Cassazione Sezioni Unite Civili del 9/5/17 n. 13721/2017: definisce la natura del rapporto dei giudici di pace con il Ministero della Giustizia


Pubblichiamo la sentenza delle Sezioni Unite Civili su un argomento molto dibattuto sulla natura del rapporto di servizio o di lavoro dei giudici di pace con il Ministero della Giustizia anche se la causa era relativa ai contributi dovuti alla Cassa Nazionale di previdenza ed assistenza forense

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONI UNITE CIVILI
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Oggetto

Giudice di pace – cassa forense –
contributo – esclusione.
Giudice di pace – compenso –
rivalsa i.v.a. – giurisdizione
ordinaria.
Ud. 09/05/2017 – PU
R.G.N. 19184/2011

ha pronunciato la seguente
SENTENZA
sul ricorso 19184-2011 proposto da:
xxx xxx, elettivamente domiciliato
in ROMA, xxx xxx, presso il proprio studio, rappresentato e difeso da sé
medesimo;
– ricorrente –
contro
MINISTERO DELLA GIUSTIZIA, in persona del Ministro pro tempore,
elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso
l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO;
– con troricorrente –
nonchè contro
xxx xxx;
– intimato –
avverso la sentenza n. 535/2010 della CORTE D’APPELLO di
PERUGIA, depositata il 14/03/2011.
Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del
09/05/2017 dal Consigliere Dott. ETTORE CIRILLO;
udito il Pubblico Ministero, in persona dell’Avvocato Generale Dott.
FRANCESCO MAURO IACOVIELLO, che ha concluso per
l’inammissibilità del ricorso;
udito l’Avvocato xxx xxx.
FATTI DI CAUSA
1.
Il 7 novembre 2006 l’avv. xxx xxx, giudice di pace
inxxx, ricorreva dinanzi al tribunale di Perugia, in funzione di
giudice del lavoro, per sentir dichiarare, nei confronti del Ministero
della giustizia, il diritto di ripetere il contributo integrativo per la
Cassa nazionale di previdenza e assistenza forense e di rivalersi
dell’imposta sul valore aggiunto esposta in fattura (riguardo al
trattamento economico erogatogli dal mese di aprile del 2004 al
mese di dicembre del 2005) e di conseguire anche le ulteriori
differenze maturate (per il mese di gennaio 2006). Il primo giudice
in rito declinava a favore del giudice tributario la giurisdizione sulla
rivalsa dell’IVA e nel merito negava che fosse dovuta l’invocata
contribuzione previdenziale su redditi assimilati a quelli da lavoro
dipendente [art. 50, lett. f), t.u.i.r.].
2.
Per riforma di tale decisione l’avv. xxx xxx proponeva
appello. Sosteneva che l’esclusione legale dal regime dei redditi
Ric. 2011 n. 19184 sez. SU – ud. 09-05-2017
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regioni, dalle province e dai comuni per l’esercizio di pubbliche
funzioni – stabilisce una regola che è derogata dal successivo inciso
«sempreché le prestazioni non siano rese da soggetti che esercitano
un’arte o professione e non siano state effettuate nell’esercizio di
impresa commerciale». Osserva che tale deroga sarebbe confermata
per i giudici onorari dall’ulteriore riferimento «nonché i compensi
corrisposti ai membri delle commissioni tributarie, ai giudici di pace
e agli esperti del tribunale di sorveglianza». Ne deriverebbe, sul
piano letterale e logico, la piena equiparazione di tutti i «soggetti che
esercitano un’arte o professione» e che contemporaneamente
percepiscono «compensi corrisposti dallo Stato […] per l’esercizio di
pubbliche funzioni». Il che rileverebbe tanto ai fini di una
interpretazione costituzionalmente orientata delle disposizioni in
esame, laddove diversamente vi sarebbe violazione degli artt. 3 e 38
Cost. Infine, nella memoria illustrativa, l’avv. xxx –
premesso che il 16 aprile 2015 la Cassa nazionale di previdenza e
assistenza forense avrebbe deliberato la futura contribuzione
obbligatoria anche riguardo alle funzioni onorarie – ribadisce la
persistenza dell’interesse processuale per il periodo antecedente che
è oggetto di causa.
1.1 Il primo motivo non è fondato.
Sul piano dell’evoluzione letterale delle disposizioni sui redditi
assimilati a quelli di lavoro dipendente, si osserva che l’originario
testo dell’art. 47, comma 1, lett. f), t.u.i.r. stabiliva che «Sono
assimilati a quello di lavoro dipendente […] le indennità, i gettoni di
presenza e gli altri compensi corrisposti dallo Stato, dalle regioni,
dalle province e dai comuni per l’esercizio di pubbliche funzioni, ad
esclusione di quelli che per legge debbono essere riversati allo
Stato».
L’art. 2, comma 1, lett. a), n. 2), d.lgs. 2 settembre 1997, n. 314
ha integrato il testo originario nel senso che «Sono assimilati a quello
di lavoro dipendente […] le indennità, i gettoni di presenza e gli altri compensi corrisposti dallo Stato, dalle regioni, dalle province e dai
comuni per l’esercizio di pubbliche funzioni “nonché i compensi
corrisposti ai membri delle commissioni tributarie, ai giudici di pace
e agli esperti del Tribunale di sorveglianza”, ad esclusione di quelli
che per legge debbono essere riversati allo Stato».
L’art. 2, comma 36, della legge finanziaria 2004 (24 dicembre
2003, n. 350) ha ulteriormente novellato il testo inserito nel nuovo
art. 50 t.u.i.r. nel senso che: «Sono assimilati a quello di lavoro
dipendente […] le indennità, i gettoni di presenza e gli altri compensi
corrisposti dallo Stato, dalle regioni, dalle province e dai comuni per
l’esercizio di pubbliche funzioni, “sempreché le prestazioni non siano
rese da soggetti che esercitano un’arte o professione di cui alli
articolo 49, comma 1, e non siano state effettuate nell’esercizio di
impresa commerciale,” nonché i compensi corrisposti ai membri
delle commissioni tributarie, ai giudici di pace e agli esperti del
tribunale di sorveglianza, ad esclusione di quelli che per legge
devono essere riversati allo Stato».

