giurisprudenza della Corte europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU).
Il principio di non respingimento, come interpretato dalla CEDU, significa essenzialmente che gli Stati devono astenersi dal rinviare una persona (direttamente o indirettamente) là dove essa potrebbe correre il rischio reale di essere sottoposta a tortura o a pene o a trattamenti inumani o degradanti. Inoltre, gli Stati non possono rinviare i rifugiati alle frontiere dei territori in cui la vita o la libertà di quelle persone sarebbe minacciata per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza ad un particolare gruppo sociale od opinione politica. Questo obbligo dovrebbe essere rispettato in occasione dell’esecuzione del controllo alle frontiere conformemente al CFS, comprese le attività di sorveglianza delle frontiere in alto mare. Secondo la giurisprudenza della CEDU, le azioni eseguite in alto mare da una nave di Stato costituiscono un caso di competenza extraterritoriale e possono chiamare in causa la responsabilità dello Stato interessato.
Tenuto conto di quanto precede riguardo al campo delle competenze comunitarie, la Commissione ha invitato le autorità italiane a fornirle informazioni supplementari in merito alle circostanze di fatto del riaccompagnamento degli interessati in Libia e alle disposizioni in essere per garantire la conformità con il principio di non respingimento nell’attuazione dell’accordo bilaterale tra i due paesi.»
C. Il rapporto del Comitato per la prevenzione della tortura del Consiglio d’Europa
35. Dal 27 al 31 luglio 2009, una delegazione del Comitato per la prevenzione della tortura e delle pene o dei trattamenti inumani o degradanti (CPT) del Consiglio d’Europa ha effettuato una visita in Italia. In quell’occasione, la delegazione ha esaminato diverse questioni riguardanti la nuova politica governativa di intercettazione in mare e di rinvio in Libia di migranti irregolari in avvicinamento alle coste meridionali dell’Italia. La delegazione si è concentrata in particolare sull’esistente sistema di garanzie volto a evitare di rinviare una persona verso un paese quando esistano seri motivi di ritenere che quella persona correrà in quel paese il rischio reale di essere sottoposta a tortura e maltrattamenti.
36. Stando al rapporto del CPT, reso pubblico il 28 aprile 2010, la politica dell’Italia consistente nell’intercettare i migranti in mare e nel costringerli a ritornare in Libia o in altri paesi non europei costituiva una violazione del principio di non respingimento. Secondo il CPT, l’Italia era vincolata dal principio di non respingimento indipendentemente dal luogo di esercizio della sua giurisdizione, incluso l’esercizio della giurisdizione tramite il suo personale e le sue navi impegnati nella protezione delle frontiere o nel salvataggio in mare, persino in operazioni fuori del suo territorio. Inoltre, tutte le persone rientranti nella giurisdizione dell’Italia avrebbero dovuto avere la possibilità di chiedere tutela internazionale e di usufruire a tal fine delle necessarie agevolazioni. Secondo le informazioni in possesso del CPT, questa possibilità non era stata offerta ai migranti intercettati in mare dalle autorità italiane nel periodo in esame. Al contrario, le persone rinviate in Libia nell’ambito delle operazioni condotte da maggio a luglio 2009 si erano viste negare il diritto ad una valutazione individuale del loro caso e all’accesso effettivo al sistema di tutela dei rifugiati. Al riguardo, a dire del CPT, i sopravvissuti ad un viaggio in mare sono particolarmente vulnerabili e spesso in uno stato tale da impedire loro di poter esprimere immediatamente il desiderio di chiedere asilo.
Stando al rapporto del CPT, la Libia non può essere considerata un paese sicuro in materia di diritti dell’uomo e di diritto dei rifugiati; la situazione delle persone arrestate e detenute in Libia, compresa quella dei migranti – che corrono anche il rischio di essere espulsi – starebbe a dimostrare che le persone rinviate in Libia rischiavano di essere vittime di maltrattamenti.
D. Il rapporto di Human Rights Watch
37. In un lungo rapporto pubblicato il 21 settembre 2009, intitolato «Respinti, malmenati: l’Italia rinvia con la forza i migranti e i richiedenti asilo arrivati dal mare, la Libia li maltratta», Human Rights Watch denuncia la pratica italiana consistente nell’intercettare in alto mare imbarcazioni cariche di migranti e nel respingerli verso la Libia senza procedere alle necessarie verifiche. Il rapporto si basa anche sui risultati di ricerche pubblicate in un rapporto del 2006, intitolato «Libya, stemming the Flow. Abuses against migrants, asylum seekers and refugees».
38. Secondo Human Rights Watch, le motovedette italiane rimorchiano le imbarcazioni dei migranti nelle acque internazionali senza verificare se tra questi vi siano rifugiati, malati o feriti, donne in stato di gravidanza, bambini non accompagnati o vittime di tratta o di altre forme di violenza. Le autorità italiane costringerebbero i migranti intercettati a salire a bordo di navi libiche o li riaccompagnerebbero direttamente in Libia, dove essi sarebbero immediatamente arrestati dalle autorità locali. Alcune di queste operazioni sarebbero coordinate dall’agenzia Frontex.
Il rapporto si basa su colloqui avuti con novantuno migranti, richiedenti asilo e rifugiati in Italia e a Malta, per lo più nel maggio 2009, e su un colloquio telefonico con un migrante detenuto in Libia. Alcuni rappresentanti di Human Rights Watch si sarebbero recati in Libia nell’aprile 2009 e avrebbero incontrato rappresentanti del governo, ma le autorità libiche non avrebbero consentito all’organizzazione di avere colloqui in privato con i migranti. Le autorità non avrebbero nemmeno concesso a Human Rights Watch l’autorizzazione a visitare uno dei numerosi centri di detenzione per i migranti in Libia, nonostante le ripetute richieste dell’organizzazione umanitaria. L’HCR avrebbe adesso accesso alla prigione di Misurata, dove generalmente sarebbero detenuti i migranti clandestini, e alcune organizzazioni libiche vi fornirebbero servizi umanitari. Tuttavia, in assenza di un accordo ufficiale, l’accesso non sarebbe garantito. Inoltre, la Libia non conoscerebbe il diritto di asilo. Le autorità non farebbero alcuna distinzione tra i rifugiati, i richiedenti asilo ed altri migranti clandestini.
39. Human Rights Watch esorta il governo libico a migliorare le condizioni detentive in Libia, a quanto pare deplorevoli, e a prevedere procedure di asilo conformi alle norme internazionali. Il rapporto si rivolge anche al governo italiano, all’Unione europea e a Frontex, chiedendo il rispetto del diritto di asilo, anche nei confronti delle persone intercettate in alto mare, e il non rinvio in Libia dei non cittadini libici, fino a quando quel paese non abbia conformato alle norme internazionali le modalità di trattamento dei migranti, dei richiedenti asilo e dei rifugiati.
E. La visita di Amnesty International
40. Un’équipe di Amnesty International ha svolto una missione d’inchiesta in Libia dal 15 al 23 maggio 2009. Era la prima volta dal 2004 che le autorità libiche autorizzavano una visita dell’organizzazione.
Durante la visita, Amnesty International si è recata in particolare a circa 200 km da Tripoli, dove ha interrogato brevemente alcuni delle centinaia di migranti clandestini provenienti da altri paesi dell’Africa che affollano il centro detentivo di Misurata. Molti di quei migranti sarebbero stati intercettati mentre cercavano di recarsi in Italia o in un altro paese del sud dell’Europa che ha chiesto alla Libia e ad altri paesi del Nord Africa di trattenere i migranti illegali provenienti dall’Africa sub sahariana per impedire loro di recarsi in Europa.
41. Secondo Amnesty International, tra le persone detenute a Misurata possono esservi dei rifugiati che fuggono la persecuzione, inoltre la Libia non dispone di una procedura di asilo e non è parte alla Convenzione relativa allo status dei rifugiati né al Protocollo di questa datato 1967; gli stranieri, compresi quelli bisognosi di tutela internazionale, rischierebbero di non beneficiare della tutela legale. I detenuti non avrebbero praticamente alcuna possibilità di denunciare eventuali violazioni dinanzi ad un’autorità giudiziaria competente per atti di tortura od altre forme di maltrattamenti.
Amnesty International avrebbe comunicato ai responsabili governativi incontrati in Libia di essere preoccupata per la detenzione e i maltrattamenti inflitti alle centinaia, se non migliaia, di stranieri che le autorità assimilerebbero a migranti irregolari e avrebbe chiesto loro di prevedere una procedura che consenta di identificare e tutelare adeguatamente i richiedenti asilo e i rifugiati. Avrebbe inoltre chiesto alle autorità libiche di non rinviare più con la forza cittadini stranieri verso paesi dove essi rischiano di subire gravi violazioni dei diritti dell’uomo e di trovare una soluzione migliore della detenzione per gli stranieri che non possono essere rinviati nei paesi di origine per tale motivo. Alcuni cittadini eritrei, che costituirebbero una parte importante dei cittadini stranieri detenuti a Misurata, avrebbero comunicato alla delegazione di Amnesty International di essere detenuti da due anni.
V. ALTRI DOCUMENTI INTERNAZIONALI RIGUARDANTI LA SITUAZIONE IN LIBIA
42. Oltre a quelli succitati, sono numerosi i rapporti pubblicati da organizzazioni internazionali ed internazionali nonché da organizzazioni non governative che condannano le condizioni detentive e di vita dei migranti irregolari in Libia all’epoca dei fatti.
Ecco un elenco dei principali rapporti:
– Human Rights Watch, Stemming the Flow: abuses against migrants, asylum seekers and refugees, settembre 2006;
– Comitato dei diritti dell’uomo delle Nazioni Unite, Osservazioni finali Jamahiriya arabo-libica, 15 novembre 2007;
– Amnesty Intemational, Libia – Rapporto 2008 di Amnesty International, 28 maggio 2008;
– Human Rights Watch, Libya Rights at Risk, 2 settembre 2008;
– Dipartimento di Stato americano, Rapporto relativo ai diritti dell’uomo in Libia, 4 aprile 2010.
VI. DOCUMENTI INTERNAZIONALI RIGUARDANTI LA SITUAZIONE IN SOMALIA E IN ERITREA
43. I principali documenti internazionali riguardanti la situazione in Somalia sono presentati nella causa Sufi e Elmi c. Regno Unito (nn. 8319/07 e 11449/07, §§ 80-195, 28 giugno 2011).
44. Per quanto riguarda l’Eritrea, diversi rapporti denunciano violazioni dei diritti fondamentali perpetrate in quel paese. Essi danno conto di gravi violazioni dei diritti dell’uomo da parte del governo eritreo, quali gli arresti arbitrari, la tortura, le condizioni detentive disumane, il lavoro forzato e le gravi restrizioni alla libertà di movimento, di espressione e di culto. Quei documenti prendono in esame anche la difficile situazione degli Eritrei che riescono a fuggire verso altri paesi quali la Libia, il Sudan, l’Egitto e l’Italia, e sono poi rimpatriati con la forza.
Ecco l’elenco dei principali rapporti:
– HCR, Eligibility guidelines for assessing the international protection needs of asylum-seekers from Eritrea, aprile 2009;
– Amnesty international, report 2009, Eritrea, 28 maggio 2009;
– Human Rights Watch, Service for life, state repression and indefinite conscription in Eritrea, aprile 2009;
– Human Rights Watch, Libya, don’t send Eritreans back to risk of torture, 15 gennaio 2010;
– Human Rights Watch, World Chapter Report, gennaio 2010.

