“L’errore di evitare i concorsi”


Pubblichiamo dal Corriere della Sera di oggi un articolo di Sabino Cassese
che condividiamo:

Se la selezione non avviene secondo il merito, la scelta degli addetti alle funzioni e ai servizi pubblici avverrà sulla base del clientelismo, delle simpatie politiche, della famiglia di appartenenza, o del caso

“Lo chiamano concorsone Ripam: 1.863 tirocinanti campani mirano all’assunzione nei ranghi pubblici. Il ministro della pubblica amministrazione Renato Brunetta ha dovuto ricordare al presidente della Regione Campania, Vincenzo De Luca, l’articolo 97 della Costituzione, secondo il quale agli uffici pubblici si accede con concorso. I supplenti della scuola (sono più di 200 mila, ma quelli che potrebbero occupare i posti di «organico di diritto» ammontano a circa 112 mila) mirano anch’essi alla stabilizzazione, invocando la laurea abilitante, o di aver superato i corsi abilitanti o concorsi abilitanti.

Altrove, nella galassia pubblica, vi sono centinaia di idonei che aspirano alla titolarizzazione, sull’esempio di quei perditori di concorsi del passato che, essendo tuttavia stati dichiarati idonei, hanno goduto della moltiplicazione dei posti pubblici (si chiama scorrimento delle graduatorie e talora ha consentito l’assunzione di un numero di idonei dieci volte superiore ai posti messi a concorso). Gli argomenti per aggirare la competizione aperta e decisa secondo il merito sono sempre gli stessi: l’urgenza, la necessità di smaltire le sacche di precari, le «irresistibili» pressioni dei sindacati.

Non sappiamo quanti siano entrati al servizio dello Stato, delle regioni, dei comuni, dalla porta di servizio, ma è certo che vi è una vera e propria corsa ad evitare i concorsi. Se il personale pubblico, all’entrata, alla base, non viene selezionato e accede, poi, al vertice per decisione delle forze politiche (in virtù del nefasto «spoils system»), non possiamo aspettarci che gli uffici pubblici siano composti di competenti e tecnici, e che rispondano alle esigenze della società alla quale dovrebbero offrire il loro servizio.

Sui concorsi si giocano tre partite fondamentali per il progresso del Paese, perché solo con i concorsi c’è la possibilità di scegliere i migliori; perché solo con i concorsi c’è la possibilità di premiare chi merita e di valorizzare la competenza; perché solo con i concorsi si può avere una amministrazione pubblica più efficace. In altre parole, i concorsi, cioè la competizione, aperta a tutti, e la vittoria decisa sulla base del merito e in maniera imparziale, rispondono a due esigenze, una della società (dare eguali «chances» a tutti) e una dello Stato (scegliere i più capaci). Se si evitano i concorsi, si creano condizioni di favore o di privilegio e non ci si può poi lamentare della tanto vituperata burocrazia.

Conosco le obiezioni. La prima è che i concorsi premiano gli esercizi mnemonici e la preparazione scolastica. Ma questo non comporta che debba esser abbandonata la competizione aperta a tutti, in condizioni di eguaglianza; vuol dire solo che le prove di esame sono concepite male e vanno cambiate (il ministro della pubblica amministrazione sta facendo qualche passo avanti in questa direzione).

La seconda obiezione è quella rivolta alla stessa meritocrazia, per la difficoltà di misurare il merito. È una obiezione tanto fumosa quanto inconsistente. Il merito di un agrimensore sarà stabilito sulla base dell’accertamento delle sue capacità ed esperienze in materia di topografia, di misurazione, di confinazione. Quello di un chirurgo sulla base della sua abilità ed esperienza nel trattamento manuale e strumentale di condizioni patologiche. Quella dell’insegnante secondo le sue conoscenze della materia sulla quale deve svolgere la sua funzione educativa e la sua abilità nel trasmettere il sapere.

Ma c’è un altro e decisivo argomento per dimostrare la bontà della selezione secondo il merito: se non avviene in questo modo, la scelta degli addetti alle funzioni e ai servizi pubblici avverrà sulla base del clientelismo, delle simpatie politiche, della famiglia di appartenenza, o del caso. Si esaminino i ruoli di alcune categorie di pubblici dipendenti e si noti quanti sono gli appartenenti a certe forze politiche, a grandi famiglie, a clientele, a clan.

Stupisce che della assunzione di precari o di idonei siano sistematicamente sostenitori, in Italia, i sindacati, per i quali, evidentemente, hanno importanza soltanto le «voci di dentro» e non le legittime aspettative dei più giovani, che potrebbero accedere agli uffici pubblici se vi fossero regolari, periodici concorsi.

Infine, dalla sistemazione in ruolo con scorciatoie derivano due effetti non secondari, di ordine sociale. Frustrazione per coloro che, con studi, sacrifici, esperienze accumulate, hanno vinto i concorsi e si vedono affiancati coloro che hanno ottenuto il posto senza concorrere; ribellione per coloro che, non avendo un «santo in Paradiso» (cioè un partito, un clan, una potente famiglia), si sentono esclusi.

(fonte:corriere.it)

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