Il richiamo all’art. 49 deve intendersi riferito al nuovo art. 53
t.u.i.r, come disposto dall’art. 2, comma 3, d.lgs. 12 dicembre 2003,
n. 344
1.2 In sintesi, all’interno del testo già integrato nel 1997 – «Sono
assimilati a quello di lavoro dipendente […] le indennità, i gettoni di
presenza e gli altri compensi corrisposti dallo Stato, dalle regioni,
dalle province e dai comuni per l’esercizio di pubbliche funzioni
nonché i compensi corrisposti ai membri delle commissioni tributarie,
ai giudici di pace e agli esperti del Tribunale di sorveglianza, ad
esclusione di quelli che per legge debbono essere riversati allo Stato»
– è stata inserita, tra due virgole un frase incidentale_- «sempreché
le prestazioni non siano rese da soggetti che esercitano un’arte o
professione di cui all’articolo 49, comma 1, e non siano state
effettuate nell’esercizio di impresa commerciale» – che svolge
sintatticamente la funzione di una proposizione subordinata
(ipotassi) rispetto a quella che la precede. Le parole successive –
«nonché i compensi corrisposti ai membri delle commissioni
tributarie, ai giudici di pace e agli esperti del Tribunale di
sorveglianza» – sono rette dalla congiunzione «nonché» nel senso
che le è proprio di “e anche”, “e inoltre”. Essa, stabilendo una
correlazione tra le parole che seguono e l’iniziale proposizione
principale, resta senza relazione sintattica diretta con la proposizione
incidentale (ipotassi). Da qui l’esattezza del rilievo del giudice
d’appello secondo cui, diversamente, «il legislatore avrebbe
collocato la deroga alla fine del periodo e non nel bel mezzo».
1.3 Peraltro la giurisprudenza di legittimità è costante
nell’affermare che il compenso percepito dai giudici di pace va
assoggettato a tassazione secondo le regole dettate prima dall’art.
47, comma 1, lett. f) e ora dall’art. 50, comma 1, lett. f), t.u.i.r.
laddove assimila ai redditi di lavoro dipendente le indennità, i gettoni
di presenza e gli altri compensi corrisposti a tutti coloro che
comunque espletano un’attività comportante l’esercizio di pubbliche
funzioni.
Si è, inoltre, negato che a diversa conclusione possa
condurre qualsiasi argomentazione relativa sia alla natura
dell’attività medesima – onoraria ed estranea al rapporto di lavoro
dipendente – sia al carattere dell’emolumento percepito –
indennitario in senso lato – trattandosi di considerazioni irrilevanti di
fronte a una disposizione che, elencando i redditi da ritenere, ai fini
fiscali, assimilati a quelli del lavoro dipendente, presuppone proprio
che si tratti di somme estranee al concetto di reddito di lavoro
dipendente in senso stretto. Si è, infine, precisato non assume rilievo
il fatto che i compensi corrisposti ai giudici di pace siano stati
espressamente inseriti nella previsione normativa solo con l’art. 2
d.lgs. n. 314 del 1997, dovendosi a questa disposizione attribuire
una mera funzione esplicativa e di eliminazione di ogni incertezza
rispetto a quanto era già chiaramente insito nel testo previgente
della norma (Cass. 14/09/2016, n. 18031; conf. Cass. 16/05/2005,
n. 10230). Si tratta di conclusioni già raggiunte da tempo anche per
i giudici tributari (Cass. 19/12/2002, n. 18067) e per i vice pretori
onorari (Cass. 06/08/2004, n. 15237).
1.4 Gli approdi della giurisprudenza della sezione tributaria della
Corte si raccordano a quelli delle sezioni unite in tesi generale (Cass.,
Sez. U, 09/11/1998, n.11272; conf. Sez. U, 04/09/2015, n. 17591)
e della sezione lavoro in particolare (Cass. 09/09/2016, n. 17862),
laddove si è osservato che la categoria dei funzionari onorari, della
quale fa parte il giudice di pace (art. 1, comma 2, della legge 21
novembre 1991, n. 374) ricorre quando esiste un rapporto di servizio
volontario, con attribuzione di funzioni pubbliche, ma senza la
presenza degli elementi che caratterizzano l’impiego pubblico.