IN DIRITTO
I. QUESTIONI PRELIMINARI SOLLEVATE DAL GOVERNO
A. Sulla validità delle procure e sulla prosecuzione dell’esame del ricorso
1. La questione sollevata dal Governo
45. Il Governo contesta sotto vari aspetti la validità delle procure fornite dai rappresentanti dei ricorrenti. Innanzitutto, denuncia irregolarità nella redazione della maggior parte delle procure, ossia:
– l’assenza di indicazione di data e luogo e, in alcuni casi, la circostanza che data e luogo sembrerebbero essere stati scritti dalla stessa persona;
– l’assenza di riferimento al numero del ricorso;
– il fatto che le generalità dei ricorrenti consisterebbero solo nel cognome, nome, nazionalità, in una firma illeggibile e in un’impronta digitale spesso parziale e indecifrabile;
– l’assenza di indicazione delle date di nascita dei ricorrenti.
46. Il Governo osserva poi che il ricorso non precisa né le circostanze della redazione delle procure, insinuando così dubbi sulla validità di queste, né i passi compiuti dai rappresentanti dei ricorrenti al fine di accertare le generalità dei loro clienti. Inoltre, il Governo mette in discussione la qualità dei contatti esistenti tra i ricorrenti e i loro rappresentanti. In particolare, afferma che i messaggi elettronici inviati dai ricorrenti dopo il loro trasferimento in Libia non sono accompagnati da firme confrontabili con quelle apposte sulle procure. Secondo il Governo, le difficoltà incontrate dagli avvocati nello stabilire e mantenere i contatti con i ricorrenti impedirebbero l’esame in contraddittorio della causa.
47. Pertanto, stante l’impossibilità di verificare le generalità dei ricorrenti, e in assenza di una «partecipazione personale» di questi alla causa, la Corte dovrebbe rinunciare a proseguire l’esame del ricorso. Facendo riferimento alla causa Hussun ed altri c. Italia ((cancellazione), nn. 10171/05, 10601/05, 11593/05 e 17165/05, 19 gennaio 2010), il Governo chiede alla Corte di cancellare il ricorso dal ruolo.
2. Le argomentazioni dei ricorrenti
48. I rappresentanti dei ricorrenti difendono la validità delle procure. Affermano innanzitutto che le irregolarità nella redazione dedotte dal Governo non possono comportare la nullità dei mandati conferiti loro dai clienti.
49. Quanto alle circostanze della redazione delle procure, essi precisano che i mandati sono stati formalizzati dai ricorrenti sin dall’arrivo di questi in Libia, presso membri di organizzazioni umanitarie operanti in diversi centri di trattenimento. Queste persone si sarebbero poi incaricate di contattarli e di trasmettere loro le procure perché potessero firmarle e accettare i mandati.
50. Quanto alle difficoltà legate all’identificazione degli interessati, esse sarebbero una conseguenza diretta dell’oggetto del ricorso, cioè un’operazione di rinvio collettivo e senza previa identificazione dei migranti clandestini. Comunque sia, gli avvocati attirano l’attenzione della Corte sul fatto che una parte importante dei ricorrenti è stata identificata dall’ufficio dell’HCR a Tripoli all’arrivo in Libia.
51. Infine, gli avvocati affermano di avere tenuto i contatti con una parte degli interessati, raggiungibili per telefono e posta elettronica. Al riguardo, essi rappresentano grandi difficoltà nel tenere i contatti con i ricorrenti, in particolare a causa dei disordini che hanno scosso la Libia a partire dal febbraio 2011.
3. Valutazione della Corte
52. La Corte ricorda innanzitutto che, ai sensi dell’articolo 45 § 3 del suo regolamento, il rappresentante di un ricorrente deve produrre «una procura scritta». Di conseguenza, una semplice procura scritta sarebbe valida ai fini del procedimento dinanzi alla Corte, dal momento che nessuno potrebbe dimostrare che essa è stata redatta senza il consenso dell’interessato o senza che questi comprenda di cosa si tratta (Velikova c. Bulgaria, n. 41488/98, § 50, CEDU 2000-VI).
53. Del resto, né la Convenzione né il regolamento della Corte pongono condizioni particolari quanto alla redazione della procura, né richiedono alcuna forma di certificazione da parte delle autorità nazionali. Importante, per la Corte, è che la procura indichi chiaramente che il ricorrente ha affidato la sua rappresentanza dinanzi alla Corte ad un legale e che questi ha accettato il mandato (Riabov c. Russia, n. 3896/04, §§ 40 e 43, 31 gennaio 2008).
54. Nel caso di specie, la Corte osserva che tutte le procure acquisite agli atti sono firmate ed accompagnate da impronte digitali. Inoltre, i rappresentanti dei ricorrenti hanno fornito, durante tutto il procedimento, informazioni dettagliate in merito allo svolgimento dei fatti e alla sorte dei ricorrenti, con cui hanno potuto mantenere i contatti. Niente nel fascicolo induce a dubitare del racconto degli avvocati, né a mettere in discussione lo scambio d’informazioni con la Corte (si veda, a contrario, Hussun, sopra citata, §§ 43-50).
55. Pertanto, la Corte non ha motivi di dubitare della validità delle procure. Essa rigetta quindi l’eccezione del Governo.
56. D’altra parte, la Corte osserva che, stando alle informazioni fornite dagli avvocati, due dei ricorrenti, il sig. Mohamed Abukar Mohamed e il sig. Hasan Shariff Abbirahman (rispettivamente il n. 10 e il n. 11 dell’elenco), sono deceduti pochissimo tempo dopo la presentazione del ricorso (paragrafo 15 supra).
57. Essa rammenta che, secondo la prassi della Corte, sono cancellati dal ruolo i ricorsi di ricorrenti deceduti durante il procedimento quando nessun erede o parente prossimo intenda continuare il ricorso (si vedano, tra le altre, Scherer c. Svizzera, 25 marzo 1994, §§ 31-32, serie A n. 287; Öhlinger c. Austria, n. 21444/93, rapporto della Commissione del 14 gennaio 1997, § 15, non pubblicato; Thévenon c. Francia (dec.), n. 2476/02, CEDU 2006-III; e Léger c. Francia (cancellazione) [GC], n. 19324/02, § 44, 30 marzo 2009).
58. Alla luce delle circostanze del caso, la Corte ritiene ormai ingiustificata la prosecuzione dell’esame del ricorso per quanto riguarda le persone decedute (articolo 37 § 1 c) della Convenzione). Del resto, essa osserva che i motivi di ricorso inizialmente sollevati dai sigg. Mohamed Abukar Mohamed e Hasan Shariff Abbirahman sono gli stessi di quelli enunciati dagli altri ricorrenti, in merito ai quali esprimerà il suo parere di seguito. Pertanto, a suo giudizio, nessuna ragione dipendente dal rispetto dei diritti dell’uomo sanciti dalla Convenzione e dai suoi Protocolli esigerebbe, conformemente all’articolo 37 § 1 in fine, la prosecuzione dell’esame del ricorso dei ricorrenti deceduti.
59. In conclusione, la Corte decide di cancellare il ricorso dal ruolo nella parte relativa ai ricorrenti Mohamed Abukar Mohamed e Hasan Shariff Abbirahman, e di proseguire l’esame del ricorso per il resto.
B. Sull’esaurimento delle vie di ricorso interne
60. Nell’udienza dinanzi alla Grande Camera, il Governo ha invocato l’irricevibilità del ricorso per mancato esaurimento delle vie di ricorso interne. Ha sostenuto che i ricorrenti avevano omesso di adire i giudici italiani al fine di ottenere il riconoscimento e la riparazione delle dedotte violazioni della Convenzione.
61. Secondo il Governo, i ricorrenti, attualmente liberi di spostarsi e in grado, come hanno dimostrato, di raggiungere i loro avvocati nell’ambito del procedimento dinanzi alla Corte, avrebbero dovuto presentare ricorsi dinanzi ai giudici penali italiani al fine di lamentare eventuali violazioni del diritto interno e del diritto internazionale da parte dei militari coinvolti nel loro allontanamento. Procedimenti penali sarebbero attualmente in corso in cause simili, e questo tipo di ricorso avrebbe carattere «effettivo».
62. La Corte rileva che i ricorrenti lamentano anche di non avere avuto a disposizione un ricorso rispondente alle esigenze dell’articolo 13 della Convenzione. A suo avviso, esiste un legame stretto tra la tesi del Governo sul punto e la fondatezza dei motivi di ricorso formulati dai ricorrenti sotto il profilo di tale disposizione. A giudizio della Corte, questa eccezione va quindi riunita al merito dei motivi di ricorso relativi all’articolo 13 della Convenzione ed esaminata in quel contesto (paragrafo 207 infra).
II. SULLA QUESTIONE DELLA GIURISDIZIONE AI SENSI DELL’ARTICOLO 1 DELLA CONVENZIONE
63. Ai sensi dell’articolo 1 della Convenzione:
«Le Alte Parti contraenti riconoscono ad ogni persona sottoposta alla loro giurisdizione i diritti e le libertà enunciati nel titolo I della (…) Convenzione.»
1. Tesi delle parti
a) Il Governo
64. Il governo convenuto riconosce che i fatti controversi si sono svolti a bordo di navi militari italiane. Tuttavia, nega che le autorità italiane abbiano esercitato un «controllo assoluto ed esclusivo» sui ricorrenti.
65. Sostiene che l’intercettazione delle imbarcazioni a bordo delle quali si trovavano i ricorrenti si iscriveva nel contesto del salvataggio in alto mare di persone in pericolo – rientrante negli obblighi imposti dal diritto internazionale, vale a dire dalla Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare («Convenzione di Montego Bay») – e non può in nessun caso essere definita un’operazione di polizia marittima.
Le navi italiane si sarebbero limitate ad intervenire per prestare soccorso a tre imbarcazioni in difficoltà e mettere in sicurezza le persone a bordo. Avrebbero poi riaccompagnato in Libia i migranti intercettati, conformemente agli accordi bilaterali del 2007 e del 2009. Secondo il Governo, l’obbligo di salvare la vita umana in alto mare come prescritto dalla Convenzione di Montego Bay non comporta di per sé la creazione di un legame tra lo Stato e le persone interessate suscettibile di stabilire la giurisdizione di questo.
66. Nell’ambito del «salvataggio» dei ricorrenti, durato in totale solo dieci ore, le autorità avrebbero prestato agli interessati la necessaria assistenza umanitaria e medica e non avrebbero fatto in alcun modo ricorso alla violenza; esse non avrebbero effettuato abbordaggi né utilizzato armi. Il Governo ne conclude che il presente ricorso differisce dalla causa Medvedyev ed altri c. Francia ([GC], n. 3394/03, 29 marzo 2010), in cui la Corte ha affermato che i ricorrenti rientravano nella giurisdizione della Francia tenuto conto del carattere assoluto ed esclusivo del controllo esercitato da questa su una nave in alto mare e sul suo equipaggio.
b) I ricorrenti
67. Ad avviso dei ricorrenti, la giurisdizione dell’Italia non può essere messa in discussione nel caso di specie. Sin dalla loro salita a bordo delle navi italiane, essi si sarebbero trovati sotto il controllo esclusivo dell’Italia, la quale sarebbe stata quindi tenuta a rispettare tutti quanti gli obblighi derivanti dalla Convenzione e dai suoi Protocolli.
Fanno notare che, stando all’articolo 4 del codice italiano della navigazione, le navi battenti bandiera nazionale rientrano nella giurisdizione dell’Italia anche quando navighino fuori delle acque territoriali.
c) I terzi intervenienti
68. Per i terzi intervenienti, conformemente ai principi di diritto internazionale consuetudinario e alla giurisprudenza della Corte, gli obblighi per gli Stati di non respingere i richiedenti asilo, anche «potenziali», e di assicurare loro l’accesso a procedimenti equi, hanno portata extraterritoriale.
69. Secondo il diritto internazionale in materia di tutela dei rifugiati, il criterio decisivo di cui tenere conto per stabilire la responsabilità di uno Stato non sarebbe se la persona interessata dal respingimento si trovi nel territorio dello Stato, bensì se essa sia sottoposta al controllo effettivo e all’autorità di esso.
I terzi intervenienti fanno riferimento alla giurisprudenza della Corte relativa all’articolo 1 della Convenzione e alla portata extraterritoriale del concetto di «giurisdizione», nonché alle conclusioni di altri organi internazionali. Essi sottolineano la necessità di evitare doppi criteri nel campo della tutela dei diritti dell’uomo e di fare in modo che uno Stato non sia autorizzato a commettere, al di fuori del proprio territorio, atti che mai sarebbero accettati all’interno di questo.
2. Valutazione della Corte
a) Principi generali relativi alla giurisdizione ai sensi dell’articolo 1 della Convenzione
70. Ai sensi dell’articolo 1 della Convenzione, l’impegno degli Stati contraenti consiste nel «riconoscere» (in inglese « to secure ») alle persone rientranti nella loro «giurisdizione» i diritti e le libertà enunciati nella Convenzione (Soering c. Regno Unito, 7 luglio 1989, § 86, serie A n. 161, e Banković ed altri c. Belgio ed altri 16 Stati contraenti (dec.) [GC], n. 52207/99, § 66, CEDU 2001-XII). L’esercizio della «giurisdizione» è il presupposto perché uno Stato contraente possa essere ritenuto responsabile delle azioni od omissioni ad esso addebitabili e all’origine di una denuncia di violazione dei diritti e delle libertà enunciati nella Convenzione (Ilaşcu ed altri c. Moldova e Russia [GC], n. 48787/99, § 311, CEDU 2004 VII).
71. La giurisdizione di uno Stato, ai sensi dell’articolo 1, è principalmente territoriale (Banković, decisione sopra citata, §§ 61 e 67, e Ilaşcu, sopra citata, § 312). Si presume che essa sia esercitata normalmente sull’intero territorio di quello Stato (Ilaşcu ed altri, sopra citata, § 312; e Assanidzé c. Georgia [GC], n. 71503/01, § 139, CEDU 2004-II).
72. In conformità al carattere essenzialmente territoriale del concetto di giurisdizione, la Corte ha ammesso solo in circostanze eccezionali che le azioni degli Stati contraenti compiute o produttive di effetti fuori del territorio di questi possano costituire esercizio da parte degli stessi della loro giurisdizione ai sensi dell’articolo 1 della Convenzione (Drozd e Janousek c. Francia e Spagna, 26 giugno 1992, § 91, serie A n. 240; Banković, decisione sopra citata, § 67; e Ilaşcu ed altri, sopra citata, § 314).
73. Così, nella prima sentenza Loizidou (eccezioni preliminari), la Corte ha giudicato che, tenuto conto dell’oggetto e dello scopo della Convenzione, la responsabilità di una Parte contraente potesse essere chiamata in causa quando, in conseguenza di un’azione militare – legittima o meno -, quella Parte esercitava in pratica il suo controllo su una zona situata fuori del territorio nazionale (Loizidou c. Turchia (eccezioni preliminari) [GC], 23 marzo 1995, § 62, serie A n. 310), il che è tuttavia escluso nel caso di una singola azione extraterritoriale istantanea, come nella causa Banković; il testo dell’articolo 1 non si presta infatti ad una concezione causale della nozione di «giurisdizione» (decisione sopra citata, § 75). In ciascun caso, l’esistenza di circostanze che richiedono e giustificano che la Corte concluda per l’esercizio extraterritoriale della giurisdizione da parte dello Stato deve essere valutata con riferimento ai fatti particolari della causa, ad esempio in caso di controllo assoluto ed esclusivo su una prigione o su una nave (Al-Skeini ed altri c. Regno Unito [GC], n. 55721/07, § 132 e 136, 7 luglio 2011; Medvedyev ed altri, sopra citata, § 67).
74. Sin dal momento in cui uno Stato esercita, tramite i propri agenti operanti fuori del proprio territorio, controllo e autorità su un individuo, quindi giurisdizione, esso è tenuto, in virtù dell’articolo 1, a riconoscere a quell’individuo i diritti e le libertà enunciati nel titolo I della Convenzione pertinenti al caso di quell’individuo. In questo senso, quindi, la Corte ammette ora che i diritti derivanti dalla Convenzione possano essere «frazionati e adattati» (Al-Skeini, sopra citata, §§ 136 e 137; a titolo di confronto, si veda Banković, sopra citata, § 75).
75. La giurisprudenza della Corte rivela casi di esercizio extraterritoriale della competenza da parte di uno Stato nelle cause riguardanti azioni compiute all’estero da agenti diplomatici o consolari, o a bordo di aeromobili immatricolati nello Stato in questione o di navi battenti la bandiera di detto Stato. In queste situazioni, basandosi sul diritto internazionale consuetudinario e su disposizioni convenzionali, la Corte ha riconosciuto l’esercizio extraterritoriale della giurisdizione da parte dello Stato interessato (Banković, decisione sopra citata, § 73, e Medvedyev ed altri, sopra citata, § 65).
b) Applicazione nel caso di specie
76. Non è oggetto di contestazione dinanzi alla Corte la circostanza che gli avvenimenti controversi si siano svolti in alto mare, a bordo di navi militari battenti bandiera italiana. Il governo convenuto riconosce del resto che le motovedette della guardia di finanza e della guardia costiera sulle quali sono stati imbarcati i ricorrenti rientravano completamente nella giurisdizione dell’Italia.
77. La Corte osserva che, in virtù delle disposizioni pertinenti del diritto del mare, una nave che navighi in alto mare è soggetta alla giurisdizione esclusiva dello Stato di cui batte bandiera. Questo principio di diritto internazionale ha portato la Corte a riconoscere, nelle cause riguardanti azioni compiute a bordo di navi battenti bandiera di uno Stato, come anche degli aeromobili registrati, casi di esercizio extraterritoriale della giurisdizione di quello Stato (paragrafo 75 supra). Dal momento che vi è controllo su altri, si tratta in questi casi di un controllo de jure esercitato dallo Stato in questione sugli individui interessati.
78. La Corte osserva d’altra parte che questo principio è trascritto nel diritto nazionale, all’articolo 4 del codice italiano della navigazione, e non è contestato dal governo convenuto (paragrafo 18 supra). Ne conclude che il caso di specie costituisce proprio un caso di esercizio extraterritoriale della giurisdizione dell’Italia, suscettibile di chiamare in causa la responsabilità di quello Stato ai sensi della Convenzione.
79. D’altra parte l’Italia non può sottrarsi alla sua «giurisdizione» ai sensi della Convenzione definendo i fatti controversi un’operazione di salvataggio in alto mare. In particolare, la Corte non può condividere l’argomentazione del Governo secondo la quale l’Italia non sarebbe responsabile della sorte dei ricorrenti in considerazione del preteso ridotto livello del controllo che le sue autorità esercitavano sugli interessati al momento dei fatti.
80. Al riguardo, è sufficiente osservare che nella causa Medvedyev ed altri, sopra citata, i fatti controversi si erano verificati a bordo del Winner, un’imbarcazione battente bandiera di uno Stato terzo, ma il cui equipaggio era stato posto sotto il controllo di militari francesi. Nelle particolari circostanze di quella causa, la Corte ha preso in esame la natura e la portata delle azioni compiute dagli agenti francesi al fine di verificare se la Francia avesse esercitato sul Winner e sul suo equipaggio un controllo, almeno de facto, continuo ed ininterrotto (ibidem, §§ 66 e 67).
81. Ora, la Corte nota che nella presente causa i fatti si sono svolti interamente a bordo di navi delle forze armate italiane, il cui equipaggio era composto esclusivamente da militari nazionali. Ad avviso della Corte, sin dalla salita a bordo delle navi delle forze armate italiane e fino alla consegna alle autorità libiche, i ricorrenti si sono trovati sotto il controllo continuo ed esclusivo, tanto de jure quanto de facto, delle autorità italiane. Nessuna speculazione sulla natura e sullo scopo dell’intervento delle navi italiane in alto mare può indurre la Corte a concludere diversamente.
82. Pertanto, i fatti all’origine delle violazioni dedotte rientrano nella «giurisdizione» dell’Italia ai sensi dell’articolo 1 della Convenzione.
III. SULLE DEDOTTE VIOLAZIONI DELL’ARTICOLO 3 DELLA CONVENZIONE
83. I ricorrenti lamentano di essere stati esposti, a causa del loro respingimento, al rischio di subire torture o trattamenti inumani e degradanti in Libia, nonché nei rispettivi paesi di origine, vale a dire l’Eritrea e la Somalia. Invocano l’articolo 3 della Convenzione, così redatto:
«Nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti.»
84. Ad avviso della Corte, l’articolo 3 della Convenzione è chiamato in causa sotto due diversi aspetti, da esaminarsi separatamente. In primo luogo, quanto al rischio corso dai ricorrenti di subire trattamenti inumani e degradanti in Libia, e, in secondo luogo, quanto al rischio per gli stessi di essere rimpatriati nei rispettivi paesi di origine.
A. Sulla dedotta violazione dell’articolo 3 della Convenzione a causa dell’esposizione dei ricorrenti al rischio di subire trattamenti inumani e degradanti in Libia
1. Tesi delle parti
a) I ricorrenti
85. I ricorrenti sostengono di essere stati vittime di un respingimento arbitrario ed incompatibile con la Convenzione. Affermano di non avere avuto la possibilità di opporsi al loro rinvio in Libia e di chiedere tutela internazionale alle autorità italiane.
86. Ignari della loro effettiva destinazione, i ricorrenti sarebbero stati persuasi, durante tutto il viaggio a bordo delle navi italiane, di essere portati in Italia. Sarebbero quindi stati vittime di un vero e proprio «inganno» ad opera delle autorità italiane.
87. A bordo delle navi non sarebbe stato possibile procedere in alcun modo all’identificazione dei migranti intercettati e alla raccolta di informazioni sulla loro situazione personale. Non sarebbe stato quindi possibile prendere in considerazione nessuna domanda formale di asilo. Tuttavia, una volta in prossimità delle coste libiche, i ricorrenti nonché un gran numero di altri migranti avrebbero pregato i militari italiani di non sbarcarli al porto di Tripoli, da cui erano appena scappati, e di portarli in Italia.
I ricorrenti affermano di avere espresso esplicitamente la volontà di non essere consegnati alle autorità libiche. Contestano l’argomentazione del Governo secondo la quale una tale domanda non può essere assimilata ad una domanda volta ad ottenere tutela internazionale.
88. I ricorrenti sostengono poi di essere stati respinti verso un paese dove vi erano motivi sufficienti di ritenere che sarebbero stati sottoposti a trattamenti contrari alla Convenzione. Infatti, diverse fonti internazionali avrebbero evocato le condizioni inumane e degradanti in cui i migranti irregolari, in particolare di origine somala ed eritrea, erano detenuti in Libia e le precarie condizioni di vita riservate ai clandestini in quel paese.
Al riguardo, i ricorrenti fanno riferimento al rapporto del CPT dell’aprile 2010 nonché ai testi e ai documenti prodotti dalle parti terze sulla situazione in Libia.
89. La situazione, che avrebbe continuato a peggiorare in seguito, non poteva, a loro avviso, essere ignorata dall’Italia al momento della conclusione degli accordi bilaterali con la Libia e della messa in esecuzione del respingimento controverso.
90. Del resto, i timori e le preoccupazioni dei ricorrenti si sarebbero rivelati fondati. Tutti quanti avrebbero parlato di condizioni detentive inumane e, dopo la liberazione, di condizioni di vita precarie legate al loro status di immigrati irregolari.
91. Ad avviso dei ricorrenti, la decisione di rinviare in Libia i clandestini intercettati in alto mare costituisce una vera e propria scelta politica dell’Italia, volta a privilegiare una gestione poliziesca dell’immigrazione clandestina in spregio della tutela dei diritti fondamentali degli interessati.
b) Il Governo
92. Il Governo sostiene innanzitutto che i ricorrenti non hanno provato in maniera adeguata la realtà dei trattamenti a loro dire contrari alla Convenzione che avrebbero subito. Non potrebbero quindi essere considerati «vittime» ai sensi dell’articolo 34 della Convenzione.
93. Il Governo afferma poi che il trasferimento dei ricorrenti in Libia è stato effettuato in virtù degli accordi bilaterali firmati nel 2007 e nel 2009 dall’Italia e dalla Libia. Detti accordi bilaterali si iscrivevano in un contesto di crescenti movimenti migratori tra l’Africa e l’Europa e sarebbero stati conclusi in uno spirito di cooperazione tre due paesi impegnati nella lotta contro l’immigrazione clandestina.
94. La cooperazione tra i paesi mediterranei in materia di controllo delle migrazioni e di lotta contro i crimini legati all’immigrazione clandestina sarebbe stata incoraggiata a più riprese dagli organi dell’Unione europea. Il Governo fa riferimento in particolare alla Risoluzione del Parlamento europeo n. 2006/2250 nonché al Patto europeo sull’immigrazione e sull’asilo, elaborato dal Consiglio europeo il 24 settembre 2008, i quali affermano la necessità per i paesi dell’UE di cooperare e di stabilire partenariati con i paesi d’origine e di transito al fine di rafforzare il controllo delle frontiere esterne dell’UE e di contrastare l’immigrazione clandestina.
95. Quanto agli avvenimenti del 6 maggio 2009, all’origine del presente ricorso, secondo il Governo si trattava di un’operazione di salvataggio in alto mare conforme al diritto internazionale. A dire del Governo, le navi militari italiane sono intervenute in maniera conforme alla Convenzione di Montego Bay e alla Convenzione internazionale sulla ricerca e sul salvataggio marittimi («Convenzione SAR»), per far fronte alla situazione di pericolo immediato in cui versavano le imbarcazioni e salvare la vita dei ricorrenti e degli altri migranti.
Secondo il Governo, il regime giuridico dell’alto mare è caratterizzato dal principio della libertà di navigazione. In questo contesto, non si sarebbe dovuto procedere all’identificazione degli interessati. Le autorità italiane si sarebbero limitate a prestare agli interessati la necessaria assistenza umanitaria. Il controllo dei ricorrenti sarebbe stato ridotto al minimo non essendo stata prevista alcuna operazione di polizia marittima a bordo delle navi.
96. Durante il trasferimento in Libia, i ricorrenti non avrebbero manifestato in alcun momento l’intenzione di chiedere asilo politico o un’altra forma di tutela internazionale. Secondo il Governo, un’eventuale domanda espressa dai ricorrenti al fine di non essere consegnati alle autorità libiche non può essere interpretata come una richiesta di asilo.
Al riguardo, esso afferma che, in caso di domanda di asilo, gli interessati sarebbero stati portati in territorio nazionale, come avvenuto in occasione di altre operazioni in alto mare effettuate nel 2009.
97. Inoltre, stando al Governo, la Libia è un luogo di accoglienza sicuro. Lo dimostrerebbe il fatto che quello Stato ha ratificato il Patto internazionale delle Nazioni Unite relativo ai diritti civili e politici, la Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura ed altre pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti e la Convenzione dell’Unione africana sui rifugiati in Africa, nonché la sua appartenenza all’Organizzazione internazionale per le migrazioni (OIM).
Sebbene non sia parte alla Convenzione delle Nazioni Unite relativa allo status dei rifugiati, la Libia avrebbe autorizzato l’HCR e l’OIM ad aprire uffici a Tripoli, cosa che avrebbe permesso di concedere lo status di rifugiati a numerosi richiedenti e di garantire loro tutela internazionale.
98. Il Governo richiama l’attenzione della Corte sulla circostanza che, in occasione della ratifica del Trattato di amicizia del 2008, la Libia si era espressamente impegnata a rispettare i principi della Carta delle Nazioni Unite e della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo. L’Italia non avrebbe avuto alcun motivo di pensare che la Libia si sarebbe sottratta ai suoi impegni.
Questa circostanza e la presenza ed attività di uffici dell’HCR e dell’OIM a Tripoli giustificherebbero pienamente la convinzione dell’Italia che la Libia fosse un luogo di accoglienza sicuro per i migranti intercettati in alto mare. Del resto, per il Governo, il riconoscimento dello status di rifugiati concesso dall’HCR a molti richiedenti, compresi alcuni dei ricorrenti, prova inequivocabilmente che la situazione in Libia all’epoca dei fatti era conforme alle norme internazionali in materia di tutela dei diritti dell’uomo.
99. Il Governo ammette che la situazione in Libia è peggiorata a partire dall’aprile 2010, epoca in cui le autorità hanno chiuso l’ufficio dell’HCR a Tripoli, e poi si è deteriorata definitivamente in seguito agli eventi dell’inizio del 2011, ma sostiene che l’Italia ha cessato subito i rinvii di clandestini in Libia ed ha cambiato le modalità di soccorso ai migranti in alto mare, autorizzando a partire da quell’epoca l’ingresso nel territorio nazionale.
100. Il Governo contesta l’esistenza di una «prassi governativa» che consisterebbe, come affermato dai ricorrenti, nell’effettuare rinvii arbitrari in Libia. Al riguardo, esso definisce il ricorso un «manifesto politico ed ideologico» contro l’azione del governo italiano. Questo auspica che la Corte si limiti a prendere in esame unicamente gli accadimenti del 6 maggio 2009 e non metta in discussione le prerogative dell’Italia in materia di controllo dell’immigrazione, campo a suo avviso estremamente sensibile e complesso.
c) I terzi intervenienti
101. Basandosi sulle dichiarazioni di numerosi testimoni diretti, Human Rights Watch e l’HCR denunciano il respingimento forzato di clandestini verso la Libia da parte dell’Italia. Nel corso del 2009, l’Italia avrebbe effettuato nove operazioni in alto mare, rinviando in Libia 834 persone di nazionalità somala, eritrea e nigeriana.
102. Human Rights Watch ha denunciato la situazione in Libia in più occasioni, in particolare attraverso rapporti pubblicati nel 2006 e nel 2009. Stando all’organizzazione, in assenza di un sistema nazionale di asilo in Libia, i migranti irregolari sono sistematicamente arrestati e spesso sottoposti a torture e violenze fisiche, compreso lo stupro. In spregio delle direttive delle Nazioni Unite in materia di detenzione, i clandestini sarebbero detenuti senza limitazione di tempo e senza alcun controllo giudiziario. Inoltre, le condizioni detentive sarebbero inumane. I migranti sarebbero torturati e non riceverebbero alcuna assistenza medica nei diversi campi del paese. In qualsiasi momento potrebbero essere respinti verso il paese d’origine o abbandonati nel deserto, dove andrebbero incontro a morte certa.
103. Il Centro AIRE, Amnesty International e la FIDH osservano che, da anni, rapporti di fonti affidabili dimostrano in maniera costante che la situazione in materia di diritti dell’uomo in Libia è disastrosa, in particolare per i rifugiati, i richiedenti asilo e i migranti, e soprattutto per le persone provenienti da alcune regioni dell’Africa, quali gli Eritrei e i Somali.
Ad avviso delle tre parti intervenienti, esiste un «obbligo di indagine» in caso di informazioni attendibili provenienti da fonti affidabili secondo le quali le condizioni detentive o di vita nello Stato di ricevimento non sono compatibili con l’articolo 3.
Conformemente al principio pacta sunt servanda, uno Stato non può sottrarsi ai propri obblighi imposti dalla Convenzione in virtù di impegni derivanti da accordi bilaterali o multilaterali in materia di lotta all’immigrazione clandestina.
104. Stando all’HCR, sebbene le autorità italiane non abbiano fornito informazioni dettagliate riguardo alle operazioni di respingimento, diversi testimoni sentiti dall’Alto Commissariato hanno fatto un racconto simile a quello dei ricorrenti. In particolare, essi avrebbero riferito che, per indurre le persone a salire a bordo delle navi italiane, i militari italiani avevano fatto credere loro che le avrebbero portate in Italia. Diversi testimoni avrebbero dichiarato di essere stati ammanettati e di avere subito violenze durante il trasferimento verso il territorio libico e una volta arrivati al centro di trattenimento. Inoltre, le autorità italiane avrebbero confiscato gli effetti personali dei migranti, compresi i certificati dell’HCR attestanti lo status di rifugiati. Diversi testimoni avrebbero inoltre confermato di ricercare tutela e di averlo espressamente comunicato alle autorità italiane durante le operazioni.
105. Secondo l’HCR, almeno cinque dei migranti respinti in Libia, riusciti poi a tornare in Italia, tra i quali il sig. Ermias Berhane, si sono visti concedere lo status di rifugiati in Italia. Per giunta, nel 2009, l’ufficio dell’HCR di Tripoli avrebbe concesso lo status di rifugiati a settantatre persone respinte dall’Italia, tra le quali quattordici dei ricorrenti. Sarebbe la prova che le operazioni condotte dall’Italia in alto mare comportano il rischio reale di respingimento arbitrario di persone bisognose di tutela internazionale.
106. Per l’HCR poi, nessuna delle argomentazioni avanzate dall’Italia per giustificare i respingimenti è accettabile. Né il principio di cooperazione tra Stati per la lotta al traffico illecito di migranti né le disposizioni relative al diritto internazionale del mare in materia di salvaguardia della vita umana in mare dispenserebbero gli Stati dall’obbligo di rispettare i principi di diritto internazionale.
107. La Libia, paese di transito e di destinazione dei flussi migratori provenienti dall’Asia e dall’Africa, non garantirebbe alcuna forma di tutela ai richiedenti asilo. Sebbene firmataria di un certo numero di strumenti internazionali in materia di diritti dell’uomo, essa non rispetterebbe molto i suoi obblighi. In assenza di un sistema nazionale di diritto di asilo, le attività in questo campo sarebbero state condotte esclusivamente dall’HCR e dai suoi partner. Malgrado ciò, l’azione dell’Alto Commissariato non sarebbe mai stata ufficialmente riconosciuta dal governo libico che, nell’aprile 2010, avrebbe intimato all’HCR di chiudere l’ufficio di Tripoli e di cessare le attività.
Tenuto conto di questo contesto, il governo libico non concederebbe nessuno status formale alle persone registrate come rifugiati dall’HCR, alle quali non sarebbe garantita alcuna forma di tutela.
108. Fino agli avvenimenti del 2011, le persone considerate immigrati clandestini sarebbero state detenute in «centri di trattenimento», la maggior parte dei quali visitati dall’HCR. Le condizioni di vita in detti centri sarebbero state molto mediocri e caratterizzate da sovraffollamento e servizi igienici inadeguati. La situazione sarebbe stata aggravata dalle operazioni di respingimento, che avrebbero accentuato il sovraffollamento e comportato un ulteriore peggioramento delle condizioni sanitarie, all’origine di un accresciuto bisogno di assistenza di base ai fini della sopravvivenza stessa delle persone.
109. Secondo la Columbia Law School Human Rights Clinic, l’immigrazione clandestina dal mare non è un fenomeno nuovo e la comunità internazionale riconosce ormai sempre più la necessità di limitare le pratiche di controllo dell’immigrazione, compresa l’intercettazione in mare, suscettibili di ostacolare l’accesso dei migranti alla tutela e quindi di esporli al rischio di tortura.
2. Valutazione della Corte
a) Sulla ricevibilità
110. Ad avviso del Governo, i ricorrenti non possono sostenere di essere «vittime», ai sensi dell’articolo 34 della Convenzione, dei fatti da loro denunciati. Esso contesta l’esistenza del rischio reale, per i ricorrenti, di essere sottoposti a trattamenti inumani e degradanti in conseguenza del respingimento. La valutazione di un tale rischio dovrebbe farsi sulla base di fatti seri e accertati riguardanti la situazione di ciascun ricorrente. Ora, le informazioni fornite dagli interessati sarebbero vaghe ed insufficienti.
111. Secondo la Corte, la questione sollevata da questa eccezione è strettamente connessa a quella da affrontare durante l’esame della fondatezza dei motivi di ricorso relativi all’articolo 3 della Convenzione. In particolare, la disposizione impone alla Corte di verificare l’eventuale esistenza di motivi seri ed accertati per ritenere che gli interessati corressero il rischio reale di essere sottoposti a tortura o a trattamenti inumani o degradanti in conseguenza del rinvio. E’ quindi opportuno riunire la questione all’esame del merito.
112. A giudizio della Corte, questa parte del ricorso pone complesse questioni di fatto e di diritto, la cui risoluzione richiede un esame nel merito; ne consegue che essa non è manifestamente infondata ai sensi dell’articolo 35 § 3 a) della Convenzione. Non essendo stato rilevato nessun altro motivo d’irricevibilità, essa deve dichiararsi ricevibile.
b) Sul merito
i. Principi generali
α) Responsabilità degli Stati contraenti in caso di espulsione
113. Secondo la giurisprudenza della Corte, gli Stati contraenti hanno, in virtù di un principio di diritto internazionale ben consolidato e fatti salvi gli impegni derivanti per loro da trattati, ivi compreso dalla Convenzione, il diritto di controllare l’ingresso, il soggiorno e l’allontanamento dei non residenti (si vedano, tra molte altre, Abdulaziz, Cabales e Balkandali c. Regno Unito, 28 maggio 1985, § 67, serie A n. 94; e Boujlifa c. Francia, 21 ottobre 1997, § 42, Raccolta delle sentenze e decisioni 1997-VI). Inoltre, la Corte osserva che né la Convenzione né i suoi Protocolli sanciscono il diritto all’asilo politico (Vilvarajah ed altri c. Regno Unito, 30 ottobre 1991, § 102, serie A n. 215; e Ahmed c. Austria, 17 dicembre 1996, § 38, Raccolta 1996-VI).
114. Tuttavia, l’espulsione, l’estradizione ed ogni altra misura di allontanamento di uno straniero da parte di uno Stato contraente possono sollevare un problema sotto il profilo dell’articolo 3, quindi chiamare in causa la responsabilità dello Stato in questione ai sensi della Convenzione, quando esistano motivi seri ed accertati per ritenere che l’interessato, se espulso verso il paese di destinazione, vi correrà il rischio reale di essere sottoposto ad un trattamento contrario all’articolo 3. In questo caso, l’articolo 3 implica l’obbligo di non espellere la persona in questione verso quel paese (Soering, sopra citata, §§ 90-91; Vilvarajah ed altri, sopra citata, § 103; Ahmed, sopra citata, § 39; H.L.R. c. Francia, 29 aprile 1997, § 34, Raccolta 1997-III; Jabari c. Turchia, n. 40035/98, § 38, CEDU 2000-VIII; e Salah Sheekh c. Paesi Bassi, n. 1948/04, § 135, 11 gennaio 2007).
115. In questo tipo di cause, la Corte è quindi chiamata a valutare la situazione nel paese di destinazione in base alle esigenze dell’articolo 3. Quando si accerti o possa accertarsi una responsabilità sotto il profilo della Convenzione, è quella dello Stato contraente, per un’azione il cui risultato diretto è di esporre qualcuno al rischio di maltrattamenti proibiti (Saadi c. Italia [GC], n. 37201/06, § 126, 28 febbraio 2008).
β) Elementi presi in considerazione per valutare il rischio di trattamenti contrari all’articolo 3 della Convenzione
116. Per stabilire se esistano motivi seri ed accertati per credere ad un rischio reale di trattamenti incompatibili con l’articolo 3, la Corte si basa sull’insieme di elementi ad essa forniti o, all’occorrenza, procuratisi d’ufficio (H.L.R. c. Francia, sopra citata, § 37; e Hilal c. Regno Unito, n. 45276/99, § 60, CEDU 2001-II). In cause quali quella che ci occupa, la Corte è infatti tenuta ad applicare criteri rigorosi al fine di valutare l’esistenza di un tale rischio (Chahal c. Regno Unito, 15 novembre 1996, § 96, Raccolta 1996 V).
117. Per verificare l’esistenza del rischio di maltrattamenti, la Corte deve prendere in esame le prevedibili conseguenze del rinvio di un ricorrente nel paese di destinazione, tenuto conto della situazione generale esistente in tale paese e delle circostanze proprie del caso dell’interessato (Vilvarajah ed altri, sopra citata, § 108 in fine).
118. A tal fine, quanto alla situazione generale esistente in un paese, spesso la Corte ha attribuito importanza alle informazioni contenute nei recenti rapporti di associazioni internazionali indipendenti di difesa dei diritti dell’uomo quali Amnesty International, o di fonti governative (si veda, ad esempio, Chahal, sopra citata, §§ 99-100; Müslim c. Turchia, n. 53566/99, § 67, 26 aprile 2005; Said c. Paesi Bassi, n. 2345/02, § 54, CEDU 2005-VI; Al-Moayad c. Germania (dec.), n. 35865/03, §§ 65-66, 20 febbraio 2007; e Saadi, sopra citata, § 131).
119. Nelle cause in cui un ricorrente sostiene di appartenere ad un gruppo esposto sistematicamente alla pratica di maltrattamenti, la tutela dell’articolo 3 entra in gioco, secondo la Corte, quando l’interessato dimostri, eventualmente attraverso le fonti menzionate nel paragrafo precedente, che vi sono motivi seri ed accertati di credere all’esistenza della pratica in questione e alla sua appartenenza al gruppo preso di mira (si veda, mutatis mutandis, Salah Sheekh, sopra citata, §§ 138-149).
120. Tenuto conto dell’assolutezza del diritto sancito, non è escluso che l’articolo 3 trovi applicazione anche in caso di pericolo proveniente da persone o gruppi di persone non collegate alla funzione pubblica. Inoltre, occorre dimostrare che il rischio esiste realmente e che le autorità dello Stato di destinazione non sono in grado di ovviarvi con una tutela adeguata (H.L.R. c. Francia, sopra citata, § 40).
121. Quanto al momento da prendere in considerazione, è necessario fare riferimento innanzitutto alle circostanze di cui lo Stato in questione era o doveva essere a conoscenza al momento dell’allontanamento.
ii. Applicazione nel caso di specie
122. La Corte ha già avuto modo di riconoscere che gli Stati situati alle frontiere esterne dell’Unione europea incontrano attualmente notevoli difficoltà nel far fronte ad un crescente flusso di migranti e di richiedenti asilo. Essa non può sottovalutare il peso e la pressione imposti sui paesi interessati da questa situazione, tanto più pesanti in quanto inseriti in un contesto di crisi economica (si veda M.S.S. c. Belgio e Grecia [GC], n. 30696/09, § 223, 21 gennaio 2011). In particolare, essa è consapevole delle difficoltà legate al fenomeno delle migrazioni marittime, causa per gli Stati di ulteriori complicazioni nel controllo delle frontiere meridionali dell’Europa.
Tuttavia, stante l’assolutezza dei diritti sanciti dall’articolo 3, ciò non può esonerare uno Stato dagli obblighi derivanti da tale disposizione.
123. La Corte ricorda che la tutela dai trattamenti proibiti dall’articolo 3 impone ad uno Stato l’obbligo di non allontanare una persona quando questa corra nello Stato di destinazione il rischio reale di essere sottoposta a quei trattamenti.
Essa constata che i numerosi rapporti di organi internazionali e di organizzazioni non governative descrivono una situazione preoccupante quanto al trattamento riservato in Libia agli immigrati clandestini all’epoca dei fatti. Le conclusioni di detti documenti sono del resto corroborate dal rapporto del CPT del 28 aprile 2010 (paragrafo 35 supra).
124. La Corte osserva tra l’altro che la situazione in Libia si è successivamente deteriorata, dopo la chiusura dell’ufficio dell’HCR di Tripoli, nell’aprile 2010, e dopo la rivolta popolare scoppiata nel paese nel febbraio 2011. Tuttavia, ai fini dell’esame della presente causa, essa farà riferimento alla situazione prevalente in quel paese all’epoca dei fatti.
125. Stando ai diversi rapporti summenzionati, durante il periodo in questione in Libia non veniva rispettata nessuna norma di tutela dei rifugiati; tutte le persone entrate nel paese con mezzi irregolari erano considerate clandestine, senza alcuna distinzione tra i migranti irregolari e i richiedenti asilo. Di conseguenza, esse erano sistematicamente arrestate e detenute in condizioni che i visitatori esterni, quali le delegazioni dell’HCR, di Human Rights Watch e di Amnesty International, non esitano a definire inumane. Numerosi casi di tortura, di cattive condizioni igieniche e di assenza di cure mediche appropriate sono stati denunciati da tutti quanti gli osservatori. I clandestini rischiavano in qualsiasi momento di essere respinti verso il paese di origine e, quando riuscivano a ritrovare la libertà, erano esposti a condizioni di vita particolarmente precarie a causa della loro situazione irregolare. Gli immigrati irregolari, come i ricorrenti, erano destinati ad occupare nella società libica una posizione marginale ed isolata, che li rendeva estremamente vulnerabili agli atti xenofobi e razzisti (paragrafi 35-41 supra).
126. Ora, stando a quegli stessi rapporti, i migranti clandestini sbarcati in Libia dopo l’intercettazione in alto mare da parte dell’Italia, quali i ricorrenti, non sfuggivano a questi rischi.
127. Di fronte al preoccupante quadro dipinto dalle diverse organizzazioni internazionali, il governo convenuto sostiene che la Libia era, all’epoca dei fatti, un luogo di destinazione «sicuro» per i migranti intercettati in alto mare.
Esso fonda la sua convinzione sulla presunzione che la Libia avrebbe rispettato gli impegni internazionali in materia di asilo e di tutela dei rifugiati, compreso il principio di non respingimento. Sostiene che il Trattato di amicizia italo-libico del 2008, in virtù del quale sono stati effettuati i respingimenti di clandestini, prevedeva espressamente il rispetto delle disposizioni di diritto internazionale in materia di tutela dei diritti dell’uomo, così come delle altre convenzioni internazionali alle quali la Libia era parte.
128. Al riguardo, la Corte osserva che il mancato rispetto da parte della Libia degli obblighi internazionali era una delle realtà denunciate dai rapporti internazionali riguardanti quel paese. Ad ogni modo, la Corte si sente in dovere di rammentare che l’esistenza di testi interni e la ratifica di trattati internazionali che sanciscono il rispetto dei diritti fondamentali non sono sufficienti, da soli, a garantire un’adeguata tutela dal rischio di maltrattamenti quando, come nella fattispecie, fonti affidabili rappresentino prassi delle autorità – o da queste tollerate – manifestamente contrarie ai principi della Convenzione (si vedano M.S.S., sopra citata, § 353 e, mutatis mutandis, Saadi, sopra citata, § 147).
129. D’altra parte, la Corte osserva che l’Italia non può liberarsi della sua responsabilità invocando gli obblighi derivanti dagli accordi bilaterali con la Libia. Infatti, anche ammesso che tali accordi prevedessero espressamente il respingimento in Libia dei migranti intercettati in alto mare, gli Stati membri rimangono responsabili anche quando, successivamente all’entrata in vigore della Convenzione e dei suoi Protocolli nei loro confronti, essi abbiano assunto impegni derivanti da trattati (Principe Hans-Adam II di Liechtenstein c. Germania [GC], n. 42527/98, § 47, CEDU 2001 VIII; e Al-Saadoon e Mufdhi c. Regno Unito, n. 61498/08, § 128, 2 marzo 2010).
130. Quanto all’argomentazione del Governo relativa alla presenza di un ufficio dell’HCR a Tripoli, è necessario constatare che l’attività dell’Alto Commissariato, persino prima della sua cessazione definitiva nell’aprile 2010, non ha mai beneficiato della benché minima forma di riconoscimento da parte del governo libico. Dai documenti esaminati dalla Corte emerge che lo status di rifugiato riconosciuto dall’HCR non garantiva alcuna forma di tutela agli interessati in Libia.
131. La Corte osserva ancora una volta che quella realtà era nota e facile da verificare a partire da molteplici fonti. Pertanto, a suo avviso, al momento di allontanare i ricorrenti, le autorità italiane sapevano o dovevano sapere che questi, in quanto migranti irregolari, sarebbero stati esposti in Libia a trattamenti contrari alla Convenzione e non avrebbero potuto accedere ad alcuna forma di tutela in quel paese.
132. Secondo il Governo, i ricorrenti non hanno rappresentato in modo sufficientemente esplicito i rischi corsi in Libia, non avendo chiesto asilo presso le autorità italiane. Il semplice fatto che essi si siano opposti ad essere sbarcati sulle coste libiche non può, a suo dire, essere considerato una domanda di tutela suscettibile di comportare per l’Italia un obbligo in virtù dell’articolo 3 della Convenzione.
133. La Corte osserva innanzitutto che questa circostanza è contestata dagli interessati, i quali hanno affermato di avere comunicato ai militari italiani l’intenzione di chiedere una tutela internazionale. Del resto, la versione dei ricorrenti è corroborata dalle numerose testimonianze raccolte dall’HCR e da Human Rights Watch. Comunque sia, secondo la Corte, spettava alle autorità nazionali, di fronte ad una situazione di mancato rispetto sistematico dei diritti dell’uomo quale quella sopra descritta, informarsi sul trattamento al quale i ricorrenti sarebbero stati esposti dopo il respingimento (si vedano, mutatis mutandis, Chahal c. Regno Unito, sopra citata, §§ 104 e 105; Jabari, sopra citata, §§ 40 e 41; e M.S.S., sopra citata, § 359). Il fatto che gli interessati abbiano omesso di chiedere espressamente asilo, tenuto conto delle circostanze del caso, non dispensava l’Italia dal rispettare gli obblighi derivanti dall’articolo 3.
134. Al riguardo, la Corte osserva che nessuna delle disposizioni di diritto internazionale citate dal Governo giustificava il rinvio dei ricorrenti verso la Libia, nella misura in cui tanto le norme in materia di soccorso alle persone in mare quanto quelle relative al contrasto alla tratta di esseri umani impongono agli Stati il rispetto degli obblighi derivanti dal diritto internazionale in materia di rifugiati, tra i quali il «principio di non respingimento» (paragrafo 23 supra).
135. Il principio di non respingimento è sancito anche dall’articolo 19 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. Al riguardo, la Corte attribuisce un peso particolare al contenuto della lettera scritta il 15 maggio 2009 dal sig. Jacques Barrot, vicepresidente della Commissione europea, nella quale questi ribadisce l’importanza del rispetto del principio di non respingimento nell’ambito di operazioni condotte in alto mare dagli Stati membri dell’Unione europea (paragrafo 34 supra).
136. Alla luce di quanto precede, ad avviso della Corte, nel caso di specie, fatti seri ed accertati permettono di concludere per l’esistenza di un rischio reale per gli interessati di subire in Libia trattamenti contrari all’articolo 3. La circostanza secondo la quale numerosi immigrati irregolari in Libia si trovavano nella stessa situazione dei ricorrenti non cambia in alcun modo la natura individuale del rischio denunciato, risultando questo sufficientemente concreto e probabile (si veda, mutatis mutandis, Saadi, sopra citata, § 132).
137. Basandosi su queste conclusioni e sui doveri derivanti per gli Stati dall’articolo 3, la Corte ritiene che, trasferendo i ricorrenti verso la Libia, le autorità italiane li abbiano esposti con piena cognizione di causa a trattamenti contrari alla Convenzione.
138. Pertanto, è opportuno rigettare l’eccezione del Governo relativa al difetto della qualità di vittima dei ricorrenti e concludere che vi è stata violazione dell’articolo 3 della Convenzione.
B.Sulla dedotta violazione dell’articolo 3 della Convenzione per il fatto che i ricorrenti sono stati esposti al rischio di essere rimpatriati arbitrariamente in Eritrea e in Somalia
1.Tesi delle parti
a)I ricorrenti
139. I ricorrenti sostengono che il loro trasferimento verso la Libia, dove i rifugiati e i richiedenti asilo non beneficiano di alcuna forma di protezione, li ha esposti al rischio di essere respinti verso i loro rispettivi Paesi di origine, la Somalia e l’Eritrea. Fanno valere che vari rapporti provenienti da fonti internazionali affermano l’esistenza di condizioni contrarie ai diritti umani in questi due Paesi.