Si è precisato, inoltre, che i due rapporti si distinguono in base a
taluni indici rivelatori quali ad esempio:
a) la scelta del funzionario, che nell’impiego pubblico viene
effettuata mediante procedure concorsuali di carattere tecnico-
amministrativo;
b)l’inserimento nell’apparato organizzativo dell’amministrazione,
che è strutturale e professionale per il pubblico impiegato e
meramente funzionale per il funzionario onorario;
c)
il compenso, che consiste in una vera e propria retribuzione,
inerente al rapporto sinallagmatico costituito fra le parti, con
riferimento al pubblico impiegato e che invece, riguardo al
funzionario onorario, ha carattere meramente indennitario;
d)
la durata del rapporto che, di norma, è a tempo indeterminato
nel pubblico impiego e a termine (con eventuale rinnovo) quanto al
funzionario onorario.
Si chiarito, infine, che l’art. 54 Cost., costituendo l’unica fonte
della disciplina costituzionale dell’attribuzione di funzioni pubbliche
al cittadino al di fuori del rapporto di pubblico impiego, esclude
qualsiasi connotato di sinallagmaticità tra esercizio delle funzioni e
trattamento economico per tale esercizio, che è, invece, proprio di quel rapporto; mentre il termine «affidamento», lungi dal
configurarsi come un richiamo a quel connotato, vale, invece, a
generalizzare il contenuto della norma, al fine di ricomprendere tutti
i casi in cui sia affidata al cittadino – in qualunque modo – una
funzione pubblica, imponendogli che essa sia assolta con disciplina
ed onore (conf. Cass. 04/11/2015, n. 22569 e 03/05/2005, n. 9155
che hanno escluso la parasubordinazione del giudice di pace).
A conclusione analoghe giunge anche la dottrina nell’affermare
che i compensi corrisposti ai giudici di pace, giudici tributari etc. sono
assimilati al lavoro dipendente.