140. I ricorrenti, che sono fuggiti dai loro rispettivi Paesi, sostengono di essere stati privati di ogni possibilità di ottenere una protezione internazionale. Il fatto che la maggioranza di essi abbia ottenuto lo status di rifugiato successivamente al loro arrivo in Libia confermerebbe che i loro timori di maltrattamenti erano fondati. Essi ritengono che, benché lo status di rifugiato accordato dall’ufficio dell’HCR di Tripoli non abbia alcun valore per le autorità libiche, il fatto che tale status sia stato accordato dimostra che il gruppo di migranti di cui facevano parte necessitava di una protezione internazionale.
b)Il Governo
141. Il Governo fa osservare che la Libia era firmataria di vari strumenti internazionali di tutela dei diritti umani e ricorda che, ratificando il Trattato di amicizia del 2008, essa si era espressamente impegnata a rispettare i principi iscritti nella Carta delle Nazioni Unite e nella Dichiarazione universale dei diritti dell’Uomo.
142. Esso riafferma che la presenza dell’HCR in Libia costituiva una garanzia del fatto che nessuna persona avente diritto all’asilo o ad altra forma di protezione internazionale venisse espulsa arbitrariamente. Sostiene che a un numero importante di ricorrenti è stato accordato lo status di rifugiato in Libia, il che permetterebbe di escluderne il rimpatrio.
c)I terzi intervenienti
143. L’HCR afferma che la Libia ha frequentemente proceduto al rinvio collettivo di rifugiati e di richiedenti asilo verso il loro Paese di origine, dove potevano essere sottoposti a tortura e ad altri maltrattamenti. Denuncia l’assenza di un sistema di protezione internazionale in Libia, il che condurrebbe a un rischio molto elevato di «respingimenti a catena» di persone che necessitano di tutela.
L’Alto Commissariato, così come Human Rights Watch e Amnesty International, sostengono che vi è il rischio, per gli individui rimpatriati con la forza in Eritrea e in Somalia, di essere sottoposti a tortura e a trattamenti inumani e di essere esposti a condizioni di vita estremamente precarie.
144. Il Centro AIRE, Amnesty International e la FIDH affermano che, considerata la particolare vulnerabilità dei richiedenti asilo e delle persone intercettate in mare, e data la mancanza di garanzie o procedure adeguate a bordo delle navi che permettano di contestare i rinvii, è ancora più imperativo per le Parti contraenti coinvolte in operazioni di rinvio verificare la situazione reale negli Stati di destinazione, ivi compresa l’esistenza del rischio di un successivo respingimento.
2.Valutazione della Corte
a)Sulla ricevibilità
145. La Corte ritiene che questo motivo di ricorso sollevi questioni di fatto e di diritto complesse che possono essere risolte solo dopo un esame sul merito. Di conseguenza, questa parte del ricorso non è manifestamente infondata ai sensi dell’articolo 35 § 3 della Convenzione. Poiché non è stato rilevato nessun altro motivo di irricevibilità, essa deve essere dichiarata ricevibile.
b)Sul merito
146. La Corte ricorda il principio secondo il quale il respingimento indiretto di uno straniero lascia inalterata la responsabilità dello Stato contraente, il quale è tenuto, conformemente a una giurisprudenza consolidata, a vigilare a che l’interessato non sia esposto a un rischio reale di subire trattamenti contrari all’articolo 3 della Convenzione in caso di rimpatrio (si vedano, mutatis mutandis, T.I. c. Regno Unito (dec.), n. 43844/98, CEDU 2000-III, e M.S.S., sopra citata, § 342).
147. È lo Stato che procede al respingimento a doversi assicurare che il Paese intermedio offra garanzie sufficienti che permettano di evitare che la persona interessata venga espulsa verso il suo Paese di origine senza valutare il rischio cui va incontro. La Corte osserva che tale obbligo è ancora più importante quando, come nel caso di specie, il Paese intermedio non è uno Stato parte alla Convenzione.
148. Nella presente causa, il compito della Corte non consiste nel pronunciarsi sulla violazione della Convenzione in caso di rimpatrio dei ricorrenti, ma nel verificare se esistessero garanzie tali da permettere di evitare che gli interessati fossero sottoposti a un respingimento arbitrario verso il loro Paese di origine, dal momento che gli stessi potevano far valere in maniera difendibile che un loro eventuale rimpatrio avrebbe costituito una violazione dell’articolo 3 della Convenzione.
149. La Corte dispone di un certo numero di informazioni sulla situazione generale in Eritrea e in Somalia, Paesi di origine dei ricorrenti, prodotte dagli interessati e dai terzi intervenienti (paragrafi 43 e 44 supra).
150. Essa osserva che, secondo l’HCR e Human Rights Watch, le persone rimpatriate con la forza in Eritrea corrono il rischio di essere sottoposte a tortura e detenute in condizioni inumane per il solo fatto di aver lasciato irregolarmente il Paese. Quanto alla Somalia, nella recente causa Sufi e Elmi (sopra citata), la Corte ha constatato la gravità del livello di violenza raggiunto a Mogadiscio e il rischio elevato, per le persone rinviate in questo Paese, di essere portate a transitare nelle zone interessate dal conflitto armato o a cercare rifugio nei campi per i profughi o per i rifugiati, in cui le condizioni di vita sono disastrose.
151. La Corte ritiene che tutte le informazioni in suo possesso mostrano che, prima facie, la situazione in Somalia e in Eritrea ha posto e continua a porre gravi problemi di insicurezza generalizzata. Peraltro, questa constatazione non è stata contestata dinanzi alla Corte.
152. Di conseguenza i ricorrenti potevano, in maniera difendibile, sostenere che il loro rimpatrio avrebbe costituito una violazione dell’articolo 3 della Convenzione. Si tratta ora di stabilire se le autorità italiane potessero ragionevolmente aspettarsi che la Libia presentasse delle garanzie sufficienti contro i rimpatri arbitrari.
153. La Corte osserva anzitutto che la Libia non ha ratificato la Convenzione di Ginevra relativa allo status di rifugiato. Inoltre, gli osservatori internazionali sostengono che in tale Paese non vi è alcuna forma di procedura di asilo e di tutela dei rifugiati. A tale riguardo, la Corte ha già avuto l’occasione di constatare che la presenza dell’HCR a Tripoli non è affatto una garanzia di tutela dei richiedenti asilo, a causa dell’atteggiamento negativo delle autorità libiche, che non riconoscono alcun valore allo status di rifugiato (paragrafo 130 supra).
154. In queste condizioni, la Corte non può sottoscrivere all’argomentazione del Governo secondo cui l’azione dell’HCR rappresenterebbe una garanzia contro i rimpatri arbitrari. Per di più, Human Rights Watch e l’HCR hanno denunciato vari precedenti di ritorno forzato di migranti irregolari verso Paesi a rischio, migranti tra i quali vi erano richiedenti asilo e rifugiati.
155. Pertanto, il fatto che alcuni dei ricorrenti abbiano ottenuto lo status di rifugiato non può rassicurare la Corte sul rischio di respingimenti arbitrari. Al contrario, la corte condivide l’opinione dei ricorrenti secondo cui ciò costituisce una prova supplementare della vulnerabilità degli interessati.
156. Alla luce di quanto precede, la Corte ritiene che, al momento di trasferire i ricorrenti verso la Libia, le autorità italiane sapevano o dovevano sapere che non esistevano garanzie sufficienti a tutelare gli interessati dal rischio di essere rinviati arbitrariamente nei loro Paesi di origine, tenuto conto in particolare dell’assenza di una procedura di asilo e dell’impossibilità di far riconoscere da parte delle autorità libiche lo status di rifugiato accordato dall’HCR.
157. Peraltro, la Corte riafferma che l’Italia non è dispensata dal dovere di rispettare i propri obblighi derivanti dall’articolo 3 della Convenzione per il fatto che i ricorrenti avrebbero omesso di chiedere asilo o di esporre i rischi cui andavano incontro a causa dell’assenza di un sistema di asilo in Libia. Essa ricorda ancora una volta erano le autorità italiane a doversi informare sul modo in cui le autorità libiche adempievano ai loro obblighi internazionali in materia di protezione dei rifugiati.
158. Di conseguenza il trasferimento dei ricorrenti verso la Libia ha comportato anche una violazione dell’articolo 3 della Convenzione in quanto li ha esposti al rischio di rimpatrio arbitrario.
IV.SULLA DEDOTTA VIOLAZIONE DELL’ARTICOLO 4 DEL PROTOCOLLO N. 4
159. I ricorrenti affermano di essere stati oggetto di una espulsione collettiva priva di qualsiasi base legale. Invocano l’articolo 4 del Protocollo n. 4, che recita:
«Le espulsioni collettive di stranieri sono vietate.»
1.Tesi delle parti
a)Il Governo
160. Il Governo eccepisce l’inapplicabilità dell’articolo 4 del Protocollo n. 4 nel caso di specie. Ritiene che la garanzia offerta da tale disposizione entra in gioco solo in caso di espulsione di persone che si trovano sul territorio di uno Stato o che hanno attraversato illegalmente la frontiera nazionale. Nella presente causa, la misura in questione corrisponderebbe ad un rifiuto di autorizzare l’entrata nel territorio nazionale piuttosto che a una «espulsione».
b)I ricorrenti
161. Pur ammettendo che l’uso del termine «espulsione» potrebbe apparentemente costituire un ostacolo all’applicabilità di tale disposizione, i ricorrenti affermano che un approccio evolutivo dovrebbe portare la Corte a riconoscere l’applicabilità dell’articolo 4 del Protocollo n. 4 nella presente causa.
162. In particolare, i ricorrenti propendono per una interpretazione funzionale e teleologica di tale disposizione. Secondo loro, lo scopo essenziale del divieto delle espulsioni collettive è quello di impedire agli Stati di procedere al trasferimento forzato di un gruppo di stranieri verso un altro Stato senza esaminare, fosse anche in maniera sommaria, la loro situazione individuale. In questa ottica, un simile divieto dovrebbe applicarsi anche alle misure di allontanamento dei migranti in alto mare, eseguite senza alcun atto formale preliminare, in quanto dette misure potrebbero costituire delle «espulsioni mascherate». Una interpretazione teleologica ed «extraterritoriale» di questa disposizione produrrebbe l’effetto di renderla concreta ed effettiva e non teorica ed illusoria.
163. Secondo i ricorrenti, anche a voler supporre che la Corte decida di conferire una portata strettamente territoriale al divieto stabilito dall’articolo 4 del Protocollo n. 4, il loro respingimento verso la Libia rientrerebbe in ogni caso nel campo di applicazione di tale articolo in quanto è avvenuto da una nave battente bandiera italiana, assimilata dall’articolo 4 del codice italiano della navigazione al «territorio italiano».
Il loro respingimento verso la Libia, eseguito senza averli precedentemente identificati e in assenza di un esame della situazione personale di ciascuno di essi, avrebbe costituito, in sostanza, una misura di allontanamento collettivo.
c)I terzi intervenienti
164. L’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani (HCDH), così come l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (HCR) (paragrafo 7 supra), sostiene che l’articolo 4 del Protocollo n. 4 è applicabile al caso di specie. Ritiene che la questione è cruciale, tenuto conto delle ripercussioni importanti che una interpretazione estensiva di questa disposizione potrebbe avere nel campo delle migrazioni internazionali.
Dopo aver ricordato che le espulsioni collettive di stranieri, ivi compresi quelli in situazione irregolare, sono vietate in maniera generale dal diritto internazionale e comunitario, l’HCDH afferma che le persone intercettate in mare devono poter beneficiare di una protezione contro questo tipo di espulsioni, anche quando non sono riuscite a raggiungere la frontiera di uno Stato.
Le espulsioni collettive praticate in alto mare sono vietate rispetto al principio della buona fede, alla luce del quale devono essere interpretate le disposizioni delle convenzioni. Permettere agli Stati di rinviare i migranti intercettati in alto mare senza rispettare la garanzia sancita dall’articolo 4 del Protocollo n. 4 significherebbe accettare che gli Stati si liberino dai loro obblighi derivanti da convenzioni con il pretesto delle operazioni di controllo alle frontiere.
Inoltre, riconoscere l’esercizio extraterritoriale della giurisdizione di uno Stato contraente per fatti avvenuti in alto mare comporterebbe secondo l’HCDH una presunzione di applicabilità di tutti i diritti sanciti dalla Convenzione e dai suoi Protocolli.
165. La Columbia Law School Human Rights Clinic ricorda l’importanza delle garanzie processuali nel campo della tutela dei diritti dei rifugiati. Gli Stati avrebbero il dovere di esaminare la situazione di ciascun individuo caso per caso, allo scopo di garantire una tutela efficace dei diritti fondamentali delle persone interessate e di evitare di procedere al loro allontanamento quando vi è il rischio di un pregiudizio.
Essa ritiene che l’immigrazione clandestina via mare non sia un fenomeno nuovo, ma che la comunità internazionale riconosca sempre più la necessità di fissare dei limiti alle pratiche degli Stati in materia di controllo dell’immigrazione, ivi compresa l’intercettazione in mare. Il principio di non respingimento esigerebbe dagli Stati che essi si astengano dall’allontanare delle persone senza aver valutato la loro situazione caso per caso.
Così, vari organi delle Nazioni Unite, come il Comitato contro la tortura, avrebbero chiaramente dichiarato che tali pratiche rischiavano di violare le norme internazionali in materia di diritti dell’uomo e avrebbero sottolineato l’importanza dell’identificazione e della valutazione individuali per prevenire i rinvii a rischio. La Commissione interamericana dei diritti dell’uomo avrebbe riconosciuto l’importanza di queste garanzie processuali nella causa The Haitian Center for Human Rights et al. v. United States (causa n. 10.675, rapporto n. 51/96, § 163), nella quale avrebbe espresso il parere che gli Stati Uniti avevano rinviato in maniera inaccettabile dei migranti haïtiani intercettati in alto mare senza aver proceduto ad un’adeguata determinazione del loro status né averli sentiti allo scopo di verificare se potessero rivendicare lo status di rifugiato. Tale decisione sarebbe tanto più importante in quanto contraddirebbe la posizione adottata precedentemente dalla Corte suprema degli Stati Uniti nella causa Sale v. Haitian Centers Council (113 S.Ct, 2549, 1993).
2.Valutazione della Corte
a)Sulla ricevibilità
166. La Corte deve anzitutto esaminare la questione dell’applicabilità dell’articolo 4 del Protocollo n. 4. Nella causa Henning Becker c. Danimarca (n. 7011/75, decisione del 3 ottobre 1975), relativa al rimpatrio di un gruppo di circa duecento bambini vietnamiti da parte delle autorità danesi, la Commissione ha definito, per la prima volta, l’«espulsione collettiva di stranieri» come «qualsiasi misura dell’autorità competente che costringa degli stranieri, in quanto gruppo, a lasciare un Paese, salvi i casi in cui una tale misura venga adottata all’esito e sulla base di un esame ragionevole e oggettivo della situazione particolare di ciascuno degli stranieri che compongono il gruppo».
167. In seguito, questa definizione è stata utilizzata dagli organi della Convenzione nelle altre cause relative all’articolo 4 del Protocollo n. 4. La Corte osserva che la maggior parte di esse riguardava persone che si trovavano sul territorio dello Stato interessato (K.G. c. Repubblica Federale di Germania, n. 7704/76, decisione della Commissione del 1° marzo 1977; O. e altri c. Lussemburgo, n. 7757/77, decisione della Commissione del 3 marzo 1978; A. e altri c. Paesi Bassi, n. 14209/88, decisione della Commissione del 16 dicembre 1988; Andric c. Svezia (dec.), n. 45917/99, 23 febbraio 1999; Čonka c. Belgio, n. 51564/99, CEDU 2002-I; Davydov c. Estonia (dec.), n. 16387/03, 31 maggio 2005; Berisha e Haljiti c. ex-Repubblica jugoslava di Macedonia, n. 18670/03, decisione del 16 giugno 2005; Sultani c. Francia, n. 45223/05, CEDU 2007 X; Ghulami c. Francia (dec.), n. 45302/05, 7 aprile 2009; e Dritsas c. Italia (dec.), n. 2344/02, 1° febbraio 2011).
168. La causa Xhavara e altri c. Italia e Albania ((dec.), n. 39473/98, 11 gennaio 2001), riguardava invece dei cittadini albanesi che avevano tentato di entrare clandestinamente in Italia a bordo di una imbarcazione albanese e che erano stati intercettati da una nave da guerra italiana a circa 35 miglia marine dalle coste italiane. La nave italiana aveva cercato di impedire agli interessati di sbarcare sulle coste nazionali, provocando il decesso di cinquantotto persone, tra cui i genitori dei ricorrenti, in seguito a una collisione. In quest’ultima causa, i ricorrenti contestavano in particolare il decreto-legge n. 60 del 1997, che prevedeva l’espulsione immediata degli stranieri irregolari, misura contro la quale poteva essere presentato solo un ricorso non sospensivo. Essi vedevano in ciò una inosservanza della garanzia offerta dall’articolo 4 del Protocollo n. 4. La Corte ha rigettato questo motivo di ricorso per incompatibilità ratione personae, in quanto la disposizione interna contestata non era stata applicata alla loro causa, e non si è pronunciata sull’applicabilità dell’articolo 4 del Protocollo n. 4 al caso di specie.
169. Pertanto, nella presente causa, la Corte è chiamata per la prima volta a esaminare la questione dell’applicabilità dell’articolo 4 del Protocollo n. 4 a un caso di allontanamento di stranieri verso uno Stato terzo effettuato fuori dal territorio nazionale. Si tratta di stabilire se il trasferimento dei ricorrenti verso la Libia abbia costituito una «espulsione collettiva di stranieri» ai sensi della disposizione in questione.
170. Per interpretare le disposizioni delle convenzioni, la Corte si ispira agli articoli 31 – 33 della Convenzione di Vienna sui diritti dei trattati (si veda, ad esempio, Golder c. Regno Unito, 21 febbraio 1975, § 29, serie A n. 18; Demir e Baykara c. Turchia [GC], n. 34503/97, § 65, 12 novembre 2008; e Saadi c. Regno Unito [GC], n. 13229/03, § 62, 29 gennaio 2008).
171. In applicazione della Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati, la Corte deve stabilire il senso comune da attribuire ai termini nel loro contesto e alla luce dell’oggetto e dello scopo della disposizione da cui sono tratti. Deve tenere conto del fatto che la disposizione in questione fa parte di un trattato per la protezione effettiva dei diritti dell’uomo e che la Convenzione deve essere vista come un insieme ed essere interpretata in modo da promuovere la propria coerenza interna e l’armonia tra le sue varie disposizioni (Stec e altri c. Regno Unito (dec.) [GC], nn. 65731/01 e 65900/01, § 48, CEDU 2005-X). La Corte deve anche prendere in considerazione tutte le norme e i principi di diritto internazionale applicabili ai rapporti tra le Parti contraenti (Al-Adsani c. Regno Unito [GC], n. 35763/97, § 55, CEDU 2001 XI; e Bosphorus Hava Yolları Turizm ve Ticaret Anonim Şirketi (Bosphorus Airways) c. Irlanda [GC], n. 45036/98, § 150, CEDU 2005-VI; si veda anche l’articolo 31 § 3 c) della Convenzione di Vienna). La Corte può anche fare appello a dei mezzi complementari di interpretazione, in particolare ai lavori preparatori della Convenzione, per confermare un senso determinato conformemente ai metodi sopra indicati o per chiarirne il significato quando esso sarebbe altrimenti ambiguo, oscuro o manifestamente assurdo e irragionevole (articolo 32 della Convenzione di Vienna).
172. Il Governo considera che un ostacolo logico si oppone all’applicabilità dell’articolo 4 del Protocollo n. 4 alla presente causa, ossia il fatto che i ricorrenti non si trovavano sul territorio nazionale al momento del loro trasferimento verso la Libia. Di conseguenza, tale misura non può, secondo il Governo, essere considerata una «espulsione» nel senso comune del termine.
173. La Corte non condivide l’opinione del Governo su questo punto. Essa osserva anzitutto che, se le cause esaminate finora riguardavano persone che si trovavano già, a vario titolo, nel territorio del Paese interessato, il contenuto dell’articolo 4 del Protocollo n. 4 non ne ostacola l’applicazione extraterritoriale. È opportuno osservare, in effetti, che l’articolo 4 del Protocollo n. 4 non contiene alcun riferimento alla nozione di «territorio» mentre, al contrario, il testo dell’articolo 3 dello stesso Protocollo evoca espressamente la portata territoriale del divieto di espulsione dei cittadini. Parimenti, l’articolo 1 del Protocollo n. 7 si riferisce esplicitamente alla nozione di territorio in materia di garanzie processuali in caso di espulsione di stranieri residenti regolarmente nel territorio dello Stato. Secondo la Corte, questo elemento testuale non può essere ignorato.
174. Quanto ai lavori preparatori, essi non sono espliciti con riguardo al campo di applicazione e alla portata dell’articolo 4 del Protocollo n. 4. In ogni caso, dal rapporto esplicativo relativo al Protocollo n. 4, redatto nel 1963, risulta che per il Comitato di esperti l’articolo 4 doveva formalmente vietare «le espulsioni collettive del tipo di quelle avvenute in un passato recente». Perciò era «inteso che l’adozione del presente articolo [dell’articolo 4] e dell’articolo 3, paragrafo 1, non potrebbe in alcun modo essere interpretata nel senso di legittimare le misure di espulsione collettiva adottate in passato». Nel commento al progetto si può leggere che, secondo il Comitato di esperti, gli stranieri ai quali l’articolo si riferisce non sono solo quelli che risiedono regolarmente sul territorio, ma «tutti quelli che non hanno un diritto attuale di cittadinanza nello Stato, senza distinguere né se sono semplicemente di passaggio o se sono residenti o domiciliati, né se sono rifugiati o se sono entrati nel Paese spontaneamente, né se sono apolidi o possiedono una cittadinanza» (Articolo 4 del progetto definitivo del Comitato, p. 505, § 34). Infine, per i redattori del Protocollo n. 4, la parola «espulsione» doveva essere interpretata nel senso generico ad essa riconosciuto dal linguaggio corrente (mandare via da un luogo)». Benché quest’ultima definizione sia contenuta nella sezione relativa all’articolo 3 del Protocollo, la Corte considera che essa si possa applicare anche all’articolo 4 dello stesso Protocollo. Di conseguenza nemmeno i lavori preparatori si oppongono ad una applicazione extraterritoriale dell’articolo 4 del Protocollo n. 4.
175. Rimane da stabilire se una tale applicazione sia giustificata. Per rispondere a questa domanda, conviene tenere conto dello scopo e del senso della disposizione in questione, che devono essi stessi essere analizzati alla luce del principio, solidamente radicato nella giurisprudenza della Corte, secondo il quale la Convenzione è uno strumento vivo che deve essere interpretato alla luce delle condizioni attuali (si veda, ad esempio, Soering, sopra citata, § 102; Dudgeon c. Regno Unito, 22 ottobre 1981, serie A n. 45; X, Y e Z c. Regno Unito, 22 aprile 1997, Recueil 1997-II; V. c. Regno Unito [GC], n. 24888/94, § 72, CEDU 1999-IX; e Matthews c. Regno Unito [GC], n. 24833/94, § 39, CEDU 1999-I). Inoltre, è fondamentale che la Convenzione sia interpretata e applicata in modo tale da rendere le garanzie in essa contenute concrete ed effettive e non teoriche ed illusorie (Marckx c. Belgio, 13 giugno 1979, § 41, serie A n. 31; Airey c. Irlanda, 9 ottobre 1979, § 26, serie A n. 32; Mamatkoulov e Askarov c. Turchia [GC], nn. 46827/99 e 46951/99, § 121, CEDU 2005-I; e Leyla Şahin c. Turchia [GC], n. 44774/98, § 136, CEDU 2005-XI).
176. È trascorso molto tempo dalla redazione del Protocollo n. 4. Da allora, i flussi migratori in Europa si sono incessantemente intensificati, utilizzando sempre più la via marittima, tanto che l’intercettazione di migranti in alto mare e il loro rinvio verso i Paesi di transito o di origine fanno ormai parte del fenomeno migratorio, nella misura in cui costituiscono per gli Stati dei mezzi di lotta contro l’immigrazione irregolare.
Il contesto di crisi economica e i recenti mutamenti sociali e politici che hanno interessato in particolare alcune regioni dell’Africa e del Medio Oriente pongono gli Stati contraenti di fronte a nuove sfide nel campo della gestione dell’immigrazione.
177. La Corte ha già osservato che, secondo la giurisprudenza consolidata della Commissione e della Corte, lo scopo dell’articolo 4 del Protocollo n. 4 è evitare che gli Stati possano allontanare un certo numero di stranieri senza esaminare la loro situazione personale e, di conseguenza, senza permettere loro di esporre le loro argomentazioni per contestare il provvedimento adottato dall’autorità competente. Se dunque l’articolo 4 del Protocollo n. 4 dovesse applicarsi soltanto alle espulsioni collettive eseguite a partire dal territorio nazionale degli Stati parte alla Convenzione, una parte importante dei fenomeni migratori contemporanei verrebbe sottratta a tale disposizione, sebbene le manovre che essa intende vietare possano avvenire fuori dal territorio nazionale e, in particolare, come nel caso di specie, in alto mare. L’articolo 4 verrebbe così privato di qualsiasi effetto utile rispetto a tali fenomeni, che tendono pertanto a moltiplicarsi. Da ciò deriverebbe che dei migranti che sono partiti via mare, spesso mettendo a rischio la loro vita, e che non sono riusciti a raggiungere le frontiere di uno Stato, non avrebbero diritto a un esame della loro situazione personale prima di essere espulsi, contrariamente a quelli che sono partiti via terra.
178. Pertanto è chiaro che, così come la nozione di «giurisdizione» è principalmente territoriale e si esercita presumibilmente nel territorio nazionale degli Stati (paragrafo 71 supra), la nozione di espulsione è, anch’essa, principalmente territoriale, nel senso che le espulsioni avvengono nella maggior parte dei casi a partire dal territorio nazionale. Tuttavia, laddove, come nel caso di specie, ha riconosciuto che uno Stato contraente aveva esercitato, a titolo eccezionale, la propria giurisdizione fuori dal suo territorio nazionale, la Corte non vede ostacoli nell’accettare che l’esercizio della giurisdizione extraterritoriale di tale Stato ha preso la forma di una espulsione collettiva. Concludere diversamente, e accordare a quest’ultima nozione una portata strettamente territoriale, provocherebbe una distorsione tra il campo di applicazione della Convenzione in quanto tale e quello dell’articolo 4 del Protocollo n. 4, il che sarebbe contrario al principio secondo cui la Convenzione deve interpretarsi nella sua globalità. Del resto, per quanto riguarda l’esercizio da parte di uno Stato della propria giurisdizione in alto mare, la Corte ha già affermato che la specificità del contesto marittimo non può portare a sancire uno spazio di non diritto all’interno del quale gli individui non sarebbero soggetti ad alcun regime giuridico che possa accordare loro il godimento dei diritti e delle garanzie previsti dalla Convenzione e che gli Stati si sono impegnati a riconoscere alle persone poste sotto la loro giurisdizione (Medvedyev e altri, sopra citata, § 81).
179. Le considerazioni sopra esposte non rimettono in discussione il diritto di cui dispongono gli Stati di stabilire sovranamente le loro politiche di immigrazione. È tuttavia importante sottolineare che le difficoltà nella gestione dei flussi migratori non possono giustificare il ricorso, da parte degli Stati, a pratiche che sarebbero incompatibili con i loro obblighi derivanti da convenzioni. La Corte riafferma a questo proposito che l’interpretazione delle norme di convenzioni deve essere fatta con riguardo al principio della buona fede e all’oggetto e allo scopo del trattato, nonché della regola dell’effetto utile (Mamatkulov e Askarov, sopra citata, § 123).
180. Tenuto conto di quanto precede, la Corte considera che gli allontanamenti di stranieri eseguiti nell’ambito di intercettazioni in alto mare da parte delle autorità di uno Stato e nell’esercizio dei pubblici poteri, e che producono l’effetto di impedire ai migranti di raggiungere le frontiere dello Stato, o addirittura di respingerli verso un altro Stato, costituiscono un esercizio della loro giurisdizione ai sensi dell’articolo 1 della Convenzione, che impegna la responsabilità dello Stato in questione sul piano dell’articolo 4 del Protocollo n. 4.
181. Nella fattispecie, la Corte ritiene che l’operazione che ha portato al trasferimento dei ricorrenti verso la Libia è stata condotta dalle autorità italiane allo scopo di impedire gli sbarchi di migranti irregolari sulle coste nazionali. A questo riguardo, attribuisce un peso particolare alle dichiarazioni rilasciate dopo i fatti dal ministro dell’Interno alla stampa nazionale e al Senato della Repubblica, con le quali ha spiegato l’importanza dei rinvii in alto mare per la lotta contro l’immigrazione clandestina e ha sottolineato la riduzione importante del numero degli sbarchi dovuta alle operazioni condotte durante il mese di maggio 2009 (paragrafo 13 supra).
182. Pertanto, la Corte rigetta l’eccezione del Governo e considera che l’articolo 4 del Protocollo n. 4 sia applicabile nel caso di specie.
b)Sul merito
183. La Corte osserva che, a tutt’oggi, la causa Čonka (sentenza sopra citata) è l’unica in cui ha constatato una violazione dell’articolo 4 del Protocollo n. 4. Nell’esame di tale causa, al fine di valutare l’esistenza di una espulsione collettiva, essa ha esaminato le circostanze del caso di specie e verificato se le decisioni di allontanamento avessero preso in considerazione la situazione particolare degli individui interessati. La Corte ha allora dichiarato (§§ 61-63):
«La Corte osserva tuttavia che le misure di detenzione e di allontanamento in questione sono state adottate in esecuzione di un ordine di lasciare il territorio emesso il 29 settembre 1999, che era fondato soltanto sull’articolo 7, comma 1, 2o, della legge sugli stranieri, senza altri riferimenti alla situazione personale degli interessati a parte il fatto che la durata del loro soggiorno in Belgio era superiore a tre mesi. In particolare, il documento non faceva alcun riferimento alla domanda di asilo dei ricorrenti né alle decisioni del 3 marzo e del 18 giugno 1999 intervenute in materia. Certamente, tali decisioni erano, anch’esse, accompagnate da un ordine di lasciare il territorio ma, di per sé, quest’ultimo non autorizzava l’arresto dei ricorrenti. Tale arresto è stato dunque ordinato per la prima volta con una decisione in data 29 settembre 1999, su una base legale diversa dalla loro domanda di asilo, ma sufficiente comunque per determinare l’esecuzione delle misure contestate. In queste condizioni, e alla luce delle numerosissime persone della stessa origine che hanno conosciuto la stessa sorte dei ricorrenti, la Corte ritiene che l’iter seguito non sia di natura tale da escludere qualsiasi dubbio sul carattere collettivo dell’espulsione contestata.
Tali dubbi sono rafforzati da un insieme di circostanze quali il fatto che precedentemente all’operazione controversa le istituzioni politiche responsabili avevano annunciato delle operazioni di questo tipo e dato istruzioni all’amministrazione competente ai fini della loro realizzazione (…); che tutti gli interessati sono stati convocati simultaneamente al commissariato; che gli ordini di lasciare il territorio e di arresto che sono stati loro consegnati presentavano un contenuto identico; che era difficile per gli interessati contrattare un avvocato; che, infine, la procedura di asilo non si era ancora conclusa.
In sintesi, in nessuno stadio del periodo che va dalla convocazione degli interessati al commissariato fino alla loro espulsione, la procedura seguita offriva garanzie sufficienti che attestassero che la situazione individuale di ciascuna delle persone interessate era stata presa in considerazione in modo reale e differenziato.»
184. Nella loro giurisprudenza, gli organi della Convenzione hanno peraltro precisato che il fatto che vari stranieri siano oggetto di decisioni simili non permette, di per sé, di concludere per l’esistenza di una espulsione collettiva quando ciascun interessato ha potuto esporre individualmente dinanzi alle autorità competenti gli argomenti che si opponevano alla sua espulsione (K.G. c. Repubblica Federale di Germania, decisione sopra citata; Andric, decisione sopra citata; Sultani, sopra citata, § 81). Infine, la Corte ha stabilito che non vi è violazione dell’articolo 4 del Protocollo n. 4 se l’assenza di una decisione individuale di allontanamento è causata dal comportamento colpevole delle persone interessate (Berisha e Haljiti, decisione già citata, e Dritsas, decisione già citata).
185. Nella fattispecie, la Corte non può che constatare che il trasferimento dei ricorrenti verso la Libia è stato eseguito in assenza di qualsiasi forma di esame della situazione individuale di ciascun ricorrente. È indubbio che i ricorrenti non sono stati oggetto di alcuna procedura di identificazione da parte delle autorità italiane, che si sono limitate a far salire tutti i migranti intercettati sulle navi militari e a sbarcarli sulle coste libiche. Inoltre, la Corte osserva che il personale a bordo delle navi militari non aveva la formazione necessaria per condurre colloqui individuali e non era assistito da interpreti e consulenti giuridici.
Questo basta alla Corte per escludere l’esistenza di garanzie sufficienti che attestino che la situazione individuale di ciascuna delle persone interessate è stata presa in considerazione in maniera reale e differenziata.
186. Alla luce di quanto precede, la Corte conclude che l’allontanamento dei ricorrenti ha avuto un carattere collettivo contrario all’articolo 4 del Protocollo n. 4. Pertanto, vi è stata violazione di tale disposizione.
VI.SULLA DEDOTTA VIOLAZIONE DELL’ARTICOLO 13 COMBINATO CON GLI ARTICOLI 3 DELLA CONVENZIONE E 4 DEL PROTOCOLLO N° 4
187. I ricorrenti lamentano di non aver beneficiato nel diritto italiano di un ricorso effettivo per formulare le loro doglianze in base agli articoli 3 della Convenzione e 4 del Protocollo n° 4. Invocano l’articolo 13 della Convenzione, così formulato:
«Ogni persona i cui diritti e le cui libertà riconosciuti nella presente Convenzione siano stati violati, ha diritto a un ricorso effettivo davanti a un’istanza nazionale, anche quando la violazione sia stata commessa da persone che agiscono nell’esercizio delle loro funzioni ufficiali.»
1. Tesi delle parti
a) I ricorrenti
188. I ricorrenti affermano che le intercettazioni di persone in alto mare condotte dall’Italia non sono previste dalla legge e sono sottratte ad ogni controllo di legalità da parte di un’autorità nazionale. Per questa ragione sarebbero stati privati di qualsiasi possibilità di presentare un ricorso contro il loro respingimento in Libia e di dedurre la violazione degli articoli 3 della Convenzione e 4 del Protocollo no 4.
189. Gli interessati sostengono che le autorità italiane non hanno rispettato nessuna delle esigenze di effettività dei ricorsi previsti dalla giurisprudenza della Corte, non avrebbero neanche identificato i migranti intercettati e avrebbero ignorato le loro richieste di protezione. Peraltro, pur supponendo che i migranti abbiano avuto la possibilità di rivolgersi ai militari per richiedere asilo, non avrebbero potuto beneficiare delle garanzie procedurali previste dalla legge italiana, quali l’accesso ad un giudice, per la semplice ragione che si trovavano a bordo di navi.
190. I ricorrenti ritengono che l’esercizio della sovranità territoriale in materia di politica dell’immigrazione non deve in alcun caso comportare il mancato rispetto degli obblighi che la Convenzione impone agli Stati, fra i quali figura quello di garantire ad ogni persona sottoposta alla loro giurisdizione il diritto ad un ricorso effettivo innanzi ad una istanza nazionale.
b) Il Governo
191. Il Governo dichiara che le circostanze del caso di specie, dal momento che si sono svolte a bordo di navi, non permettevano di garantire ai ricorrenti il diritto d’accesso ad una istanza nazionale.
192. Nel corso dell’udienza innanzi alla Grande Camera, il Governo ha sostenuto che i ricorrenti si sarebbero dovuti rivolgere ai giudici nazionali per ottenere il riconoscimento e, eventualmente, la correzione delle lamentate violazioni della Convenzione. Secondo il Governo il sistema giudiziario nazionale avrebbe permesso di constatare l’eventuale responsabilità dei militari che hanno soccorso i ricorrenti, sia rispetto al diritto nazionale che al diritto internazionale.
Il Governo conferma che i ricorrenti ai quali l’HCR ha riconosciuto lo status di rifugiati hanno la possibilità di entrare in qualsiasi momento in territorio italiano e di esercitare i loro diritti convenzionali, ivi compreso quello di adire le autorità giudiziarie.
c) I terzi intervenienti
193. L’HCR afferma che il principio di non respingimento implica per gli Stati alcuni obblighi procedurali. Peraltro, il diritto di accesso ad una procedura di asilo effettiva e rapida da parte di una autorità competente sarebbe ancor più cruciale in quanto si tratta di flussi migratori “misti”, nell’ambito dei quali i potenziali richiedenti asilo devono essere individuati e distinti dagli altri migranti.
194. Le Centre de conseil sur les droits de l’individu en Europe (Centre AIRE), Amnesty International e la Federazione internazionale dei diritti umani ritengono che gli individui respinti dopo una intercettazione in alto mare non abbiano accesso ad alcun ricorso nello Stato contraente responsabile dell’operazione, e ancor meno ad una via di ricorso che possa soddisfare le esigenze dell’articolo 13. Gli interessati non disporrebbero di alcuna adeguata possibilità né dei sostegni necessari, in particolare dell’assistenza di un interprete, che permetterebbero loro di esporre le ragioni che militano contro il respingimento, senza parlare di un esame il cui rigore soddisfi le esigenze della Convenzione. Le parti intervenienti ritengono che, quando le Parti contraenti alla Convenzione sono coinvolte in intercettazioni in mare e si concludono con un respingimento, spetti a loro assicurarsi che ciascuna persona interessata disponga di una effettiva possibilità per contestare il suo rinvio alla luce dei diritti garantiti dalla Convenzione e per ottenere un esame della sua richiesta prima che venga eseguito il respingimento.
Le parti intervenienti ritengono che la mancanza di un ricorso che permetta di identificare i ricorrenti e valutare individualmente le loro richieste di protezione e i loro bisogni costituisca una grave omissione, come pure la mancanza di qualsiasi controllo successivo per accertarsi della sorte delle persone rinviate.
195. La Columbia Law School Human Rights Clinic sostiene che il diritto internazionale dei diritti dell’uomo e dei rifugiati esige innanzitutto che lo Stato informi i migranti del loro diritto alla protezione. Il dovere d’informazione sarebbe indispensabile per rendere effettivo l’obbligo dello Stato di identificare le persone che, fra gli individui intercettati, hanno bisogno di una protezione internazionale. Questo dovere sarebbe particolarmente importante in caso di intercettazione in mare in quanto le persone interessate raramente conoscerebbero il diritto nazionale e non avrebbero accesso ad un interprete o a un legale. In seguito, ogni persona dovrebbe essere ascoltata dalle autorità nazionali e ottenere una decisione individuale relativamente alla sua richiesta.
2. Valutazione della Corte
a) Sulla ricevibilità
196. La Corte ricorda di aver unito all’esame sul merito dei motivi di ricorso basati sull’articolo 13 l’eccezione di mancato esaurimento delle vie di ricorso interne sollevata dal Governo durante l’udienza innanzi alla Grande Camera (paragrafo 62 supra). Peraltro, la Corte ritiene che questa parte di ricorso ponga complesse questioni di fatto e di diritto che possono essere definite solo dopo un esame sul merito; ne consegue che essa non è manifestamente infondata ai sensi dell’articolo 35 § 3 a) della Convenzione. Non essendo stato rilevato nessun altro motivo di irricevibilità, deve essere dichiarata ricevibile.
b) Sul merito
i. I principi generali
197. L’articolo 13 della Convenzione garantisce l’esistenza in diritto interno di un ricorso che permetta di far valere i diritti e le libertà della Convenzione così come da essa sanciti. La disposizione ha dunque come conseguenza quella di esigere un ricorso interno che permetta di esaminare il contenuto di un “motivo difendibile” basato sulla Convenzione e di offrire la correzione adeguata. La portata dell’obbligo che l’articolo 13 impone agli Stati contraenti varia in funzione della natura della doglianza del ricorrente. Tuttavia, il ricorso richiesto dall’articolo 13 deve essere “effettivo” sia in pratica che in diritto. La “effettività” di un “ricorso” ai sensi dell’articolo 13 non dipende dalla certezza di un esito favorevole per il ricorrente. Allo stesso modo, la “istanza” di cui parla questa disposizione non ha bisogno di essere una istituzione giudiziaria, ma allora i suoi poteri e le garanzie che essa presenta vanno tenute in conto per valutare l’effettività del ricorso esercitato innanzi ad essa. Inoltre, la totalità dei ricorsi offerti dal diritto interno può soddisfare le esigenze dell’articolo 13, anche se nessuno di essi vi risponda interamente da solo (vedere, fra molte altre, Kudła c. Polonia [GC], no 30210/96, § 157, CEDU 2000-XI).
198. Risulta dalla giurisprudenza che il motivo di ricorso di una persona secondo il quale il suo rinvio verso uno Stato terzo la esporrebbe a trattamenti proibiti dall’articolo 3 della Convenzione “deve imperativamente essere oggetto di un controllo attento da parte di una istanza nazionale” (Chamaïev e altri c. Georgia e Russia, no 36378/02, § 448, CEDU 2005 III ; vedere anche Jabari, prima citata, § 39). Questo principio ha indotto la Corte a ritenere che la nozione di “ricorso effettivo” ai sensi dell’articolo 13 combinato con l’articolo 3 richiede, da una parte, “un esame indipendente e rigoroso” di tutti i motivi sollevati da una persona che si trova in tale situazione, ai termini del quale “esistono seri motivi di temere che sussista un rischio reale di trattamenti contrari all’articolo 3” e, dall’altra, “la possibilità di soprassedere all’esecuzione della misura controversa” (sentenze prima citate, rispettivamente § 460 et § 50).
199. Inoltre, nella sentenza Čonka (prima citata, §§ 79 e seguenti) la Corte ha precisato, sul terreno dell’articolo 13 combinato con l’articolo 4 del Protocollo no 4, che un ricorso non risponde alle esigenze del primo se non ha effetto sospensivo. In particolare ha sottolineato (§ 79) :
« La Corte ritiene che l’effettività dei ricorsi richiesti dall’articolo 13 presupponga che questi possano impedire l’esecuzione delle misure contrarie alla Convenzione e le cui conseguenze siano potenzialmente irreversibili (…). Di conseguenza, l’articolo 13 si oppone al fatto che tali misure siano eseguite anche prima che le autorità nazionali abbiano terminato l’esame della loro compatibilità con la Convenzione. Tuttavia, gli Stati contraenti godono di un certo margine di valutazione sulle modalità con cui conformarsi agli obblighi loro imposti dall’articolo 13 (…). »
200. Tenuto conto dell’importanza dell’articolo 3 della Convenzione e della irreversibilità del danno che può essere causato nel caso si realizzi il rischio di tortura o di maltrattamenti, la Corte ha ritenuto che il criterio dell’effetto sospensivo debba essere applicato anche nel caso in cui uno Stato parte decidesse di rinviare uno straniero verso uno Stato in cui vi sono seri motivi di temere che corra un rischio di tale natura (Gebremedhin [Gaberamadhien] c. Francia, no 25389/05, § 66, CEDU 2007-II ; M.S.S., prima citata, § 293).
ii. Applicazione nel caso di specie
201. La Corte ha appena concluso che il rinvio dei ricorrenti verso la Libia costituiva una violazione degli articoli 3 della Convenzione e 4 del Protocollo no 4. I motivi di ricorso sollevati dai ricorrenti su questi punti sono pertanto “difendibili” ai fini dell’articolo 13.
202. La Corte ha constatato che i ricorrenti non hanno avuto accesso ad alcuna procedura volta alla loro identificazione e alla verifica delle loro situazioni personali prima dell’esecuzione del loro allontanamento verso la Libia (paragrafo 185 supra). Il Governo ammette che tali procedure non erano previste a bordo delle navi militari sulle quali sono stati fatti imbarcare i ricorrenti. Fra il personale di bordo non vi erano né interpreti né legali.
203. La Corte osserva che i ricorrenti lamentano di non aver ricevuto alcuna informazione da parte dei militari italiani, i quali avrebbero fatto credere loro che erano diretti verso l’Italia e non li avrebbero informati sulla procedura da seguire per impedire il loro rinvio di Libia.
Dal momento che questa circostanza è contestata dal Governo, la Corte attribuisce un peso particolare alla versione dei ricorrenti, perché è corroborata dalle numerose testimonianze raccolte dall’HCR, dal CPT e da Human Rights Watch.
204. Ora, la Corte ha già affermato che la mancanza di informazioni costituisce un ostacolo maggiore all’accesso alle procedure d’asilo (M.S.S., prima citata, § 304). Ribadisce quindi importanza di garantire alle persone interessate da una misura di allontanamento, misura le cui conseguenze sono potenzialmente irreversibili, il diritto di ottenere informazioni sufficienti per permettere loro di avere un accesso effettivo alle procedure e di sostenere i loro ricorsi.
205. Tenuto conto delle circostanze del presente caso di specie, la Corte ritiene che i ricorrenti siano stati privati di ogni via di ricorso che avrebbe consentito loro di sottoporre ad una autorità competente le doglianze basate sugli articoli 3 della Convenzione e 4 del Protocollo no 4 e di ottenere un controllo attento e rigoroso delle loro richieste prima di dare esecuzione alla misura di allontanamento
206. Quanto all’argomento del Governo secondo il quale i ricorrenti avrebbero dovuto avvalersi della possibilità di adire il giudice penale italiano una volta arrivati in Libia, la Corte non può che constatare che, anche se tale via di ricorso è accessibile in pratica, un ricorso penale a carico dei militari che si trovavano a bordo delle navi dell’esercito manifestamente non soddisfa le esigenze dell’articolo 13 della Convenzione, dal momento che non soddisfa il criterio dell’effetto sospensivo sancito dalla sentenza Čonka, prima citata. La Corte ricorda che l’esigenza derivante dall’articolo 13 di soprassedere all’esecuzione della misura controversa non può essere prevista incidentalmente (M.S.S., prima citata, § 388).
207. La Corte conclude che vi è stata violazione dell’articolo 13 combinato con gli articoli 3 della Convenzione e 4 del Protocollo n° 4. Ne consegue che non si può rimproverare ai ricorrenti di non aver correttamente esaurito le vie di ricorso interne e che l’eccezione preliminare del Governo (paragrafo 62 supra) è respinta.
VII. SUGLI ARTICOLI 46 E 41 DELLA CONVENZIONE
A. Sull’articolo 46 della Convenzione
208. Secondo questa disposizione:
«1. Le Alte Parti contraenti si impegnano a conformarsi alle sentenze definitive della Corte sulle controversie nelle quali sono parti.
2. La sentenza definitiva della Corte è trasmessa al Comitato dei Ministri che ne sorveglia l’esecuzione. »
209. In virtù dell’articolo 46 della Convenzione, le Alte Parti contraenti s’impegnano a conformarsi alle sentenze definitive emesse dalla Corte nelle controversie in cui sono parti, il Comitato dei Ministri è incaricato di sorvegliare l’esecuzione di queste sentenze. In particolare ne deriva che, quando la Corte constata una violazione, lo Stato convenuto ha l’obbligo giuridico non soltanto di versare agli interessati le somme assegnate a titolo di equa soddisfazione previste dall’articolo 41, ma anche quello di adottare le misure generali e/o, all’occorrenza, individuali necessarie. Avendo le sentenze della Corte natura essenzialmente declaratoria, lo Stato convenuto rimanere libero, sotto il controllo del Comitato dei Ministri, di scegliere i mezzi per adempiere al suo obbligo giuridico rispetto all’articolo 46 della Convenzione, per quanto questi mezzi siano compatibili con le conclusioni contenute nella sentenza della Corte. Tuttavia, in alcune particolari situazioni, è accaduto che la Corte abbia ritenuto utile indicare ad uno Stato convenuto il tipo di misure da adottare per porre termine alla situazione – spesso strutturale – che aveva dato luogo ad una constatazione di violazione (vedere, per esempio, Öcalan c. Turchia [GC], no 46221/99, § 210, CEDU 2005-IV; e Popov c. Russia, no 26853/04, § 263, 13 luglio 2006). Talvolta la natura stessa della violazione constatata non lascia scelta sulle misure da prendere (Assanidzé, prima citata, § 198; Alexanian c. Russia, no 46468/06, § 239, 22 dicembre 2008; e Verein gegen Tierfabriken Schweiz (VgT) c. Svizzera (no 2) [GC], no 32772/02, §§ 85 e 88, 30 giugno 2009).
210. Nel caso di specie, la Corte ritiene necessario indicare le misure individuali che si impongono nell’ambito dell’esecuzione della presente sentenza, senza pregiudicare le misure generali richieste per prevenire altre violazioni simili in futuro (M.S.S., prima citata, § 400).
211. La Corte ha constatato, tra l’altro, che il trasferimento dei ricorrenti li ha esposti al rischio di subire maltrattamenti in Libia e di essere arbitrariamente rimpatriati verso la Somalia e l’Eritrea. Rispetto alle circostanze della causa, la Corte ritiene che spetti al governo italiano intraprendere tutte le attività possibili per ottenere dalle autorità libiche l’assicurazione che i ricorrenti non saranno né sottoposti a trattamenti contrari all’articolo 3 della Convenzione né rimpatriati arbitrariamente.
B. Sull’articolo 41 della Convenzione
212. Ai sensi dell’articolo 41 della Convenzione,
«Se la Corte dichiara che vi è stata violazione della Convenzione o dei suoi Protocolli e se il diritto interno dell’Alta Parte contraente non permette se non in modo imperfetto di rimuovere le conseguenze di tale violazione, la Corte accorda, se del caso, un’equa soddisfazione alla parte lesa.»
213. I ricorrenti reclamano 15.000 euro ciascuno per il danno morale che avrebbero subito.
214. Il Governo si oppone a questa richiesta, sottolineando che la vita dei ricorrenti è stata salvata grazie all’intervento delle autorità italiane.
215. La Corte ritiene che i ricorrenti hanno dovuto provare un tale stato di disperazione che certo non può essere riparato soltanto dalla constatazione di violazione. Avuto riguardo della natura delle violazioni constatate nel caso di specie, ritiene equo accogliere la richiesta dei ricorrenti e concedere a ciascuno di loro 15.000 euro a titolo di riparazione del danno morale. I rappresentanti dei ricorrenti deterranno come fiduciari le somme così concesse agli interessati.
C. Spese
216. I ricorrenti reclamano anche 1.575,74 euro per le spese affrontate innanzi alla Corte.
217. Il Governo si oppone a questa richiesta.
218. Secondo la giurisprudenza della Corte, un ricorrente può ottenere il rimborso delle spese sostenute solo nella misura in cui ne siano accertate la realtà e la necessità, e il loro importo sia ragionevole. Nel caso di specie, tenuto conto dei documenti in suo possesso e della sua giurisprudenza, la Corte ritiene ragionevole la somma richiesta per la procedura innanzi alla Corte e la accorda ai ricorrenti.
D. Interessi moratori
219. La Corte giudica appropriato basare il tasso degli interessi moratori sul tasso di interesse delle operazioni di rifinanziamento marginale della Banca centrale europea maggiorato di tre punti percentuali.

PER QUESTI MOTIVI, LA CORTE,
1. Decide, con tredici voti contro quattro, di cancellare dal ruolo il ricorso che riguarda i signori Mohamed Abukar Mohamed e Hasan Shariff Abbirahman;

2. Decide, all’unanimità, di non cancellare dal ruolo il ricorso che riguarda gli altri ricorrenti;

3. Dichiara, all’unanimità, che i ricorrenti erano sottoposti alla giurisdizione dell’Italia ai sensi dell’articolo uno della Convenzione;

4. Unisce all’esame sul merito, all’unanimità, le eccezioni del Governo basate sul mancato esaurimento delle vie di ricorso interne e della mancata qualità di vittima dei ricorrenti;

5. Dichiara, all’unanimità, ricevibili i motivi basati sull’articolo 3 della Convenzione;

6. Dichiara, all’unanimità, che vi è stata violazione dell’articolo 3 della Convenzione in quanto i ricorrenti sono stati esposti al rischio di subire maltrattamenti in Libia e respinge l’eccezione del Governo basata sulla mancata qualità di vittima dei ricorrenti;

7. Dichiara, all’unanimità, che vi è stata violazione dell’articolo 3 della Convenzione in quanto i ricorrenti sono stati esposti al rischio di essere rimpatriati in Somalia e in Eritrea;

8. Dichiara, all’unanimità, ricevibile il motivo di ricorso basato sull’articolo 4 del Protocollo no 4;

9. Dichiara, all’unanimità, che vi è stata violazione dell’articolo 4 del Protocollo no 4;

10. Dichiara, all’unanimità, ricevibile il motivo di ricorso basato sull’articolo 13 combinato con gli articoli 3 della Convenzione e 4 del Protocollo no 4;

11. Dichiara, all’unanimità, che vi è stata violazione dell’articolo 13 combinato con l’articolo 3 della Convenzione e dell’articolo 13 combinato con l’articolo 4 del Protocollo no 4 e respinge l’eccezione del Governo basata sul mancato esaurimento delle vie di ricorso interne;

12. Dichiara, all’unanimità,
a) che lo Stato convenuto deve versare ai ricorrenti, entro 3 mesi, le seguenti somme:
i. 15.000 EURO (quindicimila euro) ciascuno, più l’importo eventualmente dovuto a titolo di imposta, per danno morale, le cui somme saranno fiduciariamente detenute per i ricorrenti dai loro rappresentanti;
ii. la somma complessiva di 1.575,74 EURO (millecinquecentosettantacinque euro e settantaquattro centesimi), più l’importo eventualmente dovuto titolo d’imposta dai ricorrenti, per le spese legali
b) ) che, a decorrere dalla scadenza di detto termine e fino al versamento, tali importi dovranno essere maggiorati di un interesse semplice ad un tasso pari a quello delle operazioni di rifinanziamento marginale della Banca centrale europea applicabile durante questo periodo, aumentato di tre punti percentuali;
Fatta in francese e in inglese, poi pronunciata in pubblica udienza, al Palazzo dei Diritti dell’Uomo a Strasburgo, il 23 febbraio 2012, in applicazione dell’articolo 77 §§ 2 e 3 del regolamento.
Michael O’BoyleNicolas BratzaCancellierePresidente
Alla presente sentenza si trova allegata, conformemente agli articoli 45 § 2 della Convenzione e 74 § 2 del regolamento, l’esposizione dell’opinione separata del giudice Pinto de Albuquerque.
N.B.
M.O.B.

ELENCO DEI RICORRENTI

NomeLuogo e data di nascitaSituazione attuale dei ricorrenti
1.JAMAA Hirsi SadikSomalia,
30 maggio 1984 Status di rifugiato concesso il 25 giugno 2009 (N. 507-09C00279)
2.SHEIKH ALI MohamedSomalia,
22 gennaio 1979Status di rifugiato concesso il 13 agosto 2009 (N. 229-09C0002)
3.HASSAN Moh’b AliSomalia,
10 settembre 1982Status di rifugiato concesso il 25 giugno 2009 (N. 229-09C00008)
4.SHEIKH Omar AhmedSomalia,
1°gennaio 1993Status di rifugiato concesso il 13 agosto 2009 (N. 229-09C00010)
5.ALI Elyas AwesSomalia,
6 giugno 1983Status di rifugiato concesso il 13 agosto 2009 (N. 229-09C00001)
6.KADIYE Mohammed AbdiSomalia,
28 marzo 1988Status di rifugiato concesso il 25 giugno 2009 (N. 229-09C00011)
7.HASAN Qadar AbfillzhiSomalia,
8 luglio 1978Status di rifugiato concesso il 26 luglio 2009 (N. 229-09C00003)
8.SIYAD Abduqadir IsmailSomalia,
20 luglio 1976Status di rifugiato concesso il 13 agosto 2009 (N. 229-09C00006)
9.ALI Abdigani AbdillahiSomalia,
1° gennaio 1986Status di rifugiato concesso il 25 giugno 2009 (N. 229-09C00007)
10.MOHAMED Mohamed AbukarSomalia,
27 febbraio 1984Deceduto in data sconosciuta
11.ABBIRAHMAN Hasan ShariffSomalia
Data sconosciutaDeceduto nel novembre 2009
12.TESRAY Samsom MlashEritrea,
Data sconosciutaDomicilio sconosciuto
13.HABTEMCHAEL WalduEritrea,
1° gennaio 1971Status di rifugiato concesso il 25 giugno 2009 (N. 229-08C00311); risiede in Svizzera
14.ZEWEIDI BiniamEritrea,
24 aprile 1973Risiede in Libia
15.GEBRAY Aman TsyehansiEritrea,
25 giugno 1978Risiede in Libia
16.NASRB MiftaEritrea,
3 luglio 1989Risiede in Libia
17.SALIH SaidEritrea,
1° gennaio 1977Risiede in Libia
18.ADMASU EstifanosEritrea,
Data sconosciutaDomicilio sconosciuto
19.TSEGAY HabtomEritrea,
Data sconosciutaDetenuto nel centro di permanenza di
Choucha, in Tunisia
20.BERHANE ErmiasEritrea,
1° agosto 1984Status di rifugiato concesso in Italia il 25 maggio 2011 ; risiede in Italia
21.YOHANNES Roberl AbzighiEritrea,
24 febbraio 1985Status di rifugiato concesso l’8 ottobre 2009
(N. 507-09C001346); risiede nel Benin
22.KERI Telahun MeherteEritrea,
Data sconosciutaDomicilio sconosciuto
23.KIDANE Hayelom MogosEritrea,
24 febbraio 1974Status di rifugiato concesso il 25 giugno 2009 (N. 229-09C00015); risiede in Svizzera
24.KIDAN Kiflom TesfazionEritrea,
29 giugno 1978Status di rifugiato concesso il 25 giugno 2009 (N. 229-09C00012); risiede a Malta

OPINIONE CONCORDANTE DEL GIUDICE
PINTO DE ALBUQUERQUE
(Traduzione)

La causa Hirsi verte da una parte sulla protezione internazionale dei rifugiati e, per altra parte, sulla compatibilità delle politiche in materia di immigrazione e di controllo delle frontiere con il diritto internazionale. La questione fondamentale che si pone nel caso di specie è sapere come l’Europa debba riconoscere ai rifugiati “il diritto di avere diritti” per riprendere le parole di Hannah Arendt . La risposta a questi problemi politici estremamente sensibili si trova nel punto di intersezione tra il diritto internazionale dei diritti umani e il diritto internazionale dei rifugiati. Benché io sottoscriva la sentenza della Grande Camera, desidero analizzare la causa nel contesto di un approccio di principio completo che tenga conto del nesso intrinseco esistente tra queste due branche del diritto internazionale.
Il divieto di respingere i rifugiati
Il divieto di respingere i rifugiati è previsto nel diritto internazionale dei rifugiati (articolo 33 della Convenzione delle Nazioni Unite relativa allo status dei rifugiati (1951) e articolo 2 § 3 della Convenzione della Organizzazione dell’unità africana che disciplina determinati aspetti del problema dei rifugiati in Africa (1969) ), nonché nel diritto universale dei diritti dell’uomo (articolo 3 della Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura (1984) e articolo 16 § 1 della Convenzione internazionale delle Nazioni unite per la protezione di tutte le persone contro le sparizioni forzate (2006)) e nel diritto regionale dei diritti dell’uomo (articolo 22 § 8 della Convenzione americana sui diritti dell’uomo (1969), articolo 12 § 3 della Carta africana dei diritti dell’uomo e dei popoli (1981), articolo 13 § 4 della Convenzione interamericana sulla prevenzione e repressione della tortura (1985) e articolo 19 § 2 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (2000)). Se la Convenzione europea dei diritti dell’uomo non contiene un esplicito divieto di respingimento, questo principio tuttavia è stato riconosciuto dalla Corte come un andare al di là della garanzia analoga prevista dal diritto internazionale dei rifugiati.

In virtù della Convenzione europea, un rifugiato non può essere respinto né verso il suo paese di origine né verso qualsiasi altro paese dove rischi di subire un danno grave provocato da una persona o da una entità, pubblica o privata, identificata o meno. L’atto di respingere può consistere in una espulsione, una estradizione, una deportazione, un allontanamento, un trasferimento ufficioso, una “restituzione”, un rigetto, un rifiuto di ammissione o in qualsiasi altra misura il cui risultato sia quello di obbligare la persona interessata a restare nel suo paese di origine. Il rischio di danno grave può derivare da una aggressione estera, da un conflitto armato interno, da una esecuzione extragiudiziaria, da una sparizione forzata, dalla pena capitale, dalla tortura, da un trattamento inumano o degradante, dal lavoro forzato, dalla tratta degli esseri umani, dalla persecuzione, da un processo basato su una legge penale retroattiva o su prove ottenute tramite tortura o trattamenti inumani e degradanti, o da una “flagrante violazione” della essenza di qualsiasi diritto garantito dalla Convenzione nello Stato di accoglienza (respingimento diretto) o dalla ulteriore consegna dell’interessato da parte dello Stato di accoglienza a uno Stato terzo all’interno del quale esiste tale rischio (respingimento indiretto) .

Di fatto, l’obbligo di non respingimento può essere innescato da una violazione o da un rischio di violazione dell’essenza di qualsiasi diritto garantito dalla Convenzione europea, come il diritto alla vita, il diritto all’integrità fisica o al suo corollario, il divieto della tortura e dei maltrattamenti , o dalla “flagrante violazione” del diritto ad un processo equo , del diritto alla libertà , del diritto alla vita privata o di qualsiasi altro diritto garantito dalla Convenzione .

Questo principio si applica anche al diritto universale dei diritti dell’uomo, alla luce della Convenzione contro la tortura , della Convenzione sui diritti dell’infanzia e del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici . Nello stesso spirito, l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha dichiarato che “nessuna persona sarà inviata o estradata di forza verso un paese quando vi siano ragioni valide per temere che in questo paese rimarrà vittima di un’esecuzione extragiudiziaria, arbitraria o sommaria” e che “nessuno Stato espelle, respinge, o estrada una persona verso un altro Stato se vi sono fondati motivi per credere che in questo altro Stato rischierà di rimanere vittima di una sparizione forzata” .

Benché la nozione di rifugiato contenuta nell’articolo 33 della Convenzione delle Nazioni Unite relativa allo status di rifugiati sia meno ampia di quella ricavata dal diritto internazionale dei diritti umani, il diritto internazionale dei rifugiati si è evoluto assimilando la norma di tutela più ampia dei diritti umani, estendendo così la nozione di rifugiati che deriva dalla Convenzione (impropriamente chiamati rifugiati de jure) ad altri individui che hanno bisogno di una protezione internazionale complementare (impropriamente chiamati i rifugiati de facto). I migliori esempi di questa evoluzione sono forniti dall’articolo I § 2 della Convenzione della Organizzazione dell’unità africana, dall’articolo III § 3 della Dichiarazione di Cartagena del 1984, dall’articolo 15 della Direttiva 2004/83/EC del Consiglio dell’Unione europea del 29 aprile 2004 recante norme minime sull’attribuzione, a cittadini di paesi terzi o apolidi, della qualifica di rifugiato o di persona altrimenti bisognosa di protezione internazionale, nonché norme minime sul contenuto della protezione riconosciuta, e dalla Raccomandazione (2001) 18 del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa sulla protezione sussidiaria.