1.5 Orbene, riguardo al contributo integrativo per la Cassa
nazionale di previdenza e assistenza forense, esso è previsto dall’art.
1, n.2, del Regolamento dei contributi vigente
pro tempore
e
adottato in forza dell’art. 1, comma 3, d.lgs. 30 giugno 1994, n. 509.
Il successivo art. 6 stabilisce che il contributo integrativo è costituito
da «una maggiorazione percentuale su tutti i corrispettivi rientranti
nel volume generale d’affari ai fini dell’IVA», mentre «i contribuenti
minimi L.] devono applicare la maggiorazione in fattura
commisurandola al corrispettivo lordo dell’operazione»; precisa,
inoltre, che «la maggiorazione è ripetibile nei confronti del cliente».
Dunque è lo stesso Regolamento a individuare la base imponibile del
contributo integrativo, a carico finale del cliente, con riguardo
all’ammontare del corrispettivo dovuto dallo stesso. Il che va escluso
non potendosi configurare un rapporto di clientela tra il Ministero
della giustizia e il singolo giudice di pace per lo svolgimento di
funzioni pubbliche di rango giudiziario, che, come si è visto, non
prevedono compensi sinallagmatici ma indennità funzionali
assimilate, ai fini fiscali, ai redditi da lavoro dipendente.
1.6 L’esclusione di qualsiasi connotato di sinallagmaticità tra
esercizio delle funzioni di giudice di pace e trattamento economico
per tale esercizio e la consequenziale natura indennitaria
dell’erogazione erariale per l’esercizio di una funzione pubblica
Ric. 2011 n. 19184 sez. SU – ud. 09-05-2017
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portano il rapporto col Ministero della giustizia al di fuori dal rapporto
di lavoro e, dunque, al di fuori del perimetro assistenziale e
previdenziale approntato dall’art. 38 Cost.. Di ciò v’è indiretto
riscontro nel contenuto della legge 28 aprile 2016, n. 57 (Delega al
Governo per la riforma organica della magistratura onoraria e altre
disposizioni sui giudici di pace), che all’art. 2, comma 13, lett. f),
indica come principio direttivo, per il futuro, quello di «individuare e
regolare un regime previdenziale e assistenziale compatibile con la
natura onoraria dell’incarico, senza oneri per la finanza pubblica,
prevedendo l’acquisizione delle risorse necessarie mediante misure
incidenti sull’indennità», secondo la tecnica non inconsueta della
traslazione degli oneri previdenziali a carico del beneficiario (v. es.
legge finanziaria 2006, art. 1, comma 208).