Comunque sia, né il diritto internazionale dei rifugiati né il diritto internazionale dei diritti umani fanno distinzione tra il regime applicabile ai rifugiati e il regime applicabile alle persone che beneficiano di una protezione complementare. Il tenore della protezione internazionale, soprattutto la garanzia del non respingimento, è rigorosamente la stessa per le due categorie di individui. . Non vi è alcuna ragione legittima per offrire ai “rifugiati de jure” una migliore protezione di quella offerta ai “rifugiati de facto”, perché tutti hanno in comune uno stesso bisogno di protezione internazionale. Qualsiasi differenza di trattamento comporterebbe la creazione di una seconda classe di rifugiati, sottoposta a un regime discriminatorio. La stessa conclusione vale per le situazioni di afflusso massiccio di rifugiati. I gruppi di rifugiati non possono vedersi applicare uno status ridotto a causa di una eccezione al “vero” status di rifugiato che sarebbe “inerente” a una situazione di afflusso massiccio. Offrire una protezione sussidiaria minore (che implica ad esempio dei diritti meno ampi in materia di accesso al permesso di soggiorno, all’impiego, alla tutela sociale e alle cure sanitarie) alle persone che arrivano nell’ambito di un afflusso massiccio costituirebbe una discriminazione ingiustificata.

Un individuo non diventa un rifugiato perché riconosciuto tale, ma è riconosciuto tale perché è un rifugiato . La concessione dello status di rifugiato è puramente declaratoria, il principio di non respingimento si applica a coloro che non hanno ancora visto dichiarare il loro status (i richiedenti asilo), ed anche a coloro che non hanno espresso il desiderio di essere protetti. Di conseguenza, la mancanza di una esplicita richiesta di asilo o il fatto che una richiesta di asilo non sia sostenuta da sufficienti elementi non possono esonerare lo Stato interessato dall’obbligo di non respingimento di fronte ad ogni straniero che ha bisogno di una protezione internazionale . La mancanza di una richiesta di asilo o di elementi sufficienti a sostenere tale domanda non consente di trarre automaticamente una conclusione negativa dal momento che lo Stato ha l’obbligo di indagare d’ufficio su qualsiasi situazione che richieda una protezione internazionale, in particolare quando, come ha sottolineato la Corte, i fatti che costituiscono il rischio per il ricorrente “erano noti [prima del trasferimento di quest’ultimo] e facilmente verificabili da un gran numero di fonti”.

Benché l’obbligo garantito dalla Convenzione delle Nazioni Unite relativa allo status di rifugiati comporti eccezioni che vanno ad incidere sulla sicurezza del paese e sulla sicurezza pubblica, non esiste alcuna eccezione di questo tipo nel diritto europeo dei diritti dell’uomo né nel diritto universale dei diritti dell’uomo : Non vi sono limiti personali, temporali o spaziali alla sua applicazione. Così quest’obbligo si applica anche nelle circostanze eccezionali comprese quelle in cui è stato dichiarato lo stato di emergenza.

Poiché la determinazione dello status di rifugiato costituisce uno strumento essenziale per la protezione dei diritti dell’uomo, la natura del divieto di respingimento dipende dalla natura del diritto fondamentale così protetto. Quando esiste un rischio di danno grave che derivi da una aggressione estera, da un conflitto armato interno, da una esecuzione extragiudiziaria, da una sparizione forzata, dalla pena capitale, dalla tortura, da un trattamento inumano o degradante, dal lavoro forzato, dalla tratta degli esseri umani, dalla persecuzione, da un processo basato su una legge penale retroattiva o su prove ottenute tramite tortura o trattamenti inumani e degradanti nello Stato di accoglienza, l’obbligo di non respingimento costituisce un obbligo assoluto per tutti gli Stati. Di fronte al rischio di violazione di un qualsiasi diritto garantito dalla Convenzione europea (diverso dal diritto alla vita e all’integrità fisica e dal principio di legalità nel diritto penale) nel paese di accoglienza, lo Stato ha la possibilità di derogare al suo dovere di offrire una protezione internazionale, in funzione della valutazione della proporzionalità dei valori concorrenti in gioco. Esiste tuttavia un’eccezione a questo test di proporzionalità: quando il rischio di violazione di un qualsiasi diritto garantito dalla Convenzione europea (diverso dal diritto alla vita e all’integrità fisica e dal principio di legalità nel diritto penale) nel paese di accoglienza è “flagrante” e l’essenza stessa di questo diritto è messa in gioco, mentre lo Stato è inevitabilmente vincolato dall’obbligo di non respingimento

Dotato di questo contenuto e di questa estensione, il divieto di respingimento costituisce un principio di diritto internazionale consuetudinario che vincola tutti gli Stati, compresi quelli che non sono parti alla Convenzione delle Nazioni Unite relativa allo status dei rifugiati o a qualsiasi altro trattato di protezione dei rifugiati. E’ inoltre una norma di jus cogens: non subisce alcuna deroga ed è imperativa, in quanto non può essere oggetto di alcuna riserva (articolo 53 della Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati, articolo 42 § 1 della Convenzione sullo status dei rifugiati e articolo VII § 1 del Protocollo del 1967).

Tale è oggi la posizione prevalente anche nel diritto internazionale dei rifugiati .
Così, le eccezioni previste dall’articolo 33 § 2 della Convenzione delle Nazioni Unite relativa allo status dei rifugiati non possono essere invocate nei confronti dei diritti dell’uomo essenziali non soggetti ad alcuna deroga (il diritto alla vita e all’integrità fisica e il principio di legalità in diritto penale). Inoltre, un individuo che rientri nella competenza dell’articolo 33 § 2 della Convenzione sui rifugiati beneficerà comunque della protezione offerta dalle disposizioni di diritto internazionale dei diritti umani più generose, come la Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Le eccezioni in questione possono essere applicate unicamente ai diritti dell’uomo essenziali ai quali si può derogare dagli Stati parti alla Convenzione sullo status di rifugiati che non hanno ratificato trattati più generosi. Occorre ancora, in questo caso, che le eccezioni siano interpretate restrittivamente e siano applicate soltanto se le particolari circostanze della causa e le caratteristiche proprie dell’interessato mostrano che costui rappresenta un pericolo per la comunità o la sicurezza del paese .
Il divieto di respingimento non si limita al territorio di uno Stato, ma si estende alle azioni extraterritoriali di quest’ultimo, soprattutto alle operazioni condotte in alto mare. Ciò vale in virtù del diritto internazionale dei rifugiati, come interpretato dalla Commissione interamericana dei diritti dell’uomo , dall’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati , dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite e dalla Camera dei Lord , e in virtù del diritto universale dei diritti dell’uomo, come applicato dal Comitato ONU contro la tortura e dal Comitato ONU per i diritti umani .
Alcuni noti esperti di diritto internazionale hanno adottato questo approccio .

Il fatto che alcuni tribunali supremi, quali la Corte suprema degli Stati Uniti e la Corte suprema di Australia , siano giunti a conclusioni diverse non è decisivo.

È vero che la dichiarazione del delegato svizzero nel corso della conferenza dei plenipotenziari, secondo la quale il divieto di respingimento non si applica ai rifugiati che arrivano alla frontiera, fu approvata da altri delegati, in particolare dal delegato olandese, il quale rilevò che la conferenza era d’accordo con questa interpretazione . È anche vero che l’articolo 33 § 2 della Confezione delle Nazioni Unite relativa allo status di rifugiati esclude dal divieto di respingimento il rifugiato che costituisce un pericolo per la sicurezza del paese “dove si trova”, e che i rifugiati in alto mare non si trovano in alcun paese. Si potrebbe essere tentati di interpretare l’articolo 33 § 1 come se contenesse una analoga restrizione territoriale. Se il divieto di respingimento fosse applicato in alto mare, ciò avrebbe l’effetto di creare un regime speciale per gli stranieri pericolosi in alto mare, i quali beneficerebbero del divieto contrariamente agli stranieri pericolosi residenti nel paese.

Secondo me, con tutto il rispetto che devo alla Corte suprema degli Stati Uniti, l’interpretazione di quest’ultima contraddice il senso letterale e comune dei termini dell’articolo 33 della Convenzione delle Nazioni Unite relativa allo status di rifugiati e si scosta dalle regole comuni che riguardano l’interpretazione di un trattato. Secondo l’articolo 31 § 1 della Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati, una disposizione di un trattato deve essere interpretata secondo il senso ordinario da attribuire ai termini del trattato nel loro contesto e alla luce del suo oggetto e del suo scopo. Quando il senso di un trattato emerge chiaramente dal suo testo letto alla luce della sua lettera, del suo scopo e del suo oggetto, le fonti complementari quali i lavori preparatori sono inutili . La fonte complementare storica è ancor meno necessaria quando essa stessa manca di chiarezza, come in questo caso: il comitato speciale incaricato di redigere la Convenzione ha difeso l’idea che l’obbligo di non respingimento si estendesse ai rifugiati non ancora arrivati sul territorio ; il rappresentante degli Stati Uniti ha dichiarato nel corso dell’elaborazione dell’articolo 33 che poco importava se il rifugiato avesse varcato o no il confine ; il rappresentante olandese ha formulato la sua riserva unicamente in merito ai “grandi gruppi di rifugiati che cercano di accedere ad un territorio”, e il presidente della conferenza dei plenipotenziari ha semplicemente “deciso che conveniva prendere atto dell’interpretazione consegnata dal delegato dei Paesi Bassi” secondo la quale l’ipotesi di migrazioni massicce attraverso le frontiere sfuggiva all’articolo 33 .

Contrariamente all’applicabilità delle altre disposizioni della Convenzione delle Nazioni Unite relativa allo status di rifugiati, quella dell’articolo 33 § 1 non dipende dalla presenza di un rifugiato sul territorio di uno Stato. L’unica restrizione geografica prevista dall’articolo 33 § 1 attiene al paese verso il quale un rifugiato può essere inviato, e non al luogo da dove è inviato. In più, il termine francese “respingimento” ingloba l’allontanamento, il trasferimento, il rigetto o la non ammissione di una persona . L’uso intenzionale del termine francese nella versione inglese non ha altro significato possibile che quello di sottolineare l’equivalenza linguistica tra il verbo return e il verbo respingere. Inoltre il preambolo della Convenzione enuncia che quest’ultima è volta ad “assicurare [ai rifugiati] il più ampio esercizio possibile dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali”, obiettivo che si riflette nel testo stesso dell’articolo 33, attraverso la chiara espressione “in qualsiasi modo”, che ingloba ogni tipo di azione dello Stato volta ad espellere, estradare o allontanare uno straniero che ha bisogno di una protezione internazionale. Infine, non è possibile trarre dal riferimento territoriale contenuto nell’articolo 33 § 2 (“paese in cui si trova”) alcun argomento che militi per il rigetto dell’applicazione extraterritoriale dell’articolo 33 § 1, perché il paragrafo 2 dell’articolo 33 prevede semplicemente una eccezione alla regola formulata al paragrafo 1. Questo “sconfinamento” dell’eccezione sfavorevole sulla regola favorevole sarebbe inaccettabile.

L’articolo 31 § 1 della Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati enuncia che una disposizione di un trattato deve essere interpretata in buona fede. E’ riconosciuto che la buona fede non è di per sé fonte di obblighi laddove non ne esistono altri ; fornisce tuttavia un mezzo prezioso per definire la portata degli obblighi esistenti, in particolare di fronte alle azioni ed alle omissioni di uno Stato che hanno l’effetto di aggirare gli obblighi convenzionali . Uno Stato manca di buona fede nell’applicare un trattato non soltanto quando infrange, con azioni o omissioni, gli obblighi derivanti dal trattato, ma anche quando elude gli obblighi da lui accettati ostacolando il normale funzionamento di una garanzia che deriva da un trattato. Ostacolare con la forza il meccanismo che scatta con l’applicazione di un obbligo convenzionale significa ostacolare il trattato stesso, fatto contrario al principio di buona fede (criterio dell’ostruzionismo). Uno Stato manca di buona fede anche quando adotta al di fuori del suo territorio una condotta che all’interno sarebbe inaccettabile tenuto conto dei suoi obblighi convenzionali (criterio del “doppio standard”). Una politica di “doppio standard” basata sul luogo in cui essa è applicata viola l’obbligo convenzionale al quale è tenuto lo Stato in questione. L’applicazione di questi due criteri porta a concludere che le operazioni di rinvio effettuate in alto mare senza alcuna valutazione dei bisogni individuali di protezione internazionale sono inaccettabili .

Un ultimo ostacolo al divieto di respingimento attiene al territorio di origine del richiedente asilo. La Convenzione delle Nazioni Unite sullo status di rifugiati richiede che l’interessato si trovi al di fuori del suo paese di origine, che sembra incompatibile con l’asilo diplomatico, perlomeno se si interpreta questa nozione conformemente al ragionamento prudente tenuto dalla Corte internazionale di giustizia nella causa sul diritto d’asilo . Il diritto di chiedere asilo esige tuttavia l’esistenza del diritto complementare di lasciare il proprio paese in vista della richiesta di asilo. Ecco perché gli Stati non possono limitare il diritto di lasciare un paese e di cercare al di fuori di esso una protezione effettiva . Benché nessuno Stato abbia l’obbligo di concedere l’asilo diplomatico, il bisogno di protezione internazionale è addirittura più impellente nel caso di un richiedente asilo che si trovi ancora nel paese in cui la sua vita, la sua integrità fisica e la sua libertà sono minacciate. La prossimità delle fonti di rischio rende ancor più necessaria la protezione delle persone che sono in pericolo nel proprio paese. Altrimenti il diritto internazionale dei rifugiati, almeno il diritto internazionale dei diritti umani impone agli Stati un obbligo di protezione in queste circostanze, e la mancata adozione di misure adeguate e positive di protezione costituisce a tale proposito una violazione. Gli Stati non possono fingere di ignorare gli evidenti bisogni di protezione. Se ad esempio una persona che rischia di essere torturata nel suo paese richiede l’asilo ad una ambasciata di uno Stato vincolato dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo, le deve essere concesso un visto di ingresso sul territorio di questo Stato, in modo da permetterle di avviare una vera procedura d’asilo nello Stato di accoglienza. Non si tratterà di una risposta puramente umanitaria che deriva dalla buona volontà e dal potere discrezionale dello Stato. Un obbligo positivo di protezione nascerà quindi dall’articolo 3. In altri termini, la politica di un paese in materia di visti è subordinata agli obblighi a lui imposti in virtù del diritto internazionale dei diritti dell’uomo. In tal senso sono state fatte importanti dichiarazioni dall’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa , dal Comitato europeo per la prevenzione della tortura e dall’alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati .

Questa conclusione è corroborata anche dalla storia dell’Europa. Infatti, durante la Seconda Guerra mondiale questo continente ha conosciuto diversi importanti episodi collegati ai visti di protezione. Gli sforzi dispiegati dal diplomatico svedese Wallenberg e da altre persone a Budapest, oltre a quelli del diplomatico portoghese Sousa Mendes a Bordeaux e a Bayonne, sono degli esempi noti. Recentemente sono stati ricordati come un valido precedente per l’istituzione di una procedura formale di ingresso protetta dalle missioni diplomatiche degli Stati membri dell’Unione europea .

Teniamo a mente quest’ultimo episodio: dopo l’invasione della Francia da parte della Germania nazista e la resa del Belgio, migliaia di persone fuggirono verso il sud della Francia, in particolare a Bordeaux e a Bayonne. Colpito dalla disperazione di queste persone, il console portoghese di Bordeaux, Aristides de Sousa Mendes, si trovò di fronte a un doloroso dilemma: doveva conformarsi alle chiare istruzioni di una circolare del governo portoghese del 1939 che ordinava di rifiutare qualsiasi visto agli apolidi, ai “titolari di passaporti Nansen”, ai “Russi”, agli “Ebrei espulsi dal paese della loro nazionalità o della loro residenza” e a tutti coloro “che non erano in condizione di ritornare liberamente nel loro paese di origine”, oppure doveva seguire quello che la sua coscienza e il diritto internazionale gli dettavano disobbedendo così agli ordini del governo e concedendo i visti? Decise di seguire la sua coscienza e il diritto internazionale, e concesse il visto a più di 30.000 persone perseguitate in ragione della loro nazionalità, delle loro credenze religiose o della loro appartenenza politica. Per questo atto di disobbedienza, il console pagò un caro prezzo: dopo essere stato escluso dalla carriera diplomatica, morì da solo e in miseria, e tutta la sua famiglia fu costretta a lasciare il Portogallo .

Se questo episodio si fosse verificato ai giorni nostri, gli atti del diplomatico portoghese sarebbero stati pienamente conformi alla norma che deriva dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Infatti, la condotta del diplomatico costituirebbe l’unica reazione accettabile nei confronti di coloro che hanno bisogno di una protezione internazionale.
Il divieto di espulsioni collettive
L’obbligo di non respingimento ha due conseguenze procedurali: il dovere di informare lo straniero sul suo diritto di ottenere una protezione internazionale ed il dovere di offrire una procedura individuale, equa ed effettiva che consenta di determinare e valutare la qualità di rifugiato. L’adempimento dell’obbligo di non respingimento esige una valutazione del rischio personale di danno, che può essere effettuata soltanto se ogni straniero ha accesso ad una procedura equa ed effettiva con la quale la sua causa viene esaminata individualmente. I due aspetti sono talmente interconnessi che possono essere considerati come facce di una stessa medaglia. L’espulsione collettiva di stranieri è quindi inaccettabile.

Il divieto di espulsione collettiva di stranieri è previsto dall’articolo 4 del Protocollo n° 4 alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo, dall’articolo 19 § 1 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, dall’articolo 12 § 5 della Carta africana dei diritti dell’uomo e dei popoli, dall’articolo 22 § 9 della Convenzione americana relativa ai diritti dell’uomo, dall’articolo 26 § 2 della Carta araba dei diritti dell’uomo, dall’articolo 25 § 4 della Convenzione dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali della Comunità di Stati indipendenti, e dall’articolo 22 § 1 della Convenzione internazionale sulla protezione dei diritti di tutti i lavoratori migranti e dei membri delle loro famiglie.

Affinché la procedura per determinare lo status di rifugiato sia individuale, equa ed effettiva, deve presentare necessariamente le seguenti caratteristiche: 1) un termine ragionevole per sottoporre la richiesta di asilo; 2) un colloquio individuale con il richiedente asilo prima che venga presa qualsiasi decisione sulla sua richiesta; 3) la possibilità di produrre elementi di prova a sostegno della richiesta e di contestare gli elementi di prova contrari; 4) una decisione scritta pienamente motivata proveniente da un organo indipendente di prima istanza, basata sulla situazione personale del richiedente asilo e non soltanto su una valutazione generale della situazione nel suo paese di origine, in quanto il richiedente asilo ha il diritto di contestare la presunzione di sicurezza di un paese rispetto alla sua situazione personale; 5) un termine ragionevole per appellare la decisione di prima istanza; 6) un controllo giurisdizionale integrale e rapido dei motivi di fatto e di diritto della decisione di prima istanza; e 7) una assistenza e una rappresentanza in giudizio gratuite e, se necessario una assistenza linguistica gratuita in prima e seconda istanza, nonché un accesso illimitato all’HCR o a qualsiasi altra organizzazione che lavori per conto dell’HCR. .

Queste garanzie procedurali si applicano a tutti i richiedenti asilo qualsiasi sia la loro situazione giuridica e di fatto, come riconosce il diritto internazionale dei rifugiati , il diritto universale dei diritti dell’uomo e il diritto regionale dei diritti dell’uomo .
Questa conclusione non è inficiata dalla decisione della Corte secondo la quale l’articolo 6 della Convenzione non è applicabile alle procedure di espulsione o di asilo , né dal fatto che alcune garanzie procedurali nei confronti degli stranieri espulsi possano trovarsi nell’articolo 1 del Protocollo no 7. L’articolo 4 del Protocollo no 4 e l’articolo 1 del Protocollo no 7 hanno la stessa natura: sono entrambi disposizioni che prevedono garanzie procedurali ma i loro rispettivi campi di applicazione sono sostanzialmente diversi. Le garanzie procedurali enunciate nell’articolo no 4 del Protocollo no 4 hanno un campo di applicazione molto più ampio di quello dell’articolo 1 del Protocollo n° 7: il primo articolo si applica a tutti gli stranieri qualunque sia la loro situazione giuridica o di fatto mentre il secondo riguarda soltanto gli stranieri che risiedono in situazione regolare nello Stato che ordina l’espulsione .

Una volta ammessa l’applicazione del principio di non respingimento ad ogni azione di uno Stato condotta al di là delle frontiere di quest’ultimo, si arriva logicamente alla conclusione secondo la quale la garanzia procedurale della valutazione individuale delle domande di asilo e il conseguente divieto di espulsione collettiva di stranieri non si limitano al territorio terrestre ed alle acque territoriali di uno Stato ma si applicano anche in alto mare .

Infatti, né la lettera né lo spirito dell’articolo 4 del Protocollo n° 4 vietano di farne un’applicazione extraterritoriale. Nella formulazione di questa disposizione non è previsto un limite territoriale. Inoltre, si riferisce molto ampiamente agli stranieri, e non ai residenti, e neanche ai migranti. Il suo scopo è garantire il diritto di presentare una richiesta di asilo che sarà oggetto di una valutazione individuale, qualsiasi sia la maniera con cui il richiedente asilo è arrivato nel paese interessato, sia per terra, per mare o per aria, legalmente o meno. Così, lo spirito di questa disposizione esige una interpretazione ugualmente ampia della nozione di espulsione collettiva, che comprenda tutte le operazioni collettive di estradizione, di rinvio, di trasferimento informale, di “restituzione”, di rigetto, di rifiuto, di ammissione e di ogni altra misura collettiva che avrebbero l’effetto di costringere un richiedente asilo a rimanere nel suo paese d’origine, qualsiasi sia il luogo in cui questa operazione ha luogo. Lo scopo della disposizione sarebbe aggirato molto facilmente se uno Stato potesse inviare una nave da guerra in alto mare o al limite delle sue acque territoriali e mettersi a rifiutare in maniera collettiva e globale ogni richiesta di rifugiato, o anche omettere qualsiasi valutazione dello status di rifugiato. L’interpretazione di questa disposizione deve dunque essere coerente con lo scopo di protezione degli stranieri da un’espulsione collettiva.

Concludendo, la extraterritorialità della garanzia procedurale dell’articolo 4 del Protocollo no 4 alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo è pienamente conforme all’estensione extraterritoriale della stessa garanzia prevista dal diritto internazionale dei rifugiati e dal diritto universale dei diritti dell’uomo.
La responsabilità dello Stato per le violazioni dei diritti dell’uomo durante le operazioni di controllo dell’immigrazione e delle frontiere
Il controllo dell’immigrazione e delle frontiere costituisce una funzione essenziale dello Stato, e tutte le forme di questo controllo derivano dall’esercizio della giurisdizione dello Stato. Pertanto, tutte le forme di controllo dell’immigrazione e delle frontiere di uno Stato parte alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo sono sottoposte alle norme in materia di diritti umani da queste ultime sancite e all’esame della Corte , qualunque sia il personale incaricato di queste operazioni e il luogo in cui esse si svolgano.

Il controllo dell’immigrazione e delle frontiere è normalmente effettuato dai funzionari dello Stato dislocati lungo la frontiera di un paese, in particolare nei luoghi in cui transitano persone e beni, come i porti e gli aeroporti. Ma questo controllo può anche essere eseguito da altri professionisti in altri luoghi. In realtà la capacità formale di un agente dello Stato che esercita un controllo alle frontiere o il fatto che questa persona sia armata oppure no sono elementi privi di qualsiasi pertinenza. Tutti i rappresentanti, funzionari, delegati, impiegati pubblici, poliziotti, agenti delle forze dell’ordine, militari, agenti contrattuali o membri di una impresa privata che agisce in virtù di una autorità legale che assicurano la funzione di controllo delle frontiere per conto di una Parte contraente sono vincolati dalle norme stabilite dalla Convenzione .

E’ inoltre irrilevante il fatto che il controllo dell’immigrazione o delle frontiere sia esercitato sul territorio o nelle acque territoriali di uno Stato, nell’ambito delle sue missioni diplomatiche, su una delle sue navi da guerra, su una imbarcazione registrata nello Stato o sotto il suo effettivo controllo, su una imbarcazione di un altro Stato o in un luogo situato sul territorio di un altro Stato o su un territorio assegnato ad un altro Stato, dal momento che il controllo è effettuato per conto della Parte contraente . Uno Stato non può sottrarsi ai suoi obblighi convenzionali nei confronti dei rifugiati utilizzando lo stratagemma che consiste nel cambiare il luogo di determinazione del loro status. A fortiori, l’”escissione” di una parte del territorio di uno Stato dalla zona di immigrazione al fine di evitare l’applicazione delle garanzie giuridiche generali alle persone che arrivano in questa parte “escissa” dal territorio, rappresenta un diniego fragrante degli obblighi cui lo Stato è tenuto in virtù del diritto internazionale .

Così, le norme della Convenzione che regolano tutta la gamma delle politiche concepibili dell’immigrazione e delle frontiere, compreso il divieto di entrare in acque territoriali, il diniego di visto, il rifiuto di autorizzare lo sbarco in vista delle operazioni di pre-sdoganamento o il fatto di mettere a disposizione fondi, attrezzature o personale per le operazioni di controllo dell’immigrazione effettuate da altri Stati o da organizzazioni internazionali per conto della Parte contraente. Tutte queste misure costituiscono forme di esercizio della funzione statale di controllo delle frontiere e una manifestazione della giurisdizione dello Stato, qualunque sia il luogo in cui sono adottate e qualunque sia la persona che le mette in atto .

La giurisdizione dello Stato sul controllo dell’immigrazione e delle frontiere implica naturalmente la responsabilità dello Stato per ogni violazione dei diritti dell’uomo che si produca durante il compimento di questo controllo. Le regole applicabili alla responsabilità internazionale per le violazioni dei diritti dell’uomo sono quelle enunciate negli Articoli sulla responsabilità degli Stati per fatti internazionalmente illeciti, allegati alla Risoluzione 56/83 del 2001 dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite . La Parte contraente rimane vincolata dalle norme della Convenzione e la sua responsabilità non è per nulla attenuata dal fatto che per lo stesso atto sia coinvolta quella di uno Stato non contraente. Ad esempio, la presenza di un agente di uno Stato non contraente a bordo di una nave da guerra di uno Stato contraente o di una nave sotto il controllo effettivo dello Stato contraente non dispensa quest’ultimo dai suoi obblighi convenzionali (articolo 8 degli Articoli sulla responsabilità degli Stati). Peraltro, la presenza di un agente di uno Stato contraente a bordo di una nave da guerra di uno Stato non contraente o di una nave sotto il controllo effettivo di uno Stato non contraente permette di imputare allo Stato contraente che partecipa all’operazione qualsiasi violazione delle norme della Convenzione (articolo 16 degli Articoli sulla responsabilità degli Stati).
La violazione delle norme della Convenzione da parte dello Stato italiano
Secondo i principi qui sopra richiamati, l’operazione di controllo delle frontiere da parte dello Stato italiano che ha comportato il rinvio in alto mare, combinato alla mancanza di una procedura individuale, equa ed effettiva di filtro dei richiedenti asilo, costituisce una grave violazione del divieto di espulsione collettiva di stranieri e, di conseguenza del principio di non respingimento .

Nel quadro della contestata azione di “rinvio”, i ricorrenti sono stati imbarcati a bordo di una nave militare appartenente alla marina italiana. Tradizionalmente le navi in alto mare sono considerate come un’estensione del territorio dello Stato di bandiera . Si tratta di una asserzione incontestabile di diritto internazionale, sancita dall’articolo 92 § 1 della Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare (“CNUDM”). Questa asserzione è ancor più vera nel caso di una nave da guerra, che è considerata, per citare Malcom Shaw, come “il braccio armato della sovranità dello stato di bandiera” . L’articolo 4 del codice della navigazione italiano sancisce questo stesso principio quando enuncia che “Le navi italiane in alto mare e gli aeromobili italiani in luogo o spazio non soggetto alla sovranità di alcuno Stato sono considerati come territorio italiano”. Insomma, quando i ricorrenti sono saliti a bordo delle navi italiane in alto mare, sono penetrati in “territorio” italiano, nel senso figurato di questo termine, beneficiando così ipso facto di tutti gli obblighi cui è tenuta la Parte contraente alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo e alla Convenzione delle Nazioni Unite relativa allo status di rifugiati.

Il governo convenuto sostiene che le azioni di rinvio in alto mare erano giustificate dal diritto del mare. Si potrebbero considerare quattro motivi di giustificazione: il primo è l’articolo 100 § 1, comma d), della CNUDM combinato con l’articolo 91 di quest’ultima, che autorizza l’abbordaggio di navi che non battono alcuna bandiera, generalmente come quelle che trasportano i migranti illegali attraverso il Mediterraneo; il secondo è l’articolo 100 § 1, comma b) della CNUDM, che autorizza le imbarcazioni ad abbordare le navi in alto mare se vi sono ragionevoli motivi per sospettare che la nave in questione sia impegnata nel traffico di schiavi, potendo estendere questo motivo alle vittime della tratta degli esseri umani, tenuto conto dell’analogia tra queste due forme di traffico ; il terzo è l’articolo 8 §§ 2 e 7 del Protocollo contro il traffico illecito di migranti via terra, via mare e via aria addizionale alla Convenzione delle Nazioni Unite contro la criminalità organizzata transnazionale, che autorizza gli Stati a intercettare e a prendere misure appropriate contro le navi che possono essere ragionevolmente sospettate di essere dedite al traffico illecito di migranti; e il quarto è l’obbligo previsto dall’articolo 98 della CNUDM, di prestare assistenza alle persone in pericolo o in emergenza in alto mare. In tutte queste circostanze, gli Stati restano allo stesso tempo sottoposti al divieto di respingimento. Nessuna di queste disposizioni può ragionevolmente essere invocata per giustificare una eccezione all’obbligo di non respingimento e, di conseguenza, al divieto di espulsione collettiva. Ciò significherebbe dare una interpretazione tendenziosa di queste norme che si prefiggono di garantire una protezione alle persone particolarmente vulnerabili (le vittime di traffici, i migranti illegali, le persone in pericolo o in emergenza in alto mare), come pure servirsene per giustificare l’esposizione di queste persone a un ulteriore rischio di maltrattamenti riconducendole nei paesi dai quali sono fuggite. Come il rappresentante francese, sig. Juvigny, ha detto al comitato speciale durante le discussioni sul progetto di Convenzione sui rifugiati, “(…) non vi è peggior catastrofe, per un individuo che è giunto dopo varie vicissitudini a lasciare un paese in cui era sottoposto a persecuzioni, che vedersi rinviare in questo paese, senza parlare delle rappresaglie che lo aspettano”.62

Se vi è una causa nella quale la Corte dovrebbe fissare misure concrete di esecuzione è proprio questa. La Corte ritiene che il governo italiano debba adoperarsi per ottenere dal governo libico l’assicurazione che i ricorrenti non siano sottoposti a un trattamento incompatibile con la Convenzione, compreso un respingimento indiretto. Non è abbastanza. Il governo italiano ha anche un obbligo positivo di fornire ai ricorrenti un accesso pratico ed effettivo ad una procedura di asilo in Italia.