1.7. Ogni questione circa l’asserito sopravvenire il 16 aprile 2015
di una pretesa delibera della Cassa nazionale di previdenza e
assistenza forense sulla futura eventuale contribuzione obbligatoria
anche riguardo alle funzioni onorarie resta estranea al perimetro
impugnatorio del ricorso in esame, come lo stesso ricorrente
riconosce in memoria.
2. Col secondo motivo, denunciando violazione delle regole sul
riparto di giurisdizione, il ricorrente contesta la devoluzione al giudice
tributario della controversa imposizione sul valore aggiunto, atteso
che, essendo stata già emessa fattura secondo le regole fiscali
dettate per il lavoro autonomo, residuerebbe solo un contezioso sulla
misura globale delle spettanze dell’avv.xxx, devoluta alla
cognizione dell’A.G.O.
2.1 n secondo motivo è fondato.
La controversia promossa dal prestatore nei confronti del
beneficiario delle prestazioni per asserita rivalsa dell’IVA esposta in
fattura ha natura privatistica, senza alcun profilo o riflesso di
spettanza del giudice tributario, atteso che la statuizione al riguardo
non investe il rapporto tra contribuente e amministrazione
finanziaria, ma si risolve in un accertamento incidentale nell’ambito
del rapporto privatistico fra soggetto attivo e soggetto passivo della
rivalsa, nel quale l’invocata obbligazione
ex lege,
se e in quanto
realmente operante, si aggiungerebbe all’ammontare del compenso,
rimanendo soggetta al relativo regime civilistico (Cass., Sez. U,
04/04/2016, n. 6451; conf. Sez. 1, 15/09/2004, n. 18577; Sez. U,
22/05/1998, n. 5140; Sez. U, 14/12/1992, n. 13199; Sez. U,
03/02/1989, n. 657; Sez. U, 22/07/2002, n. 10693; Sez. U,
29/04/2003, n. 6632; Sez. U, 07/02/2007, n. 2686; Sez. U, n.
08/02/2007, n. 2775).
2.2 Invero, sulla scorta dell’orientamento sopra citato, da tempo
le sezioni unite hanno chiarito che nella disciplina dell’imposta sul
valore aggiunto di cui al d.P.R. 26 ottobre 1972 n. 633, l’obbligazione
tributaria, per le cessioni di beni e le prestazioni di servizi
specificamente contemplate, insorge a carico del cedente del bene o
del prestatore del servizio (art. 17) che svolga operazioni imponibili.
Il cessionario del bene od il committente del servizio è assoggettato
al diritto-dovere del cedente o prestatore di rivalersi della somma
versata all’erario addebitandola sul corrispettivo (art. 18). Il
cessionario o committente sopporta quindi l’onere economico della
tassazione, ove non possa detrarre l’IVA addebitatagli (art. 19), ma
non è debitore d’imposta, e, in coerenza con la mancanza di tale
qualità, non è interlocutore dell’amministrazione finanziaria.
Pertanto, la controversia sulla legittimità dell’addebito dell’IVA in via
di rivalsa riguarda solo le parti del rapporto privatistico, non il
rapporto tributario col fisco. La terzietà erariale non viene meno
quando sia controverso il presupposto della rivalsa, cioè
l’obbligazione d’imposta del cedente/prestatore, perché l’indagine
richiesta da tale deduzione resta sul piano dell’accertamento
incidentale di una questione pregiudiziale, non introduce una causa
pregiudiziale e non potrebbe introdurla, essendo riservato al debitore d’imposta di sollecitare il sindacato giudiziale sull’an od il
quantum
del credito tributario (Cass., Sez. U, 07/11/2000, n. 1147).
2.3 A conclusioni non dissimili si deve giungere anche riguardo
alla giurisprudenza europea (Corte giustizia, 15/03/2007,

laddove si afferma che – ad eccezione dei
casi espressamente previsti dalle disposizioni della sesta direttiva
(art. 21, punto 1) – solo il prestatore dev’essere considerato debitore
dell’imposta sul valore aggiunto nei confronti delle autorità tributarie
dello Stato membro del luogo delle prestazioni (v. punto 33,
dispositivo 2). Il che conferma che l’adempimento di una asserita
obbligazione di pagare VIVA in via di rivalsa è estranea alla
giurisdizione sul rapporto d’imposta devoluta al giudice tributario,
spettando all’ordinamento degli Stati membri stabilire la modalità
procedurali per garantire la salvaguardia dei singoli (v. punti 42, 45,
dispositivo 3).
3. Tirando le fila del discorso sin qui condotto, una volta rigettato
il primo motivo, va accolto il secondo e dichiarata la giurisdizione del
giudice ordinario riguardo alla controversia sulla rivalsa dell’IVA; la
sentenza impugnata va, pertanto, cassata sul punto con rinvio,
anche per le spese, al tribunale di Perugia in diversa composizione.
P.Q.M.
La Corte accoglie il secondo motivo di ricorso; rigetta il primo motivo
di ricorso; cassa la sentenza in relazione al motivo accolto; dichiara
sul punto la giurisdizione del giudice ordinario; rinvia al tribunale di
Perugia in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche
sulle spese del giudizio di legittimità.
Così deciso in Roma, il 9 maggio 2017.

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