Le parole del giudice Blackmun sono talmente ispirate che non dovrebbero essere dimenticate. I rifugiati che tentano di scappare dall’Africa non richiedono un diritto di ammissione in Europa. Essi domandano soltanto all’Europa, culla dell’idealismo in materia di diritti dell’uomo e luogo di nascita dello Stato di diritto, di cessare di chiudere le sue porte a persone disperate che fuggono dall’arbitrio e dalla brutalità. È una preghiera modesta, peraltro sostenuta dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo. “Non restiamo sordi a questa preghiera”.

(TRADUZIONE A CURA DEL MINISTERO DELLA GIUSTIZIA)

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Provvedimento del 27/03/2012 Seconda Sezione
Numero del Ricorso: 9961/10
Presidente: Françoise Tulkens.
Caso: MANNAI contro ITALIA.
Caso di Rilievo
Sentenza
Riferimento al file originario – 301rc2010 Mannai c. Italia.doc

La presente sentenza diverrà definitiva alle condizioni stabilite nell’articolo 44 § 2 della Convenzione. Può subire modifiche di forma.
La Corte europea dei diritti dell’uomo (seconda sezione), costituita in una camera composta da:
Françoise Tulkens, presidente,
Dragoljub Popović,
Isabelle Berro-Lefèvre,
András Sajó,
Guido Raimondi,
Paulo Pinto de Albuquerque,
Helen Keller, giudici,
e da Françoise Elens-Passos, cancelliere aggiunto di sezione,
Dopo avere deliberato in camera di consiglio il 6 marzo 2012,
Emette la seguente sentenza, adottata in tale data:

PROCEDURA
1. All’origine della causa vi è un ricorso (no 9961/10) proposto contro la Repubblica italiana con il quale un cittadino tunisino, sig. Mohamed Ben Mohamed Mannai (“il ricorrente”), ha adito la Corte il 18 febbraio 2010 in virtù dell’articolo 34 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (“la Convenzione”).
2. Il ricorrente è rappresentato dall’avvocato G. de Carlo, del foro di Milano. Il governo italiano (“il Governo”) è stato rappresentato dal suo agente, sig.ra E. Spatafora.
3. Il ricorrente sostiene che la sua espulsione verso la Tunisia lo ha esposto al rischio di tortura e ha violato il diritto al rispetto della sua vita privata e familiare. Ritiene anche che l’esecuzione della decisione di espulsione abbia violato il suo diritto di ricorso individuale.
4. Il 22 giugno 2010 il ricorso è stato comunicato al Governo. Come consentito dall’articolo 29 § 1 della Convenzione, è stato inoltre deciso che la camera si sarebbe pronunciata contestualmente su ricevibilità e merito della causa.

IN FATTO
I. LE CIRCOSTANZE DEL CASO DI SPECIE
5. Il ricorrente è nato nel 1978 e attualmente risiede in Tunisia.
1. La procedura penale a carico del ricorrente e la decisione di espulsione
6. Nel maggio 2005, le autorità italiane emisero un mandato di arresto a carico del ricorrente, sospettato di appartenere ad una associazione per delinquere legata a gruppi fondamentalisti islamici.
7. Il 20 maggio 2005 il ricorrente fu arrestato in Austria e, il 20 luglio 2005, fu estradato verso l’Italia.
8. Con sentenza del 5 ottobre 2006, il giudice dell’udienza preliminare di Milano ritenne il ricorrente colpevole e lo condannò alla pena di cinque anni e quattro mesi di reclusione. La sentenza disponeva che il ricorrente, una volta scontata la pena, sarebbe stato espulso dal territorio italiano conformemente all’articolo 235 del codice penale.
9. La condanna del ricorrente passò in giudicato il 28 settembre 2008. Il sig. Mannai fu rinchiuso nel carcere di Benevento.
10. Il 19 febbraio 2010, su richiesta del ricorrente e in applicazione dell’articolo 39 del regolamento della Corte, il presidente della seconda sezione decise di indicare al governo italiano che nell’interesse delle parti e del corretto svolgimento della procedura innanzi alla Corte, era auspicabile non espellere il ricorrente verso la Tunisia fino a nuovo ordine. L’attenzione del Governo fu richiamata sul fatto che, quando uno Stato contraente non si conforma ad una misura indicata ai sensi dell’articolo 39 del regolamento, ciò può comportare una violazione dell’articolo 34 della Convenzione (vedere Mamatkulov e Askarov c. Turchia [GC], nn. 46827/99 e 46951/99, §§ 128-129 e punto 5 del dispositivo, CEDH 2005-I).
11. Avendo beneficiato di un condono, il ricorrente finì di scontare la sua pena il 20 febbraio 2010.
Lo stesso giorno, il prefetto di Benevento adottò un decreto di espulsione nei suoi confronti. Il ricorrente fu immediatamente condotto in un centro di detenzione temporanea di Roma in vista dell’esecuzione della sua espulsione.
12. Il 24 febbraio 2010 il giudice di pace di Roma autorizzò l’espulsione del ricorrente verso l’Austria, paese in cui risiedeva prima di essere estradato in Italia. Tuttavia, il 5 marzo 2010, le autorità austriache rifiutarono di accogliere il ricorrente sostenendo che quest’ultimo non aveva alcun legame con l’Austria. Questo rifiuto fu in seguito reiterato il 26 aprile 2010.
13. Con decisione dell’8 aprile 2010, il giudice di pace di Roma precisò che la sua decisione del 24 febbraio 2010, che autorizzava l’espulsione del ricorrente, era valida anche in caso di espulsione verso la Tunisia.
14. Il 23 aprile 2010 il ricorrente adì il giudice di pace di Benevento, deducendo l’illegittimità del decreto di espulsione e chiedendo la sospensione della sua esecuzione.
15. L’espulsione del ricorrente verso la Tunisia fu eseguita il 1° maggio 2010.
Lo stesso giorno, l’avvocato del ricorrente informò la Corte che il suo cliente era stato espulso.
16. Il 3 maggio 2010, il cancelliere della seconda sezione ha inviato alla rappresentanza permanente dell’Italia a Strasburgo la seguente lettera:
«In riferimento alla precedente lettera riguardante il ricorso citato in oggetto, vi informo che la Corte ha appreso che il ricorrente è stato espulso verso la Tunisia. L’avvocato De Carlo, rappresentante del ricorrente, ha dichiarato in un messaggio pervenuto via fax alla cancelleria il 1° maggio 2010 che il suo cliente era stato espulso verso la Tunisia alle ore 9:20 dello stesso giorno.
Con lettera del 19 febbraio 2010 (qui allegata), il vostro Governo era stato informato che il presidente della seconda sezione della Corte aveva deciso di indicare, in applicazione dell’articolo 39 del regolamento della Corte, che era auspicabile, nell’interesse delle parti e del corretto svolgimento della procedura innanzi alla Corte, non espellere il ricorrente verso la Tunisia fino a nuovo ordine. Questa misura provvisoria non è mai stata revocata. Il presidente, informato delle nuove circostanze, ha confermato che tale indicazione era sempre in vigore. Di conseguenza, invito il vostro Governo a comunicare alla cancelleria nel più breve tempo possibile ogni informazione utile sulla sorte del ricorrente.
Richiamo la vostra attenzione, da una parte, sulla sentenza Saadi c. Italia del 28 febbraio 2008 nella quale, in una causa simile, la Grande Camera aveva deciso che, nell’eventualità fosse stata data esecuzione alla decisione di espellere il ricorrente verso la Tunisia, vi sarebbe stata violazione dell’articolo 3 della Convenzione e, dall’altra parte, sui precedenti creati dall’espulsione verso la Tunisia dei sigg. Ben Khemais (no 246/07) e Trabelsi (no 50163/08) ».
17. Il 14 maggio 2010, il Governo italiano inviò alla Corte la sua risposta con la quale dichiarava che il ricorrente era stato espulso in quanto rappresentava una minaccia per la sicurezza dello Stato. Inoltre, le decisioni del 24 febbraio e dell’8 aprile 2010, con le quali il giudice di pace di Roma aveva convalidato il decreto di espulsione del ricorrente, “erano state prese in seguito all’applicazione dell’articolo 39 del regolamento della Corte e in piena cognizione di causa della misura provvisoria indicata dalla Corte europea dei diritti dell’uomo”.
18. Nel frattempo, con un decreto del 3 maggio 2010, il giudice di pace di Benevento respinse il ricorso del ricorrente. Il 18 maggio 2010 il rappresentante di quest’ultimo introdusse un ricorso per cassazione. Dalle ultime informazioni pervenute alla Corte risulta che il procedimento era ancora pendente innanzi all’alta giurisdizione.
2. Le informazioni riguardanti la situazione del ricorrente dopo la sua espulsione
19. Il ricorrente afferma di essere stato arrestato subito dopo il suo arrivo a Tunisi, il 1° maggio 2010, e di essere stato detenuto nei locali del Ministero dell’Interno per dieci giorni. Durante la sua detenzione sarebbe stato torturato dalla polizia. Il ricorrente sostiene di esser oggetto di continue minacce da parte dei servizi di sicurezza tunisini.
20. Secondo il Governo, il ricorrente non è mai stato detenuto a Tunisi ed è sempre stato libero di muoversi.
II. TESTI E DOCUMENTI INTERNAZIONALI
21. I principali documenti internazionali che riguardano la situazione in Tunisia all’epoca dei fatti del caso di specie, sono riportati nelle cause Saadi c. Italia (prima citata, §§ 65-93) e Toumi c. Italia (no 25716/09, §§ 27-29, 5 aprile 2011).
22. La Corte ha esaminato la situazione in Tunisia dopo il recente cambiamento di regime nella sentenza Al Hanchi c. Bosnia-Erzegovina (no 48205/09, §§ 26-28, 15 novembre 2011).

IN DIRITTO
I. SULLA ADDOTTA VIOLAZIONE DELL’ARTICOLO 3 DELLA CONVENZIONE
23. Il ricorrente sostiene che la sua espulsione verso la Tunisia lo ha esposto al rischio di essere torturato. Invoca l’articolo 3 della Convenzione.
Questa disposizione recita:
«Nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti.»
24. Il Governo si oppone a questa tesi.
A. Sulla ricevibilità
1. L’eccezione di mancato esaurimento delle vie di ricorso interne sollevata dal Governo
25. Il Governo eccepisce innanzitutto il mancato esaurimento delle vie di ricorso interne in quanto il ricorso opposto dal rappresentate del ricorrente avverso il decreto del giudice di pace di Benevento è tuttora pendente innanzi alla Corte di cassazione.
26. Il ricorrente vi si oppone e fa valere il carattere non effettivo del ricorso in opposizione avverso il decreto di espulsione.
27. La Corte ricorda che, secondo la regola dell’esaurimento delle vie di ricorso interne, un ricorrente deve avvalersi dei ricorsi normalmente disponibili e sufficienti nell’ordinamento giuridico interno per permettere di ottenere la riparazione delle violazioni allegate. Nulla impone di usare ricorsi che non sono né adeguati né effettivi (vedere, tra altre Akdivar e altri c. Turchia, sentenza del 16 settembre 1996, Recueil des arrêts et décisions 1996-IV, p. 1210, § 67; Andronicou e Constantinou c. Cipro, sentenza del 9 ottobre 1997, Recueil 1997-VI, pp. 2094-2095, § 159). Inoltre, in materia di espulsione, la nozione di ricorso effettivo richiede la possibilità di sospendere l’esecuzione della misura controversa quando esistono validi motivi per temere un rischio reale di trattamenti contrari all’articolo 3 (vedere, tra altre, M.S.S. c. Belgio e Grecia [GC], no 30696/09, §§ 387 e 388, 21 gennaio 2011).
28. Nel caso di specie la Corte si limita a constatare che il ricorrente è stato espulso mentre la procedura di opposizione instaurata avverso il decreto di espulsione era ancora pendente innanzi al giudice di pace di Benevento. La Corte fatica a comprendere come la via di ricorso imboccata dal ricorrente, mancando di effetto sospensivo, possa essere considerata una via di ricorso effettiva ai sensi della Convenzione.
29. Ne consegue che il ricorrente non era tenuto ad attendere l’esito del ricorso per cassazione prima di adire la Corte. Pertanto, l’eccezione preliminare del Governo non può essere presa in considerazione.
2. Altri motivi di irricevibilità
30. La Corte constata che questo motivo di ricorso non è manifestamente infondato ai sensi dell’articolo 35 paragrafo 3 della Convenzione e che non incorre in altri motivi di irricevibilità. È dunque opportuno dichiararlo ricevibile.
B. Sul merito
1. Argomenti delle parti
31. Il ricorrente afferma di essere stato detenuto dieci giorni nei locali del Ministero dell’Interno tunisino in condizioni inumane. Le sue affermazioni sarebbero peraltro corroborate dalle inchieste condotte da Amnesty International e dal Dipartimento di Stato degli Stati Uniti d’America che dimostrerebbero che in Tunisia è praticata la tortura.
Il ricorrente sostiene che la tesi del Governo secondo la quale la situazione dei diritti dell’uomo in Tunisia è migliorata non si basa su alcun elemento oggettivo. E’ prassi delle autorità tunisine minacciare e maltrattare i prigionieri, i loro famigliari e i loro avvocati. I familiari dei detenuti temono di essere accusati di non voler cooperare e di subire ritorsioni. Il fatto che la Tunisia non voglia autorizzare le visite dell’avvocato italiano del ricorrente dimostrerebbe che desidera evitare la presenza di una persona indipendente che non potrebbe intimidire.
Infine, come la Corte ha rilevato nella causa Saadi prima citata, la Croce Rossa non può divulgare ciò che constata nel corso delle sue visite nelle carceri.
32. Il Governo sottolinea che le asserzioni relative al rischio di essere esposto a tortura o a trattamenti inumani o degradanti devono essere sostenute da adeguati elementi di prova, e ritiene che nel caso di specie ciò non sia stato fatto. Inoltre, la valutazione di un tale rischio deve essere effettuata sulla base di fatti seri e accertati riguardanti la situazione personale del ricorrente e non alla luce della situazione generale esistente in un paese.
33. Il Governo sostiene peraltro che la situazione dei diritti dell’uomo in Tunisia è migliorata e non corrisponde a quella descritta nei rapporti internazionali ai quali la Corte ha fatto riferimento nella causa Saadi prima citata e in altre cause simili. Esso nota che la Tunisia ha ratificato numerosi strumenti internazionali in materia di protezione dei diritti dell’uomo, compreso un accordo di collaborazione con l’Unione europea, organizzazione internazionale che, secondo la giurisprudenza della Corte, si presume offra una protezione dei diritti fondamentali “equivalente” a quella assicurata dalla Convenzione. Le autorità tunisine permetterebbero peraltro alla Croce Rossa Internazionale e ad “altri organismi internazionali” di visitare le carceri, le unità di detenzione temporanea e i locali adibiti ai fermi di polizia. Secondo il parere del Governo, si può presumere che la Tunisia non si sottrarrà agli obblighi che le incombono in virtù dei trattati internazionali.
34. Quanto alla situazione personale del ricorrente, il Governo ribadisce che quest’ultimo, dopo la sua espulsione, non è stato privato della sua libertà, né è stato sottoposto a trattamenti contrari alla Convenzione. Afferma che queste informazioni non dovrebbero essere ignorate dalla Corte e dovrebbero essere tenute debitamente in conto nell’esame della causa.
2. Valutazione della Corte
35. I principi generali relativi alla responsabilità degli Stati contraenti in caso di espulsione, agli elementi da tenere in considerazione per valutare il rischio di esposizione a trattamenti contrari all’articolo 3 della Convenzione e alla nozione di “tortura” e di “trattamenti inumani e degradanti” sono riassunti nella sentenza Saadi (prima citata, §§ 124-136), nella quale la Corte ha anche riaffermato l’impossibilità di valutare il rischio di maltrattamenti e i motivi invocati per l’espulsione al fine di stabilire se è coinvolta la responsabilità di uno Stato sotto il profilo dell’articolo 3 (§§ 137-141).
36. Per quanto riguarda il momento da prendere in considerazione per valutare il rischio di maltrattamenti, la Corte ricorda che è necessario fare riferimento in primo luogo alle circostanze di cui lo Stato in causa aveva o doveva aver conoscenza al momento dell’espulsione (Saadi, prima citata, § 133). Nel caso di specie, la Corte deve quindi verificare se il ricorrente sia stato esposto al rischio di subire maltrattamenti alla luce della situazione esistente in Tunisia all’epoca della sua espulsione, ossia alla data del 1° maggio 2010, a prescindere dal cambiamento di regime successivamente intervenuto in questo paese (vedere paragrafo 22 supra).
37. La Corte ricorda le conclusioni alle quali è pervenuta nella causa Saadi prima citata (§§ 143-146) in merito alla situazione in Tunisia all’epoca dei fatti, che erano le seguenti:
– i testi internazionali pertinenti riguardanti il periodo in questione documentavano numerosi e regolari casi di tortura e maltrattamenti inflitti in Tunisia a persone sospettate o riconosciute colpevoli di atti di terrorismo;
– questi testi descrivevano una situazione preoccupante;
– le visite del Comitato internazionale della Croce Rossa nei luoghi di detenzione tunisini non potevano eliminare il rischio che queste persone fossero sottoposte a trattamenti contrari all’articolo 3 della Convenzione.
Queste constatazioni sono peraltro confermate dal rapporto 2008 di Amnesty International relativo alla Tunisia e dalla dichiarazione del Relatore speciale delle Nazioni Unite del 26 gennaio 2010 (vedere Toumi c. Italia, prima citata, §§ 27-29).
38. La Corte non vede nel caso di specie alcuna ragione per ritornare su queste conclusioni circa l’esistenza di un rischio per il ricorrente di essere sottoposto a trattamenti contrari alla Convenzione. Al riguardo la Corte ricorda che il ricorrente è stato perseguito e condannato in Italia per partecipazione al terrorismo internazionale.
39. In queste condizioni, la Corte ritiene che, nel caso di specie, fatti seri e accertati giustifichino la conclusione secondo cui esiste il rischio reale che il ricorrente subisca trattamenti contrari all’articolo 3 della Convenzione a seguito della sua espulsione in Tunisia.
40. Per quanto riguarda gli argomenti del Governo in merito alla situazione del ricorrente in Tunisia, è opportuno ricordare che per controllare l’esistenza di un rischio di maltrattamenti, è necessario in primo luogo fare riferimento alle circostanze di cui lo Stato in causa aveva o doveva aver conoscenza al momento dell’espulsione (vedere paragrafo 36 supra) benché ciò non impedisca alla Corte di tener conto di informazioni successive che possono essere utili per confermare o invalidare il modo in cui la Parte contraente interessata ha giudicato la fondatezza dei timori di un ricorrente (Mamatkulov e Askarov, prima citata, § 69; Trabelsi c. Italia, no 50163/08, § 49, 13 aprile 2010).
41. Innanzitutto la Corte rileva che le versioni delle parti sono divergenti per quanto riguarda gli avvenimenti successivi all’espulsione del ricorrente. Ad ogni modo, tenuto conto di tutti gli elementi in suo possesso, la Corte ritiene che le informazioni fornite dal Governo non sono in grado di rassicurarla sul modo in cui l’Italia ha giudicato la fondatezza dei timori del ricorrente al momento dell’espulsione (vedere, mutatis mutandis, Toumi, prima citata, § 58).
42. Pertanto, l’esecuzione dell’espulsione del ricorrente verso la Tunisia ha violato l’articolo 3 della convenzione.
II. SULLA ADDOTTA VIOLAZIONE DELL’ARTICOLO 34 DELLA CONVENZIONE
43. Il ricorrente denuncia il mancato rispetto da parte del Governo italiano della misura provvisoria indicata in virtù dell’articolo 39 del regolamento della Corte dal presidente della seconda sezione.
44. Il Governo ritiene di non essere venuto meno ai suoi obblighi.
45. La Corte ritiene che questo motivo di ricorso si presti ad essere esaminato sotto il profilo dell’articolo 34 della Convenzione, che recita:
« La Corte può essere investita di un ricorso da parte di una persona fisica, un’organizzazione non governativa o un gruppo di privati che sostenga di essere vittima di una violazione da parte di una delle Alte Parti contraenti dei diritti riconosciuti nella Convenzione o nei suoi protocolli. Le Alte Parti contraenti si impegnano a non ostacolare con alcuna misura l’esercizio effettivo di tale diritto»
A. Sulla ricevibilità
46. La Corte constata che questo motivo di ricorso non è manifestamente infondato ai sensi dell’articolo 35 § 3 della Convenzione. Rileva peraltro che non incorre in nessun altro motivo di irricevibilità. E’ dunque opportuno dichiararlo ricevibile.
B. Sul merito
47. Il ricorrente afferma che la sua espulsione ha ostacolato l’esercizio del suo diritto ad un ricorso individuale come garantito dall’articolo 34 della Convenzione.
48. Il Governo ritiene che il mancato rispetto della misura provvisoria indicata dalla Corte non abbia ostacolato l’esercizio del diritto ad un ricorso individuale del ricorrente tenuto conto delle circostanze del caso di specie. Il Governo sostiene che l’interessato è sempre stato libero di muoversi e ha potuto mantenere i contatti con il suo legale.
Valutazione della Corte
49. La Corte ricorda che l’articolo 39 del regolamento abilita le camere o, eventualmente, il loro presidente ad indicare misure provvisorie. Tali misure sono state indicate solo quando ciò era strettamente necessario e in limitati ambiti, in linea di principio in presenza di un rischio imminente di danno irreparabile. Nella maggior parte dei casi, si trattava di cause relative a espulsioni ed estradizioni. I casi in cui gli Stati non si sono conformati alle misure indicate sono rari (Mamatkulov e Askarov c. Turchia [GC], nn. 46827/99 e 46951/99, §§ 103-105, CEDU 2005-I).
50. Nelle cause come la presente, dove il ricorrente allega in maniera plausibile l’esistenza di un rischio di danno irreparabile al godimento di uno dei diritti che fanno parte dei diritti fondamentali tutelati dalla Convenzione, una misura provvisoria ha lo scopo di mantenere lo statu quo nell’attesa che la Corte si pronunci sulla giustificazione della misura stessa. Dal momento che la misura provvisoria ha lo scopo di prolungare l’esistenza della questione oggetto del ricorso, essa riguarda il merito del motivo di ricorso basato sulla Convenzione. Con il suo ricorso, il ricorrente cerca di proteggere da un danno irreparabile il diritto sancito dalla Convenzione da lui invocato. Di conseguenza, il ricorrente domanda una misura provvisoria e la Corte la concede al fine di facilitare “l’esercizio efficace” del diritto di ricorso individuale garantito dall’articolo 34 della Convenzione, ossia di preservare l’oggetto del ricorso quando ritiene che vi sia il rischio che quest’ultimo subisca un danno irreparabile a causa di un’azione o di una omissione dello Stato convenuto (Mamatkulov e Askarov, prima citata, § 108).
51. Nell’ambito del contenzioso internazionale, le misure provvisorie hanno lo scopo di preservare i diritti delle parti, permettendo alla giurisdizione di dare effetto alle conseguenze della responsabilità derivata dal procedimento in contraddittorio. In particolare, nel sistema della Convenzione, le misure provvisorie, così come sono state costantemente applicate nella pratica, risultano essere di fondamentale importanza per evitare situazioni irreversibili che impedirebbero alla Corte di eseguire in buone condizioni un esame del ricorso e, eventualmente, per assicurare al ricorrente la possibilità di fruire praticamente ed effettivamente del diritto tutelato dalla Convenzione da lui invocato. Pertanto, in queste condizioni, il fatto che uno Stato convenuto non osservi le misure provvisorie mette in pericolo l’efficacia del diritto di ricorso individuale, come garantito dall’articolo 34, nonché l’impegno formale dello Stato, in virtù dell’articolo 1, di salvaguardare i diritti e le libertà sanciti dalla Convenzione. Tali misure permettono anche allo Stato interessato di adempiere al suo obbligo di conformarsi alla sentenza definitiva della Corte, la quale è giuridicamente vincolante in virtù dell’articolo 46 della Convenzione (Mamatkulov e Askarov, prima citata, §§ 113 e 125). Ne consegue che l’inosservanza di misure provvisorie da parte di uno Stato contraente deve essere considerata come un fatto che impedisce alla Corte di esaminare efficacemente il motivo di ricorso del ricorrente e ostacola l’esercizio efficace del suo diritto e pertanto come una violazione dell’articolo 34 (Mamatkulov e Askarov, prima citata, § 128).
52. Nel caso specifico, poiché l’Italia ha espulso il ricorrente verso la Tunisia, il livello di protezione dei diritti enunciati all’articolo 3 della Convenzione che la Corte poteva garantire all’interessato è stato ridotto in modo irreversibile. Essa ha quantomeno privato di qualsiasi utilità l’eventuale constatazione di violazione della Convenzione in quanto il ricorrente è stato allontanato verso un paese che non è parte a tale strumento, dove sosteneva che avrebbe corso il rischio di essere sottoposto a trattamenti contrari alla Convenzione.
53. Inoltre, l’efficacia dell’esercizio del diritto di ricorso implica anche che la Corte possa, nel corso del procedimento instaurato innanzi ad essa, continuare ad esaminare il ricorso secondo la sua consueta procedura.
54. Nella fattispecie, la Corte nota che il ricorrente è attualmente libero di muoversi ed ha potuto mantenere i contatti con il suo avvocato. Tuttavia, il fatto che l’interessato sia giunto a proseguire la procedura non impedisce che si ponga un problema dal punto di vista dell’articolo 34: dal momento che è più difficile per il ricorrente esercitare il suo diritto di ricorso a causa delle azioni del Governo, l’esercizio dei diritti garantiti da questo articolo è ostacolato (Chtoukatourov c. Russia, no 44009/05, § 147, 27 marzo 2008).
55. Inoltre, la Corte osserva che il Governo convenuto, prima di espellere il ricorrente, non ha chiesto la revoca della misura provvisoria adottata ai sensi dell’articolo 39 del regolamento della Corte, che sapeva essere sempre in vigore.
56. I fatti della causa, così come sopra esposti, mostrano che la sentenza della Corte rischia di essere privata di ogni effetto utile. In particolare, il fatto che il ricorrente sia stato sottratto alla giurisdizione dell’Italia costituisce un serio ostacolo che potrebbe impedire al Governo di adempiere ai suoi obblighi (derivanti dagli articoli 1 e 46 della Convenzione) di salvaguardare i diritti dell’interessato e di eliminare le conseguenze delle violazioni constatate dalla Corte. Questa situazione ha costituito un ostacolo all’effettivo esercizio da parte del ricorrente del suo diritto di ricorso individuale garantito dall’articolo 34 della Convenzione.
57. Tenuto conto degli elementi in suo possesso, la Corte conclude che non conformandosi alla misura provvisoria indicata in virtù dell’articolo 39 del suo regolamento, l’Italia non ha rispettato gli obblighi che a lei incombevano nella fattispecie riguardo l’articolo 34 della Convenzione.
III. SULL’APPLICAZIONE DELL’ARTICOLO 41 DELLA CONVENZIONE
58. Ai sensi dell’articolo 41 della Convenzione,
« Se la Corte dichiara che vi è stata violazione della Convenzione o dei suoi Protocolli e se il diritto interno dell’Alta Parte contraente non permette se non in modo imperfetto di rimuovere le conseguenze di tale violazione, la Corte accorda, se del caso, un’equa soddisfazione alla parte lesa. »
A. Danno
59. Il ricorrente domanda 50.000 EURO per il danno morale che ritiene di aver subito.
60. Il Governo ritiene questo importo eccessivo.
61. La Corte ritiene che il ricorrente abbia subito un torto morale certo a causa della esecuzione della decisione di espulsione. Decidendo secondo equità, come vuole l’articolo 41 della Convenzione, gli concede 15.000 EURO a questo titolo.
B. Spese
62. Producendo i documenti giustificativi, il ricorrente domanda anche 4.501,62 EURO per le spese legali affrontate dinanzi ai giudici italiani e 12.429,28 EURO per quelle affrontate dinanzi alla Corte.
63. Il Governo vi si oppone.
64. Secondo la giurisprudenza della Corte, un ricorrente può ottenere il rimborso delle spese sostenute solo nella misura in cui ne siano accertate la realtà e la necessità, e il loro importo sia ragionevole. Nel caso di specie e tenuto conto dei documenti in suo possesso e dei criteri summenzionati, la Corte giudica ragionevole la somma complessiva di 6.500 EURO
C. Interessi moratori
65. La Corte giudica appropriato calcolare il tasso degli interessi moratori sul tasso di interesse delle operazioni di rifinanziamento marginale della Banca centrale europea maggiorato di tre punti percentuali.

PER QUESTI MOTIVI, LA CORTE, ALL’UNANIMITÀ
1. Dichiara il ricorso ricevibile;
2. Dichiara che l’esecuzione della decisione di espellere il ricorrente verso la Tunisia ha violato l’articolo 3 della Convenzione;
3. Dichiara che vi è stata violazione dell’articolo 34 della Convenzione;
4. Dichiara
a) che lo Stato convenuto deve versare al ricorrente, entro tre mesi a decorrere dal giorno in cui la sentenza sarà diventata definitiva conformemente all’articolo 44 § 2 della Convenzione, le seguenti somme:
i) 15.000 EURO (quindicimila euro), più l’importo eventualmente dovuto a titolo di imposta, per danno morale;
ii) 6.500 EURO (seimilacinquecento euro), più l’importo eventualmente dovuto a titolo di imposta dal ricorrente per spese;
b) che, a decorrere dalla scadenza di detto termine e fino al versamento, tali importi dovranno essere maggiorati di un interesse semplice ad un tasso pari a quello delle operazioni di rifinanziamento marginale della Banca centrale europea applicabile durante questo periodo, aumentato di tre punti percentuali;
5. Rigetta la domanda di equa soddisfazione nel resto.
Fatta in francese, poi comunicata per iscritto il 27 marzo 2012, in applicazione dell’articolo 77 §§ 2 e 3 del regolamento.
Françoise Elens-Passos Françoise Tulkens
Cancelliere aggiunto Presidente
(TRADUZIONE NON UFFICIALE A CURA DEL MINISTERO DELLA GIUSTIZIA)

 

 

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_(ASCA) – Roma, 10 apr – Uno Stato membro puo’ sanzionare penalmente il favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, quando i cittadini di paesi terzi dispongano di un visto che e’ stato ottenuto fraudolentemente e non sia stato ancora annullato.

Lo ha stabilito la Corte di Giustizia Europea che ha diffuso oggi una sentenza relativa a un traffico di immigrazione clandestina scoperto in Germania.

Secondo la Corte, ”se vi sono fondati motivi per ritenere che un visto e’ stato ottenuto in maniera fraudolenta, esso viene annullato. La cancellazione e’, in linea di massima, effettuata dalle autorita’ competenti dello Stato membro di emissione, ma puo’ anche essere effettuata dalle autorita’ competenti di un altro Stato membro, nel qual caso vanno pero’ informate le autorita’ del Paese in cui e’ stato rilasciato il visto”.

La Corte rileva, in primo luogo, che ”il diritto dell’Unione disciplina le condizioni di emissione, cancellazione o abrogazione dei visti di soggiorno, ma non contiene alcuna regolamentazione che preveda sanzioni penali in caso di violazione delle condizioni. Tuttavia, il modulo di domanda di visto contiene una sezione in cui il richiedente e’ informato che qualsiasi falsa dichiarazione comportera’ una serie di sanzioni, tra cui la cancellazione del visto e puo’ comportare anche un’azione penale”.

”La legislazione UE – ricorda la COrte – esorta inoltre, ciascuno Stato membro a prendere le misure necessarie” per fronteggiare il traffico di immigrazione clandestina assicurando sanzioni penali ”efficaci, proporzionate e dissuasive”.

Dunque, l’Unione, non solo non puo’ opporsi alla decisione di uno Stato membro di introdurre procedimenti penali nei confronti di qualsiasi persona che consapevolmente abbia aiutato un cittadino extracomunitario ad entrare illegalmente sul territorio dello Stato membro, ma richiede espressamente allo Stato membro stesso di muoversi in tal senso. Gli Stati dell’Unione sono, quindi, rileva la Corte, ”di fronte a due obblighi: il primo e’ quello di non fare nulla per ostacolare la circolazione dei titolari di visti regolarmente rilasciati. Il secondo e’ di attuare sanzioni effettive, proporzionate e dissuasive contro gli autori dei reati, compresi i contrabbandieri. Questi obblighi devono essere proseguiti”.

Corte di Giustizia Europea

Sezione II

Sentenza 10 aprile 2012

«Espace de liberté, de sécurité et de justice – Règlement (CE) n° 810/2009 – Code communautaire des visas – Articles 21 et 34 – Législation nationale – Introduction illégale de ressortissants de pays tiers sur le territoire d’un État membre – Visas obtenus de manière frauduleuse – Sanction pénale du passeur»

Dans l’affaire C‑83/12 PPU,

ayant pour objet une demande de décision préjudicielle au titre de l’article 267 TFUE, introduite par le Bundesgerichtshof (Allemagne), par décision du 8 février 2012, parvenue à la Cour le 17 février 2012, dans la procédure pénale contre

Minh Khoa Vo

LA COUR (deuxième chambre),

composée de M. J. N. Cunha Rodrigues (rapporteur), président de chambre, MM. U. Lõhmus, A. Rosas, A. Ó Caoimh et C. G. Fernlund, juges,

avocat général: Mme E. Sharpston,

greffier: M. K. Malacek, administrateur,

vu la demande de la juridiction de renvoi du 8 février 2012, parvenue à la Cour le 17 février 2012, de soumettre le renvoi préjudiciel à une procédure d’urgence, conformément à l’article 104 ter du règlement de procédure de la Cour,

vu la décision du 28 février 2012 de la deuxième chambre de faire droit à ladite demande,

vu la procédure écrite et à la suite de l’audience du 22 mars 2012,

considérant les observations présentées:

– pour M. Vo, par Mme K. Beulich, Rechtsanwältin,

– pour le Generalbundesanwalt beim Bundesgerichtshof, par M. K. Lohse et Mme P. Knauss, en qualité d’agents,

– pour le gouvernement allemand, par MM. T. Henze et N. Graf Vitzthum, en qualité d’agents,

– pour le gouvernement hellénique, par Mme T. Papadopoulou, en qualité d’agent,

– pour la Commission européenne, par MM. G. Wils et W. Bogensberger, en qualité d’agents,

l’avocat général entendu,

rend le présent

Arrêt

1 La demande de décision préjudicielle porte sur l’interprétation des articles 21 et 34 du règlement (CE) n° 810/2009 du Parlement européen et du Conseil, du 13 juillet 2009, établissant un code communautaire des visas (code des visas) (JO L 243, p. 1).

2 Cette demande a été présentée dans le cadre d’une procédure pénale engagée à l’encontre de M. Vo, condamné, comme passeur, pour avoir introduit, sur le territoire allemand, des ressortissants de pays tiers titulaires de visas obtenus frauduleusement.

Le cadre juridique

Le droit de l’Union

Le code des visas

3 Le troisième considérant du code des visas est libellé comme suit:

«En ce qui concerne la politique des visas, la constitution d’un ‘corpus commun’ d’actes législatifs, notamment par la consolidation et le développement de l’acquis [dispositions pertinentes de la convention d’application de l’accord de Schengen du 14 juin 1985 et les instructions consulaires communes], est l’une des composantes essentielles de ‘la poursuite de la mise en place de la politique commune des visas, qui fera partie d’un système à multiples composantes destiné à faciliter les voyages effectués de façon légitime et à lutter contre l’immigration clandestine par une plus grande harmonisation des législations nationales et des modalités de délivrance des visas dans les missions consulaires locales’, telle qu’elle est définie dans le programme de La Haye: renforcer la liberté, la sécurité et la justice dans l’Union européenne.»

4 Selon l’article 1er, paragraphe 1, du code des visas, celui-ci fixe les procédures et les conditions de délivrance des visas pour les transits ou les séjours sur le territoire des États membres, d’une durée maximale de trois mois sur une période de six mois; le paragraphe 2 de cet article précise que les ressortissants de pays tiers doivent être munis de visas lors du franchissement des frontières extérieures des États membres.

5 L’article 2 du code des visas dispose:

«Aux fins du présent règlement, on entend par:

1) ‘ressortissant de pays tiers’, toute personne qui n’est pas citoyen de l’Union au sens de l’article 17, paragraphe 1, du traité;

2) ‘visa’, l’autorisation accordée par un État membre en vue:

a) du transit ou du séjour prévu sur le territoire des États membres, pour une durée totale n’excédant pas trois mois sur une période de six mois à compter de la date de la première entrée sur le territoire des États membres […]

[…]»

6 Selon l’article 14, paragraphe 1, du code des visas:

«1. Lorsqu’il introduit une demande de visa uniforme, le demandeur présente les documents suivants:

a) des documents indiquant l’objet du voyage;

[…]

d) des informations permettant d’apprécier sa volonté de quitter le territoire des États membres avant l’expiration du visa demandé.»

7 L’article 21 du code des visas prévoit:

«1. Lors de l’examen d’une demande de visa uniforme, le respect par le demandeur des conditions d’entrée énoncées à l’article 5, paragraphe 1, points a), c), d) et e), du [règlement (CE) n° 562/2006 du Parlement européen et du Conseil, du 15 mars 2006, établissant un code communautaire relatif au régime de franchissement des frontières par les personnes (code frontières Schengen) (JO L 105, p. 1)] est vérifié et une attention particulière est accordée à l’évaluation du risque d’immigration illégale ou du risque pour la sécurité des États membres que présenterait le demandeur ainsi qu’à sa volonté de quitter le territoire des États membres avant la date d’expiration du visa demandé.

2. Pour chaque demande, le VIS [système d’information sur les visas] est consulté conformément à l’article 8, paragraphe 2, et à l’article 15, du règlement [(CE) n° 767/2008 du Parlement européen et du Conseil, du 9 juillet 2008, concernant le système d’information sur les visas (VIS) et l’échange de données entre les États membres sur les visas de court séjour (règlement VIS) (JO L 218, p. 60)]. Les États membres veillent à ce que tous les critères de recherche visés à l’article 15 du règlement VIS soient pleinement utilisés afin d’éviter les faux rejets et les fausses identifications.

3. Lorsqu’il contrôle si le demandeur remplit les conditions d’entrée, le consulat vérifie:

a) que le document de voyage présenté n’est pas faux ou falsifié;

b) la justification de l’objet et des conditions du séjour envisagé fournie par le demandeur et si celui-ci dispose de moyens de subsistance suffisants, tant pour la durée du séjour envisagé que pour le retour dans son pays d’origine ou de résidence ou pour le transit vers un pays tiers dans lequel son admission est garantie, ou s’il est en mesure d’acquérir légalement ces moyens;

c) si le demandeur n’a pas fait l’objet d’un signalement dans le système d’information Schengen (SIS) aux fins de non-admission;

d) que le demandeur n’est pas considéré comme constituant une menace pour l’ordre public, la sécurité intérieure ou la santé publique, au sens de l’article 2, point 19, du code frontières Schengen, ou pour les relations internationales de l’un des États membres, et, en particulier, qu’il n’a pas fait l’objet, pour ces mêmes motifs, d’un signalement dans les bases de données nationales des États membres aux fins de non-admission;

e) le cas échéant, que le demandeur dispose d’une assurance maladie en voyage adéquate et valide.

4. Le consulat vérifie, le cas échéant, la durée des séjours antérieurs et envisagés, afin de s’assurer que l’intéressé n’a pas dépassé la durée maximale du séjour autorisé sur le territoire des États membres, indépendamment des séjours potentiels autorisés par un visa national de long séjour ou un titre de séjour délivré par un autre État membre.

5. L’appréciation des moyens de subsistance pour le séjour envisagé se fait en fonction de la durée et de l’objet du séjour et par référence aux prix moyens en matière d’hébergement et de nourriture dans l’État membre ou les États membres concernés, pour un logement à prix modéré, multipliés par le nombre de jours de séjour, sur la base des montants de référence arrêtés par les États membres conformément à l’article 34, paragraphe 1, point c) du code frontières Schengen. Une preuve de prise en charge ou une attestation d’accueil peut aussi constituer une preuve que le demandeur dispose de moyens de subsistance suffisants.

6. Lorsqu’il examine une demande de visa de transit aéroportuaire, le consulat vérifie en particulier:

a) que le document de voyage présenté n’est pas faux ou falsifié;

b) les points de départ et d’arrivée du ressortissant de pays tiers concerné et la cohérence de l’itinéraire et du transit aéroportuaire envisagés;

c) la preuve de la poursuite du voyage vers la destination finale.

7. L’examen d’une demande porte en particulier sur l’authenticité et la fiabilité des documents présentés ainsi que sur la véracité et la fiabilité des déclarations faites par le demandeur.

8. Au cours de l’examen d’une demande, les consulats peuvent, lorsque cela se justifie, inviter le demandeur à un entretien et lui demander de fournir des documents complémentaires.

9. Un refus de visa antérieur n’entraîne pas a priori le refus d’une nouvelle demande. Une nouvelle demande est examinée sur la base de toutes les informations disponibles.»

8 Aux termes de l’article 34 du code des visas:

«1. Un visa est annulé s’il s’avère que les conditions de délivrance du visa n’étaient pas remplies au moment de la délivrance, notamment s’il existe des motifs sérieux de penser que le visa a été obtenu de manière frauduleuse. Un visa est en principe annulé par les autorités compétentes de l’État membre de délivrance. Un visa peut être annulé par les autorités compétentes d’un autre État membre, auquel cas les autorités de l’État membre de délivrance en sont informées.

2. Un visa est abrogé s’il s’avère que les conditions de délivrance ne sont plus remplies. Un visa est en principe abrogé par les autorités compétentes de l’État membre de délivrance. Un visa peut être abrogé par les autorités compétentes d’un autre État membre, auquel cas les autorités de l’État membre de délivrance en sont informées.

3. Un visa peut être abrogé à la demande de son titulaire. Les autorités compétentes de l’État membre de délivrance sont informées de cette abrogation.

4. L’incapacité du titulaire du visa de produire, à la frontière, un ou plusieurs des justificatifs visés à l’article 14, paragraphe 3, ne conduit pas automatiquement à une décision d’annulation ou d’abrogation du visa.

5. Si un visa est annulé ou abrogé, un cachet portant la mention ‘ANNULÉ’ ou ‘ABROGÉ’ y est apposé et l’élément optiquement variable de la vignette-visa, l’élément de sécurité ‘effet d’image latente’ ainsi que le terme ‘visa’ sont alors invalidés en étant biffés.

6. La décision d’annulation ou d’abrogation et ses motivations sont communiquées au demandeur au moyen du formulaire type figurant à l’annexe VI.

7. Les titulaires dont le visa a été annulé ou abrogé peuvent former un recours contre cette décision, à moins que le visa n’ait été abrogé à la demande de son titulaire, conformément au paragraphe 3. Ces recours sont intentés contre l’État membre qui a pris la décision sur l’annulation ou l’abrogation, conformément à la législation nationale de cet État membre. Les États membres fournissent aux demandeurs les informations relatives aux voies de recours, comme indiqué à l’annexe VI.

8. Les informations relatives aux visas annulés ou abrogés sont enregistrées dans le VIS conformément à l’article 13 du règlement VIS.»

9 Il ressort de l’article 58, paragraphe 5, du code des visas, que les paragraphes 6 et 7 de l’article 34 de ce règlement ne trouvent à s’appliquer que depuis le 5 avril 2011. Entre le 5 avril 2010, date à laquelle le code des visas est entré en vigueur, et le 5 avril 2011, le point 2.4 de la cinquième partie des instructions consulaires communes adressées aux représentants diplomatiques et consulaires de carrière (JO 2005, C 326, p. 1) renvoyait, en cas de refus de visa, aux voies de recours prévues par le droit national de la partie contractante.

La décision-cadre 2002/946/JAI

10 L’article 1er, paragraphe 1, de la décision-cadre 2002/946/JAI du Conseil, du 28 novembre 2002, visant à renforcer le cadre pénal pour la répression de l’aide à l’entrée, au transit et au séjour irréguliers (JO L 328, p. 1), prévoit que chaque État membre prend les mesures nécessaires pour assurer que les infractions visées aux articles 1er et 2 de la directive 2002/90/CE du Conseil, du 28 novembre 2002, définissant l’aide à l’entrée, au transit et au séjour irréguliers (JO L 328, p. 17), fassent l’objet de sanctions pénales effectives, proportionnées et dissuasives susceptibles de donner lieu à l’extradition.

11 Selon l’article 4, paragraphe 1, sous a), de cette décision-cadre, chaque État membre prend les mesures nécessaires pour établir sa compétence pour les infractions visées à l’article 1er, paragraphe 1, de ladite décision-cadre et commises en tout ou en partie sur son territoire.

12 L’article 7, paragraphe 1, de la même décision-cadre, énonce:

«Si un État membre est informé d’une infraction visée à l’article 1er, paragraphe 1, qui constitue une infraction à la législation d’un autre État membre relative à l’entrée ou au séjour des étrangers, il en informe ce dernier.»

La directive 2002/90

13 L’article 1er, paragraphe 1, de la directive 2002/90 dispose:

«Chaque État membre adopte des sanctions appropriées:

a) à l’encontre de quiconque aide sciemment une personne non ressortissante d’un État membre à pénétrer sur le territoire d’un État membre ou à transiter par le territoire d’un tel État, en violation de la législation de cet État relative à l’entrée ou au transit des étrangers;

b) à l’encontre de quiconque aide sciemment, dans un but lucratif, une personne non ressortissante d’un État membre à séjourner sur le territoire d’un État membre en violation de la législation de cet État relative au séjour des étrangers.»

14 Il résulte de l’article 3 de ladite directive que chaque État membre prend les mesures nécessaires pour assurer que les infractions visées aux articles 1er et 2 fassent l’objet de sanctions effectives, proportionnées et dissuasives.

La directive 2008/115/CE

15 L’article 3 de la directive 2008/115/CE, du Parlement européen et du Conseil, du 16 décembre 2008, relative aux normes et procédures communes applicables dans les États membres au retour des ressortissants de pays tiers en séjour irrégulier (JO L 348, p. 98), prévoit:

«Aux fins de la présente directive, on entend par:

[…]

2) ‘séjour irrégulier’: la présence sur le territoire d’un État membre d’un ressortissant d’un pays tiers qui ne remplit pas, ou ne remplit plus, les conditions d’entrée énoncées à l’article 5 du code frontières Schengen, ou d’autres conditions d’entrée, de séjour ou de résidence dans cet État membre;

[…]»

La réglementation nationale

16 L’article 4, paragraphe 1, point 1, de la loi relative au séjour, au travail et à l’intégration des étrangers sur le territoire fédéral (Gesetz über den Aufenthalt, die Erwerbstätigkeit und die Integration von Ausländern im Bundesgebiet, ci-après l’«Aufenthaltsgesetz») énonce:

«Pour entrer et séjourner sur le territoire fédéral, les étrangers ont besoin d’un titre de séjour, à moins que le droit de l’Union européenne ou une disposition réglementaire n’en dispose autrement ou à moins qu’un droit de séjour ne découle de l’accord du 12 septembre 1963 créant une association entre la Communauté économique européenne et la Turquie (BGB1. 1964 II, p. 509) (accord d’association CEE-Turquie). Les titres de séjour prennent la forme

1) d’un visa […]»

17 L’article 95 de l’Aufenthaltsgesetz, prévoit, en ce qui concerne les sanctions:

«1. Est passible d’une peine de privation de liberté jusqu’à un an ou d’une amende quiconque

[…]

2) séjourne sur le territoire fédéral sans avoir de titre de séjour au sens de l’article 4, paragraphe 1, première phrase,

a) s’il pèse sur lui une obligation exécutoire de quitter le territoire,

b) si aucun délai de départ ne lui a été accordé ou si ce délai a expiré

c) et s’il n’est pas sursis à son expulsion,

3) entre sur le territoire fédéral en violation de l’article 14, paragraphe 1, point 1 ou point 2,

[…]

6. Dans les cas de figure visés au paragraphe 1, points 2 et 3, le fait d’agir sur le fondement d’un titre de séjour obtenu frauduleusement par menaces, corruption ou collusion ou en faisant des déclarations inexactes ou incomplètes doit être assimilé au fait d’agir sans disposer du titre de séjour nécessaire.»

18 L’article 96 de l’Aufenthaltsgesetz, intitulé «Aide à l’immigration illégale», dispose:

«1. Est passible d’une peine de privation de liberté jusqu’à cinq ans ou d’une amende quiconque incite ou aide autrui

1) à commettre un acte sanctionné par l’article 95, paragraphe 1, point 3, ou paragraphe 2, point 1, sous a), et

a) en tire un avantage ou se fait promettre un tel avantage ou

b) agit de façon répétée ou au bénéfice de plusieurs étrangers ou

2) à commettre un acte sanctionné par l’article 95, paragraphe 1, point 1 ou point 2, paragraphe 1a ou paragraphe 2, point 1, sous b), ou point 2 et en tire un avantage patrimonial ou se fait promettre un tel avantage.

2. Est passible d’une peine de privation de liberté de six mois jusqu’à dix ans quiconque, dans les cas visés au paragraphe 1,

1) agit dans un but lucratif,

2) agit au sein d’une bande constituée en vue de la commission continue de tels actes,

[…]

4. Le paragraphe 1, point 1, sous a), et point 2, le paragraphe 2, points 1, 2 et 5, et le paragraphe 3 s’appliquent à la violation de dispositions relatives à l’entrée et au séjour d’étrangers sur le territoire des États membres de l’Union européenne ou d’un État Schengen, si

1) ces dispositions correspondent aux actes visés à l’article 95, paragraphe 1, point 2 ou 3, ou paragraphe 2, point 1 et

2) l’auteur de l’acte soutient un étranger qui n’a pas la nationalité d’un État membre de l’Union européenne ou d’un autre État partie à l’accord sur l’Espace économique européen.

[…]»

19 L’article 97, paragraphe 2, de l’Aufenthaltsgesetz, intitulé «Aide à l’immigration illégale entraînant la mort; Aide à l’immigration illégale commise à titre lucratif et en bande organisée», dispose:

«Est passible d’une peine de privation de liberté d’un an jusqu’à dix ans quiconque, dans les cas visés à l’article 96, paragraphe 1, le cas échéant en combinaison avec l’article 96, paragraphe 4, agit dans un but lucratif au sein d’une bande constituée en vue de la commission continue de tels actes.»

Le litige au principal et la question préjudicielle

20 M. Vo, ressortissant vietnamien, a été poursuivi en Allemagne dans le cadre d’une procédure pénale pour des faits relatifs à l’aide à l’immigration illégale. Ces poursuites ont abouti à sa condamnation, par le Landgericht Berlin, pour quatre délits d’aide à l’immigration illégale commis dans un but lucratif et en bande organisée, à quatre ans et trois mois de privation de liberté toutes peines confondues.

21 Le défendeur était membre de bandes organisées vietnamiennes qui aidaient des ressortissants vietnamiens à entrer illégalement en Allemagne.

22 L’une de ces bandes avait pour modus operandi de faire croire à l’ambassade de Hongrie au Viêt Nam que des ressortissants vietnamiens faisaient partie de groupes de voyages touristiques composés de 20 à 30 personnes, alors que le but était de les introduire sur le territoire de l’Union contre paiement de 11 000 à 15 000 USD. Pour préserver les apparences, les voyages se déroulaient conformément au programme touristique, durant les premiers jours, puis les intéressés étaient, suivant le plan préalablement établi, transportés vers différents pays de destination, principalement vers l’Allemagne.

23 L’autre bande profitait du fait que le Royaume de Suède permettait à des ressortissants vietnamiens de séjourner dans l’espace Schengen pendant quelques mois s’ils étaient munis de visas de travail accordés pour la cueillette de baies. Lors de la demande de visa, il était donné à penser aux autorités compétentes que les demandeurs voulaient travailler. En réalité, une fois le visa de travail obtenu, dès leur arrivée en Suède, ces ressortissants vietnamiens passaient en Allemagne. M. Vo a été accusé d’avoir contribué à ces faits, en ayant reçu, en échange de ses services, une somme comprise entre 500 et 2 000 euros par intervention.

24 Certains de ces ressortissants vietnamiens ont été retrouvés sur le territoire allemand alors qu’ils cherchaient à s’y installer et à y travailler.

25 Le Landgericht Berlin a jugé que le défendeur s’est rendu coupable à quatre reprises du délit d’aide à l’immigration illégale commis dans un but lucratif et en bande organisée au sens de l’article 97, paragraphe 2, de l’Aufenthaltsgesetz, lu conjointement avec les articles 96, paragraphe 1, point 1, sous a) et b), 95, paragraphe 1, point 3, 96, paragraphe 1, point 2, et 95, paragraphe 1, point 2, de cette loi.

26 Selon cette juridiction, pour que le délit soit constitué, les personnes infiltrées doivent être entrées sur le territoire ou y avoir séjourné de façon irrégulière. Le fait que ces personnes disposaient formellement d’un visa ne constituerait pas un obstacle à l’imposition de sanctions à l’encontre du passeur, dans la mesure où l’obtention frauduleuse du titre de séjour à la suite de fausses déclarations équivaudrait à agir sans disposer du titre de séjour requis.

27 Le défendeur a introduit un recours en «Revision» devant le Bundesgerichtshof contre la condamnation prononcée par le Landgericht Berlin, invoquant une violation de droit matériel, sans aucune autre précision.

28 La juridiction de renvoi estime que les conditions énoncées à l’article 95, paragraphe 6, de l’Aufenthaltsgesetz sont remplies, puisque les personnes qu’il s’agissait d’aider à immigrer ont délibérément menti aux agents des ambassades de Hongrie et de Suède en déclarant qu’elles voulaient entrer dans l’espace Schengen pour un séjour touristique ou pour y travailler provisoirement, alors que, en réalité, elles avaient planifié, dès le départ, de passer en Allemagne, ce qui aurait exclu la délivrance des visas, lesquels n’ont été délivrés que parce que les agents responsables ont été induits en erreur.

29 Dans ces conditions, le Bundesgerichtshof a décidé de surseoir à statuer et de poser à la Cour la question préjudicielle suivante:

«Les dispositions relatives à la délivrance et à l’annulation d’un visa uniforme figurant aux articles 21 et 34 du règlement [n° 810/2009] doivent-elles être interprétées en ce sens qu’elles s’opposent à ce que des dispositions nationales rendent l’aide à l’immigration illégale passible de sanctions pénales dans des cas où les personnes en cause disposent certes d’un visa, mais ont obtenu celui-ci frauduleusement, en trompant les autorités compétentes d’un autre État membre sur le véritable but de leur voyage?»

Sur la procédure d’urgence

30 Le Bundesgerichtshof a demandé que le présent renvoi préjudiciel soit soumis à la procédure d’urgence prévue à l’article 104 ter du règlement de procédure de la Cour.

31 Cette juridiction a motivé sa demande en faisant valoir que M. Vo, condamné à une peine d’emprisonnement de quatre ans et trois mois pour aide à l’immigration illégale commise dans un but lucratif et en bande organisée, se trouve en détention provisoire de façon continue depuis le 1er janvier 2011, et que, si la Cour devait répondre par l’affirmative à la question préjudicielle, M. Vo ne pourrait plus faire l’objet de poursuites pénales et sa détention serait dès lors sans fondement.

32 Sur proposition du juge rapporteur, l’avocat général entendu, la deuxième chambre de la Cour a décidé de faire droit à la demande de la juridiction de renvoi visant à soumettre le renvoi préjudiciel à la procédure d’urgence.

Sur la question préjudicielle

33 Par sa question, la juridiction de renvoi demande, en substance, si les articles 21 et 34 du code des visas doivent être interprétés en ce sens qu’ils s’opposent à ce que des dispositions nationales rendent l’aide à l’immigration illégale passible de sanctions pénales dans des cas où les personnes infiltrées, ressortissantes de pays tiers, disposent d’un visa qu’elles ont obtenu frauduleusement, en trompant les autorités compétentes de l’État membre de délivrance sur le véritable but de leur voyage, sans que ce visa ait été préalablement annulé.

34 À titre liminaire, il y a lieu de relever que l’adoption, par le code des visas, des mesures relatives au franchissement des frontières extérieures et aux procédures et conditions de délivrance des visas, par les États membres, s’inscrit dans l’objectif de mettre en place, progressivement, un espace de liberté, de sécurité et de justice, conformément à l’article 67 TFUE.

35 La finalité du code des visas, selon son troisième considérant, est la création d’un système à multiples composantes destiné à faciliter les voyages effectués de façon légitime et à lutter contre l’immigration clandestine, par une plus grande harmonisation des législations nationales et des modalités de délivrance des visas dans les missions consulaires locales.

36 L’harmonisation poursuivie par ce code a pour objet les visas de court séjour, en application de l’acquis de Schengen.

37 L’article 21, paragraphe 1, du code des visas prévoit que, dans le cadre de l’examen, par le consulat compétent, d’une demande de visa uniforme, le respect par le demandeur des conditions d’entrée énoncées à l’article 5, paragraphe 1, points a, c, d et e, du code frontières Schengen est vérifié et une attention particulière est accordée à l’évaluation du risque d’immigration illégale ou du risque pour la sécurité des États membres que présenterait le demandeur ainsi qu’à sa volonté de quitter le territoire des États membres avant la date d’expiration du visa demandé.

38 Aux termes de l’article 34, paragraphe 1, du code des visas, s’il existe des motifs sérieux de penser qu’un visa a été obtenu de manière frauduleuse, celui-ci est annulé. L’annulation est, en principe, effectuée par les autorités compétentes de l’État membre de délivrance, mais elle peut également l’être par les autorités compétentes d’un autre État membre, auquel cas les autorités de l’État membre de délivrance en sont informées.

39 Le fait que les autorités compétentes d’un État membre autre que l’État membre de délivrance puissent décider de l’annulation des visas a pour but de répondre à des situations dans lesquelles, lorsque le voyage est entamé, le visa se révèle invalide ou inefficace en raison de son émission frauduleuse ou au motif que des conditions de délivrance n’étaient pas remplies.

40 Toutefois, si l’annulation est, en principe, obligatoire en ce qui concerne les autorités de l’État membre de délivrance, elle apparaît facultative pour les autorités d’un autre État membre, ainsi que l’indique l’utilisation du verbe «pouvoir» par le législateur de l’Union.

41 Ce constat conduit à vérifier si les dispositions nationales rendant l’aide à l’immigration illégale passible de sanctions pénales peuvent prendre en compte, en tant qu’éléments constitutifs du délit, l’entrée et le séjour irréguliers des personnes infiltrées, sans que les visas accordés à celles-ci aient été préalablement annulés.

42 Le code des visas régit les conditions de délivrance, d’annulation ou d’abrogation des visas, mais il ne contient pas de règles prévoyant de sanctions pénales en cas de violation de ces conditions. Néanmoins, le formulaire de demande de visa figurant à l’annexe 1 du code des visas contient une rubrique par laquelle le demandeur est informé que toute fausse déclaration entraînera notamment l’annulation du visa et pourra entraîner des poursuites pénales.

43 En outre, les articles 1er, paragraphe 1, et 4, paragraphe 1, sous a, de la décision-cadre 2002/946/JAI et les articles 1er, paragraphe 1, et 3 de la directive 2002/90 obligent chaque État membre à prendre les mesures nécessaires pour assurer que les infractions visées fassent l’objet de sanctions pénales effectives, proportionnées et dissuasives et pour établir sa compétence en ce qui concerne les infractions commises, en tout ou en partie, sur son territoire.

44 Il résulte des points qui précèdent que non seulement le droit de l’Union ne s’oppose pas à ce qu’un État membre introduise des poursuites pénales à l’encontre de toute personne qui aura sciemment aidé un ressortissant d’un État tiers à pénétrer sur le territoire de cet État membre en violation des dispositions applicables, mais il impose expressément à l’État membre concerné d’engager de telles poursuites.

45 Les États membres sont, de la sorte, confrontés à deux obligations. La première est de ne pas agir de façon à entraver la circulation des titulaires de visas sans que l’annulation de ceux-ci ait eu lieu en bonne et due forme. La seconde est de prévoir et de mettre en œuvre des sanctions effectives, proportionnées et dissuasives contre les auteurs des infractions visées par la décision-cadre 2002/946/JAI et la directive 2002/90, notamment les passeurs.

46 Ces obligations doivent être poursuivies, en conférant aux dispositions du droit de l’Union tout leur effet utile (voir, en ce sens, arrêts du 9 mars 1978, Simmenthal, 106/77, Rec. p. 629, point 24, ainsi que du 22 juin 2010, Melki et Abdeli, C‑188/10 et C‑189/10, Rec. p. I‑5667, point 43). En cas de besoin, les juridictions nationales sont tenues de chercher des solutions de concordance pratique relativement à des normes dont l’application risquerait de mettre en cause l’effectivité ou la cohérence de la réglementation de l’Union.

47 Or, la procédure pénale, par sa nature même, pouvant comporter le secret de l’instruction et l’urgence des actes, ne saurait toujours se conformer à une exigence d’annulation préalable des visas, par les autorités compétentes.

48 Eu égard à ce qui précède, il convient de répondre à la question posée que les articles 21 et 34 du règlement n° 810/2009 doivent être interprétés en ce sens qu’ils ne s’opposent pas à ce que des dispositions nationales rendent l’aide à l’immigration illégale passible de sanctions pénales dans des cas où les personnes infiltrées, ressortissantes de pays tiers, disposent d’un visa qu’elles ont obtenu frauduleusement, en trompant les autorités compétentes de l’État membre de délivrance sur le véritable but de leur voyage, sans que ce visa ait été préalablement annulé.

Sur les dépens

49 La procédure revêtant, à l’égard des parties au principal, le caractère d’un incident soulevé devant la juridiction de renvoi, il appartient à celle-ci de statuer sur les dépens. Les frais exposés pour soumettre des observations à la Cour, autres que ceux desdites parties, ne peuvent faire l’objet d’un remboursement.

Par ces motifs,

la Cour (deuxième chambre) dit pour droit:

Les articles 21 et 34 du règlement (CE) n° 810/2009 du Parlement européen et du Conseil, du 13 juillet 2009, établissant un code communautaire des visas (code des visas), doivent être interprétés en ce sens qu’ils ne s’opposent pas à ce que des dispositions nationales rendent l’aide à l’immigration illégale passible de sanctions pénales dans des cas où les personnes infiltrées, ressortissantes de pays tiers, disposent d’un visa qu’elles ont obtenu frauduleusement, en trompant les autorités compétentes de l’État membre de délivrance sur le véritable but de leur voyage, sans que ce visa ait été préalablement annulé.

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8 / 19
francese

Provvedimento del 08/02/2011 Seconda Sezione
Caso: SEFEROVIC contro ITALIA.
Numero del Ricorso: 12921/04
Presidente: Françoise Tulkens.
Caso di Rilievo
Sentenza
Riferimento al file originario – 255ms11 Seferovic c. Italia.doc

Questa sentenza diventerà definitiva alle condizioni definite nell’articolo 44 § 2 della Convenzione. Potrà subire modifiche di forma
La Corte europea dei diritti dell’uomo (seconda sezione), riunita in una camera composta da:
Françoise Tulkens, presidente,
Danutė Jočienė,
Dragoljub Popović,
András Sajó,
Nona Tsotsoria,
Kristina Pardalos,
Guido Raimondi, giudici,
e da Stanley Naismith, cancelliere di sezione,
Dopo aver deliberato in camera di consiglio il 18 gennaio 2011,
Pronuncia la seguente sentenza, adottata in tale data:
PROCEDURA
1. All’origine della causa vi è un ricorso (n. 12921/04) presentato contro la Repubblica italiana. La ricorrente, la sig.ra Mediha Seferovic («la ricorrente»), ha adito la Corte il 7 aprile 2004 in applicazione dell’articolo 34 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali («la Convenzione»).
2. La ricorrente è rappresentata dagli avvocati N. Paoletti e A. Mari del foro di Roma. Il governo italiano («il Governo») è rappresentato dal suo agente E. Spatafora, e dal suo ex co-agente, F. Crisafulli.
3. La ricorrente sostiene in particolare che la sua detenzione è stata irregolare e che non può ottenere alcun risarcimento a livello interno.
4. Il 30 luglio 2007 il presidente della seconda sezione ha deciso di informare il Governo dei due motivi di ricorso relativi all’articolo 5 della Convenzione. Come permette l’articolo 29 § 1 della Convenzione, ha inoltre deciso che la camera si sarebbe pronunciata nel contempo sulla ricevibilità e sul merito.
IN FATTO
I. LE CIRCOSTANZE DEL CASO DI SPECIE
5. La ricorrente è nata nel 1979. Al momento della presentazione del ricorso era residente a Roma. Si tratta di una persona rom originaria della Bosnia-Erzegovina.
6. La ricorrente si era stabilita con la sua famiglia nel campo nomadi detto «Casilino 700» e successivamente in quello chiamato «Casilino 900», nel quale fu censita dal comune di Roma nel 1995. Nella scheda di censimento non si faceva riferimento ad alcun documento di identità. Il marito della ricorrente si faceva garante dell’identità di quest’ultima.
7. Temendo la discriminazione e la persecuzione in caso di ritorno in Bosnia-Erzegovina, il 14 settembre 2000 la ricorrente chiese alle autorità italiane lo status di rifugiata.
8. Dal fascicolo risulta che la domanda non fu trasmessa alla commissione competente per decidere sulla domanda, poiché presentava dei vizi di forma ai sensi dell’articolo 1 della legge n. 39/1990 e della circolare del Ministro dell’Interno n. 10/1991. In particolare, la domanda non era datata, non conteneva il mandato per l’avvocato presso cui la ricorrente intendeva eleggere domicilio, la sua firma era scritta in lettere maiuscole e non era autenticata dall’avvocato.
9. Il 26 settembre 2003 la ricorrente diede alla luce un figlio. Il 6 novembre 2003 quest’ultimo fu condotto all’ospedale dai genitori e decedette. La ricorrente e il marito furono accompagnati al commissariato di polizia, dove ricevettero un ordine di presentarsi entro tre giorni all’ufficio di polizia giudiziaria, in quanto non disponevano di documenti di identità.
10. La ricorrente si rivolse all’avvocato che la rappresenta dinanzi alla Corte. Questi avvisò la polizia che la ricorrente poteva recarsi al commissariato solo l’11 novembre 2003. Egli chiese anche che la ricorrente non fosse espulsa, malgrado il fatto che la polizia avesse constatato il 6 novembre 2003 che l’interessata non era in possesso di un permesso di soggiorno.
11. L’11 novembre 2003 la ricorrente si recò al commissariato di polizia. Una volta arrivata sul posto, i funzionari di polizia le notificarono un decreto di espulsione, motivato dal fatto che si trovava in Italia in situazione irregolare, nonché un decreto che ordinava che fosse posta nel centro di soggiorno temporaneo e di assistenza di Ponte Galeria («il centro di soggiorno») ai fini della sua espulsione. Nel corso della stessa giornata, la ricorrente fu trasferita al centro di soggiorno. L’avvocato della ricorrente notificò un ricorso contro il ministero dell’interno e la commissione competente in materia di rifugiati.
12. Il 13 novembre 2003 il tribunale di Roma sentì la ricorrente, con l’assistenza di un avvocato e di un interprete, e convalidò il decreto che disponeva la sua collocazione nel centro di soggiorno. Lo stesso giorno, la ricorrente presentò dinanzi al tribunale di Roma un ricorso per contestare la legalità del decreto di espulsione e del decreto di convalida del suo trattenimento al centro di soggiorno.
13. Per quanto riguarda le condizioni di salute della ricorrente, dal fascicolo risulta che, il 17 novembre 2003, essa fu visitata da un medico ginecologo, che riscontrò una vulvo-vaginite. Fu visitata anche da uno psicologo, che ritenne che la ricorrente non presentava né sintomi psicopatologici né disturbi dell’umore. Il 18 novembre 2003 la Croce Rossa del centro di soggiorno certificò che, sulla base degli esami medici effettuati il giorno precedente su richiesta delle autorità, lo stato di salute della ricorrente era compatibile con la detenzione. Il medico del centro di soggiorno certificò il 22 novembre 2003 che lo stato di salute della ricorrente era buono e che essa prendeva quotidianamente del metronidazolo e del clotrimazolo per una vulvo-vaginite e, talvolta, degli antinfiammatori e dei calmanti che lei stessa chiedeva. Il 27 novembre 2003 il direttore della Croce Rossa inviò all’avvocato della ricorrente un certificato in cui indicava che la ricorrente prendeva delle benzodiazepine previo parere del medico di guardia.
14. Il 3 dicembre 2003 il tribunale autorizzò la proroga di trenta giorni della detenzione della ricorrente presso il centro in questione, in quanto la procedura di identificazione della stessa doveva essere completata.
15. Con decisione in data 24 dicembre 2003, depositata in cancelleria l’8 gennaio 2004, il tribunale ordinò la sospensione del decreto di espulsione e la liberazione immediata della ricorrente. Quest’ultima fu liberata il 24 dicembre 2003.
16. Con tale decisione, il tribunale accolse il ricorso della ricorrente e annullò i due decreti impugnati in quanto viziati da illegalità per i motivi seguenti. In primo luogo, il tribunale ritenne che, malgrado i vizi di forma che inficiavano la sua domanda del 14 settembre 2000, la ricorrente aveva chiesto lo status di rifugiata ed aveva eletto domicilio presso uno studio legale. L’amministrazione non aveva comunicato a questo indirizzo la propria decisione di rigetto; per questo motivo la ricorrente aveva creduto in buona fede che la sua domanda fosse sempre pendente e non aveva potuto impugnare la decisione di rigetto. Quando la ricorrente si era recata in questura, le era stato notificato un decreto di espulsione. Il tribunale ritenne che su questo punto vi fosse illegalità. Inoltre, il ritorno in Bosnia-Erzegovina presentava dei rischi per la ricorrente. In ogni caso, la collocazione al centro e il trattenimento nello stesso erano contrari alla legge. Di fatto, conformemente all’articolo 19 della legge sull’immigrazione n. 286 del 1998, l’ordine di espulsione nei confronti della ricorrente avrebbe dovuto essere sospeso fino a sei mesi dopo il parto dell’ultimogenito della ricorrente, ossia fino al 26 marzo 2004, dato che quest’ultima aveva dato alla luce il suo ultimo figlio il 26 settembre 2003, e ciò indipendentemente dal fatto che il neonato fosse deceduto.
17. Il 23 gennaio 2004 la ricorrente presentò dinanzi alla questura di Roma una richiesta di permesso di soggiorno.
18. Il 10 marzo 2006 il tribunale civile di Roma accordò alla ricorrente lo status di rifugiata.
II. IL DIRITTO E LA PRASSI INTERNI PERTINENTI
A. Le disposizioni in materia di espulsione e trattenimento di stranieri
19. Le disposizioni nazionali sull’immigrazione applicabili nel caso di specie sono essenzialmente contenute nel decreto legislativo n. 286 del 1998 (Testo unico sull’immigrazione). Ai sensi dell’articolo 13 (espulsione amministrativa), il prefetto ordina l’espulsione di uno straniero quando quest’ultimo:
a) è entrato clandestinamente nel territorio dello Stato;
b) si è trattenuto nel territorio dello Stato senza un titolo di soggiorno valido
c) è sospettato di dedicarsi ad attività illegali che permettano l’applicazione di misure di prevenzione ai sensi della legge n. 1423 del 1956 o n. 575 del 1965.
Qualsiasi espulsione viene disposta con decreto motivato che deve essere redatto in italiano e in una lingua straniera comprensibile all’interessato o, quando ciò non sia possibile, nella lingua francese, inglese o spagnola. Il decreto deve indicare la possibilità di impugnazione dinanzi all’autorità giudiziaria competente.
Il decreto di espulsione può limitarsi a un’intimazione a lasciare il territorio entro un termine determinato e, una volta scaduto tale termine, lo straniero che si è trattenuto viene accompagnato alla frontiera dalla forza pubblica.
20. L’espulsione è seguita da una decisione di accompagnamento immediato alla frontiera in alcuni casi, in particolare quando l’interessato è sospettato di essere dedito ad attività illegali che permettono l’applicazione di misure di prevenzione, o quando l’interessato è privo di un valido documento attestante la sua identità, purché vi siano delle circostanze obiettive che facciano temere che egli si sottragga all’esecuzione dell’ordine di espulsione.
Quando è impossibile eseguire con immediatezza la decisione di accompagnamento alla frontiera, come ad esempio nel caso in cui sia necessario procedere ad accertamenti supplementari in ordine alla nazionalità o all’identità dello straniero, ovvero nel caso in cui debbano essere acquisiti i documenti di viaggio per quest’ultimo, lo straniero può essere trattenuto nel centro di permanenza temporanea più vicino. La convalida motivata da parte del giudice è necessaria e deve avvenire entro quarantotto ore. La procedura di convalida si svolge in camera di consiglio. Lo straniero può essere sentito; deve essere rappresentato da un avvocato. A seguito della convalida, lo straniero può essere trattenuto per trenta giorni. Tale termine può essere prorogato di ulteriori trenta giorni, su richiesta della polizia, quando è particolarmente difficile verificare l’identità o la nazionalità dello straniero o acquisire i documenti necessari per il viaggio di quest’ultimo (articolo 14).
21. Lo straniero viene normalmente espulso verso lo Stato di origine o, laddove ciò non sia possibile, verso lo Stato di provenienza. Ai sensi dell’articolo 19 del decreto legislativo l’espulsione non può mai essere ordinata verso uno Stato in cui l’interessato possa essere oggetto di persecuzione per motivi di razza, di sesso, di lingua, di cittadinanza, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali o sociali; l’espulsione non può essere disposta nemmeno verso uno Stato in cui l’interessato possa rischiare di essere rinviato verso un altro Stato nel quale non sia protetto dalla persecuzione.
22. Non è consentita l’espulsione (a meno che non siano rientrati in Italia dopo l’espulsione e contrariamente all’interdizione dal territorio) nei confronti degli stranieri appartenenti alle categorie seguenti:
– i minori di anni diciotto, salvo il diritto a seguire i genitori espulsi;
– le persone in possesso della carta di soggiorno (salvo il disposto dell’articolo 9 del decreto legislativo);
– le persone conviventi con parenti entro il quarto grado di nazionalità italiana;
– le donne in stato di gravidanza o nei sei mesi successivi alla nascita del figlio cui provvedono.
23. Avverso il decreto di espulsione (articolo 13 del decreto legislativo) può essere presentato ricorso al pretore, entro cinque giorni dalla comunicazione del decreto o del provvedimento di espulsione. Il termine è di trenta giorni qualora l’espulsione sia eseguita con accompagnamento immediato alla frontiera. Il ricorso può essere presentato anche per il tramite della rappresentanza diplomatica o consolare italiana nello Stato di destinazione. La decisione del pretore può essere impugnata dinanzi alla Corte di cassazione (articolo 13bis).
24. Ai sensi dell’articolo 11 del regolamento di attuazione del decreto legislativo n. 286 del 1998, quando è stata presentata una domanda di asilo, viene accordato un permesso di soggiorno per tutta la durata della procedura.
B. Le disposizioni in materia di riparazione per l’ingiusta detenzione
25. L’articolo 314 del codice di procedura penale (CPP) prevede un diritto a una riparazione per la custodia cautelare detta «ingiusta» in due casi distinti: quando, all’esito del procedimento penale sul merito, l’imputato viene prosciolto, o quando viene stabilito con una decisione irrevocabile che la persona sospetta è stata posta o mantenuta in stato di custodia cautelare senza che sussistessero le condizioni previste dagli articoli 273 e 280 del CPP.
26. All’epoca dei fatti, non era prevista alcuna riparazione per una detenzione disposta al di fuori di un procedimento penale e risultata illegale. La Corte di cassazione (si veda la sentenza della sesta sezione n. 1648 del 22 aprile 1997 nella causa Priebke), ha inoltre precisato che il principio di riparazione per l’ingiusta detenzione non si applica alla detenzione ai fini estradizionali.
27. La legge n. 117 del 1988 disciplina l’azione in responsabilità civile dei magistrati. L’articolo 2 § 3 d) della legge prevede che la responsabilità di un magistrato può essere chiamata in causa quando questi ha emesso – con dolo o colpa grave – un provvedimento concernente la libertà della persona fuori dei casi consentiti dalla legge. Ai sensi dell’articolo 4, l’azione può essere intentata quando siano stati esperiti i mezzi ordinari di impugnazione o gli altri rimedi previsti avverso i provvedimenti cautelari e sommari, e comunque quando non siano più possibili la modifica o la revoca del provvedimento.
28. L’applicabilità diretta dell’articolo 5 § 5 della Convenzione è stata costantemente negata dai giudici italiani. Per esempio, nella sentenza n. 2823 del 20 maggio 1991 (causa Cruciani), la seconda sezione della Corte di cassazione sosteneva, rispetto all’articolo 5 § 5 della Convenzione, che tale disposizione si limitava a prevedere genericamente un diritto a una riparazione, in modo tale che ne derivava soltanto un obbligo per gli Stati di attuarlo con i loro strumenti interni e la non applicabilità diretta della disposizione in questione.
IN DIRITTO
I. SULLA VIOLAZIONE ADDOTTA DELL’ARTICOLO 5 § 1 f) DELLA CONVENZIONE
29. La ricorrente sostiene che il periodo trascorso nel centro di permanenza temporanea per stranieri è contrario all’articolo 5 § 1 f) della Convenzione, che recita:
«1. Ogni persona ha diritto alla libertà e alla sicurezza. Nessuno può essere privato della libertà, se non nei casi seguenti e nei modi previsti dalla legge:
(…)
f) se si tratta dell’arresto o della detenzione regolari di una persona per impedirle di entrare illegalmente nel territorio, oppure di una persona contro la quale è in corso un procedimento di espulsione o di estradizione.
(…)»
30. Il Governo contesta questa tesi.
A. Sulla ricevibilità
31. La Corte constata che questo motivo di ricorso non è manifestamente infondato ai sensi dell’articolo 35 § 3 della Convenzione. Essa rileva peraltro che lo stesso non incorre in nessun altro motivo di irricevibilità. È dunque opportuno dichiararlo ricevibile.
B. Sul merito
32. La ricorrente sostiene che la sua detenzione era irregolare e che si trattava di una misura sproporzionata. Essa sottolinea poi che la sua liberazione è intervenuta solo dopo quarantaquattro giorni di detenzione.
33. Il Governo osserva che la detenzione della ricorrente rientra nella sfera dell’articolo 5 § 1 f) della Convenzione, in quanto si tratta di una privazione della libertà personale ai fini di un’espulsione. Al momento della sua collocazione nel centro di permanenza temporanea, la ricorrente non aveva ottenuto lo status di rifugiata. Lo aveva chiesto per il tramite del marito, ma i vizi di forma che inficiavano la domanda erano tali che quest’ultima non aveva potuto essere presa in considerazione e non aveva avuto effetto. Questo è del resto confermato dal fatto che l’11 novembre 2003, il giorno in cui è stata collocata nel centro di permanenza temporanea, la ricorrente aveva citato in giudizio la commissione per il riconoscimento dello status di rifugiato. In ogni caso, l’articolo 5 § 1 f) si applica a qualsiasi straniero che si trovi già, materialmente, nel territorio nazionale, ma che non abbia ancora ottenuto un titolo di soggiorno regolare, anche se ha già richiesto un permesso di soggiorno o lo status di rifugiato, e anche se ha già ottenuto un’autorizzazione provvisoria (Saadi c. Regno Unito [GC], n. 13229/03, §§ 64-65, CEDU 2008 …).
34. La collocazione della ricorrente nel centro di permanenza temporanea è stata convalidata entro 48 ore dall’autorità giudiziaria, conformemente alla legge nazionale. La ricorrente ha potuto presentare ricorso dinanzi all’autorità giudiziaria per far verificare la legalità della sua privazione della libertà; tale verifica, condotta con diligenza e celerità dal giudice competente, ha portato alla sua liberazione prima dello scadere del termine di trattenimento autorizzato. La detenzione controversa ha avuto una durata globale inferiore al limite previsto dalla legge ed è stata limitata a un mese e tredici giorni. Tale durata si spiega con la necessità di verificare l’identità della ricorrente, la sua nazionalità (la ricorrente non aveva un passaporto), la sua situazione famigliare, il suo legame maritale, nonché di predisporre, se del caso, il mezzo di trasporto e i documenti necessari al suo rimpatrio. Peraltro, il tempo impiegato è stato prezioso ai fini dell’adozione delle decisioni giudiziarie favorevoli alla ricorrente. Anche per quanto attiene alla sua durata, la detenzione della ricorrente è conforme all’articolo 5 § 1 f) della Convenzione (Chahal c. Regno Unito, 15 novembre 1996, Recueil des arrêts et décisions 1996 V; Bogdanovski c. Italia, n. 72177/01, 14 dicembre 2006; Magnac c. Spagna, n. 74480/01, 28 gennaio 2003).
35.Peraltro, le autorità non hanno operato alcun artifizio per attirare la ricorrente in un agguato. Il fatto che la stessa abbia creduto che la convocazione in questura potesse essere legata alla sua domanda di status di rifugiata o alla morte del neonato non mette in causa la responsabilità dello Stato. Sotto questo profilo la presente causa si distingue da Čonka c. Belgio, (n. 51564/99, CEDU 2002 I). Quanto alle condizioni di detenzione della ricorrente, il Governo osserva infine che essa ha beneficiato di un controllo medico e che ha assunto dei calmanti su sua richiesta e previo parere del medico. Inoltre, la ricorrente poteva liberamente telefonare ai suoi famigliari.
36. Il Governo conclude che la detenzione della ricorrente è stata conforme alla Convenzione.
37. La Corte ricorda che, esigendo che una detenzione sia conforme alle «vie legali» e abbia un carattere regolare, l’articolo 5 § 1 della Convenzione rinvia essenzialmente alla legislazione nazionale e sancisce l’obbligo di osservarne sia le norme di merito che quelle di procedura. Per di più, esso esige che qualsiasi privazione della libertà sia conforme allo scopo dell’articolo 5: proteggere l’individuo dall’arbitrio (Amuur c. Francia, 25 giugno 1996, § 50, Recueil des arrêts et décisions 1996-III; Scott c. Spagna, 18 dicembre 1996, § 56, Recueil 1996-VI). Pertanto, ogni decisione presa dai giudici interni nella sfera di applicazione dell’articolo 5 deve essere conforme ai requisiti di procedura e di merito fissati da una legge preesistente. Se sono in primo luogo le autorità nazionali, in particolare i tribunali, a dover interpretare e applicare il diritto interno rispetto all’articolo 5 § 1, l’inosservanza del diritto interno comporta una violazione della Convenzione e la Corte può e deve verificare se tale diritto è stato rispettato (Benham c. Regno Unito, 10 giugno 1996, § 41, Recueil 1996-III; Giulia Manzoni c. Italia, 1° luglio 1997, § 21, Recueil 1997-IV; Assanidzé c. Georgia [GC], n. 71503/01, § 171, CEDU 2004-II).
Un periodo di detenzione è in linea di principio regolare se ha luogo in esecuzione di una decisione giudiziaria. La constatazione successiva di una inosservanza da parte del giudice non può ripercuotersi, nel diritto interno, sulla detenzione subita nell’intervallo. Per questo motivo gli organi della Convenzione si rifiutano sempre di accogliere ricorsi presentati da persone riconosciute colpevoli di reati e che prendono pretesto dal fatto che i giudici di appello hanno constatato che il verdetto di colpevolezza o la pena erano basati su errori di fatto o di diritto (Benham già cit., § 42).
La Corte ricorda infine che la conformità all’articolo 5 § 1 presuppone un legame«tra, da una parte, il motivo addotto per la privazione di libertà autorizzata e, dall’altra, il luogo e il regime di detenzione» (Mubilanzila Mayeka e Kaniki Mitunga c. Belgio, n. 13178/03, § 102, CEDU 2006-XI). Tale disposizione non esige che la detenzione di una persona contro la quale è in corso una procedura di espulsione sia considerata ragionevolmente necessaria, per esempio per impedirle di commettere un reato o di darsi alla fuga; a questo riguardo, l’articolo 5 par. 1 f) non prevede la stessa protezione rispetto all’articolo 5 par. 1 c) (Chahal già cit., § 112). Per non essere tacciata di arbitrio, l’applicazione di tale misura di detenzione deve dunque essere fatta in buona fede; essa deve anche essere strettamente legata allo scopo che consiste nell’impedire a una persona di introdursi irregolarmente nel territorio nazionale; inoltre, il luogo e le condizioni di detenzione devono essere adeguati; infine, la durata della detenzione non deve eccedere il termine ragionevole necessario per raggiungere lo scopo perseguito (Saadi c. Regno Unito [GC], n. 13229/03, §§ 72-74, CEDU 2008-….).
38. Nella presente causa, la Corte deve esaminare la questione di stabilire se il decreto che dispone la detenzione basato sul decreto di espulsione costituisse una base legale per la privazione della libertà della ricorrente fino all’annullamento di detti decreti. La sola circostanza che tali decreti siano stati successivamente annullati non compromette, in quanto tale, la legalità della detenzione per il periodo precedente. Per determinare se l’articolo 5 § 1 della Convenzione è stato rispettato è opportuno operare una distinzione fondamentale tra i titoli di detenzione manifestamente non validi – ad esempio quelli emessi da un tribunale al di fuori della sua sfera di competenza – e i titoli di detenzione che sono prima facie validi ed efficaci fino al momento in cui vengono annullati da un altro giudice interno (Benham già cit., §§ 43 e 46; Lloyd e altri c. Regno Unito, nn. 29798/96 e segg., §§ 83, 108, 113 e 116, 1° marzo 2005; Khudoyorov c. Russia, n. 6847/02, §§ 128-129, 8 novembre 2005).
39. La Corte osserva anzitutto che la ricorrente è stata collocata nel centro di permanenza temporanea l’11 novembre 2003 e che il provvedimento che disponeva il suo trattenimento è stato convalidato dal giudice competente. Tuttavia, il 24 dicembre 2003, il tribunale di Roma ha dichiarato nulli i decreti di espulsione e di trattenimento in quanto viziati da illegalità. Tra i motivi dell’annullamento vi è il fatto che, conformemente all’articolo 19 della legge sull’immigrazione n. 286 del 1998, la ricorrente non poteva essere oggetto di espulsione poiché aveva dato alla luce il suo ultimogenito il 26 settembre 2003, e ciò indipendentemente dal fatto che il neonato fosse deceduto (paragrafo 16 supra). Pertanto, ai sensi del diritto interno, le autorità non avevano il potere di disporre la detenzione della ricorrente. Inoltre, le autorità nazionali erano a conoscenza del fatto che la ricorrente aveva recentemente partorito (paragrafo 9 supra). Tenuto conto di questi elementi, la Corte considera che la situazione in oggetto si traduce in una irregolarità grave e manifesta ai sensi della sua giurisprudenza (v., a contrario, Hokic e Hrustic c. Italia, n. 3449/05, §§ 23-24, 1 dicembre 2009).
40. In queste circostanze, la Corte conclude che la detenzione della ricorrente ai fini della sua espulsione non sia stata conforme alle vie legali.
41. Pertanto, vi è stata violazione dell’articolo 5 § 1 f) della Convenzione.
II. SULLA VIOLAZIONE ADDOTTA DELL’ARTICOLO 5 § 5 DELLA CONVENZIONE
42. La ricorrente sostiene di non disporre, nel diritto italiano, di alcun mezzo per ottenere riparazione delle violazioni sopra denunciate. Essa invoca gli articoli 5 § 5 e 13 della Convenzione. La Corte ritiene che questo motivo di ricorso debba essere esaminato unicamente sotto il profilo dell’articolo 5 § 5 della Convenzione, che recita:
«(…)
5. Ogni persona vittima di arresto o di detenzione in violazione di una delle disposizioni del presente articolo ha diritto ad una riparazione.»
43. Il Governo si oppone a questa tesi.
A. Sulla ricevibilità
44. La Corte osserva che questo motivo di ricorso è legato a quello sopra esaminato e pertanto deve essere dichiarato anch’esso ricevibile.
B. Sul merito
45. Il Governo sostiene che questo paragrafo non è stato violato poiché non vi sarebbe stata alcuna violazione dell’articolo 5 della Convenzione.
46. La Corte ricorda che il paragrafo 5 dell’articolo 5 viene rispettato quando si può chiedere riparazione per una privazione della libertà operata in condizioni contrarie ai paragrafi 1, 2, 3 o 4 (Wassink c. Paesi Bassi, sentenza del 27 settembre 1990, § 38, serie A n. 185-A). Il diritto alla riparazione di cui al paragrafo 5 presuppone dunque che una violazione di uno di questi altri paragrafi sia stata accertata da un’autorità nazionale o dalle istituzioni della Convenzione (N.C. c. Italia [GC], n. 24952/94, § 49 in fine, CEDU 2002-X).
47. La Corte ha appena constatato che la detenzione della ricorrente è stata irregolare (paragrafo 41 supra) e che la decisione del tribunale di Roma riconosce l’irregolarità della detenzione (paragrafo 16 supra). Di conseguenza, deve essere esaminata la questione di stabilire se la ricorrente disponesse nel diritto italiano di un rimedio, ai sensi dell’articolo 5 § 5 della Convenzione.
48. Essa rileva che nessuna disposizione permetteva alla ricorrente di presentare una domanda di risarcimento per l’ingiusta detenzione dinanzi alle autorità nazionali (v. paragrafi 22-26).
49. Alla luce di queste considerazioni, la Corte ritiene che vi sia stata anche violazione del paragrafo 5 dell’articolo 5 della Convenzione (si vedano, ad esempio, Pezone c. Italia, n. 42098/98, §§ 51-56, 18 dicembre 2003 e Fox, Campbell e Hartley c. Regno Unito, sentenza del 30 agosto 1990, § 46, serie A n.182).
III. SULLE ALTRE VIOLAZIONE ADDOTTE
50. La ricorrente si lamenta, infine, sotto il profilo degli articoli 3 e 8 della Convenzione, che il suo trattenimento ha costituito un trattamento inumano e degradante poiché essa aveva appena perso un figlio, aveva assunto dei farmaci psicotropi, le condizioni di vita nel centro in questione erano precarie e non ha avuto la possibilità di incontrare i suoi figli.
51. Nella misura in cui queste affermazioni sono state dimostrate, la Corte non ha rilevato alcun elemento che dimostri che il trattamento denunciato dalla ricorrente ha raggiunto il livello minimo richiesto dall’articolo 3 della Convenzione (Price c. Regno Unito, n. 33394/96, § 24, CEDU 2001-VII, Mouisel c. Francia, n. 67263/01, § 37, CEDU 2002-IX, Labita c. Italia [GC], n. 26772/95, § 120, CEDU 2000-IV).). Nulla nel fascicolo indica peraltro che l’ingerenza nella vita privata e famigliare della ricorrente ha superato quella che deriva inevitabilmente da qualsiasi detenzione. Di conseguenza questa parte del ricorso è manifestamente infondata e deve essere rigettata conformemente all’articolo 35 §§ 3 e 4 della Convenzione.
IV. SULL’APPLICAZIONE DELL’ARTICOLO 41 DELLA CONVENZIONE
52. Ai sensi dell’articolo 41 della Convenzione,
«Se la Corte dichiara che vi è stata violazione della Convenzione o dei suoi Protocolli e se il diritto interno dell’Alta Parte contraente non permette se non in modo imperfetto di rimuovere le conseguenze di tale violazione, la Corte accorda, se del caso, un’equa soddisfazione alla parte lesa.»
A. Danno
53. La ricorrente chiede la somma di 45.000 euro (EUR) per il danno morale che avrebbe subito.
54. Il Governo considera che la constatazione di violazione costituirebbe una riparazione sufficiente. In via sussidiaria, osserva che la somma richiesta è sproporzionata e che la richiesta non è suffragata da mezzi di prova, rimettendosi al giudizio della Corte.
55. La Corte ritiene che la ricorrente ha subito un torto morale certo. Considerate le circostanze di causa e deliberando equamente come esige l’articolo 41 della Convenzione, essa decide di accordarle la somma di 7.500 EUR per il danno morale.
B. Spese
56. Gli avvocati della ricorrente chiedono 8.000 EUR per le spese sostenute dinanzi alla Corte. A sostegno della loro domanda hanno prodotto il tariffario forense italiano.
57. Il Governo sottolinea che la Corte non è vincolata dalle tariffe professionali nazionali e che la somma richiesta è eccessiva, tenuto conto della semplicità della causa. Esso si rimette al giudizio della Corte.
58. Secondo la giurisprudenza della Corte, un ricorrente può ottenere il rimborso delle spese sostenute solo nella misura in cui ne sono accertati la realtà, la necessità e l’importo ragionevole. Nel caso di specie, la ricorrente non ha prodotto alcun documento giustificativo a sostegno della sua domanda di rimborso. La Corte decide pertanto di rigettarla.
C. Interessi moratori
59. La Corte ritiene opportuno basare il tasso degli interessi moratori sul tasso di interesse delle operazioni di rifinanziamento marginale della Banca centrale europea maggiorato di tre punti percentuali.
PER QUESTI MOTIVI LA CORTE, ALL’UNANIMITÀ,
1. Dichiara il ricorso ricevibile per quanto riguarda i motivi di ricorso relativi all’articolo 5 § 1 f) e § 5 della Convenzione e irricevibile per il resto;
2. Dichiara che vi è stata violazione dell’articolo 5 § 1 f) della Convenzione;
3. Dichiara che vi è stata violazione dell’articolo 5 § 5 della Convenzione;
4. Dichiara
a) che lo Stato convenuto deve versare alla ricorrente, entro tre mesi a decorrere dal giorno in cui la sentenza sarà divenuta definitiva conformemente all’articolo 44 § 2 della Convenzione, la somma di 7.500 EUR (settemilacinquecento euro) per il danno morale, più l’importo eventualmente dovuto a titolo di imposta;
b) che a decorrere dallo scadere di detto termine e fino al versamento, tale importo dovrà essere maggiorato di un interesse semplice ad un tasso equivalente a quello delle operazioni di rifinanziamento marginale della Banca centrale europea applicabile durante tale periodo, aumentato di tre punti percentuali;
5. Rigetta la domanda di equa soddisfazione per il resto.
Fatta in francese, poi comunicata per iscritto l’8 febbraio 2011 in applicazione dell’articolo 77 §§ 2 e 3 del regolamento.
Stanley Naismith Françoise Tulkens
Cancelliere Presidente
(TRADUZIONE NON UFFICIALE A CURA DEL MINISTERO DELLA GIUSTIZIA)

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