Caso Shalabayeva, il capo dello Sco e il questore di Rimini indagati per sequestro di persona

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“Nel mirino dei pm di Perugia anche cinque poliziotti e un giudice del distretto di Roma. La moglie del dissidente kazako e la figlia furono espulse dall’Italia in modo «illegittimo»
Sequestro di persona. È l’accusa, pesantissima, che la procura di Perugia contesta a sette poliziotti e al giudice di pace che si occuparono del caso di Alma Shalabayeva, la moglie del dissidente kazako Muktar Abliazov espulsa dall’Italia il 31 maggio del 2013, messa su un aereo e rispedita in Kazakistan. Un’espulsione che la Cassazione, già a luglio dell’anno scorso, ha definito viziata da «manifesta illegittimità originaria».

LA SCHEDA – Tutte le tappe della vicenda

Sul registro degli indagati dei pm perugini, competenti ad indagare in quanto è coinvolto un magistrato del distretto di Roma, sono finiti nomi importanti della Polizia: quello dell’ attuale capo del Servizio Centrale operativo, R. C.e, allora a capo della squadra mobile di Roma, e del questore di Rimini M.I.,all’epoca a capo dell’ufficio stranieri della questura della Capitale. Assieme a loro, l’accusa di sequestro è scattata per il giudice di pace che firmò il provvedimento di espulsione, S. L., per i funzionari della questura di Roma A.e S. e per gli agenti V. T., L. S. e S. L., tutti e tre in servizio presso l’ufficio stranieri. Nei loro confronti sono ipotizzati anche una serie di altri reati. «Sono assolutamente sereno e ho la massima fiducia nell’operato della magistratura – ha detto C. – Sono fiducioso di poter chiarire al più presto la mia posizione».

Nell’informazione di garanzia inviata agli otto, secondo quanto si apprende, si sosterebbe che i poliziotti e il giudice di pace, in concorso con alcuni funzionari dell’ambasciata del Kazakistan di Roma (per i quali non si conosce l’ipotesi di reato), avrebbero sequestrato la Shalabayeva e sua figlia di sei anni nella villa di Casal Palocco, alla periferia sud di Roma e successivamente le avrebbero trasferite all’aeroporto di Ciampino ed imbarcate su un aereo kazako, per rimpatriarle proprio nel paese dove il marito, leader dell’opposizione, era ricercato. Un atto che, sosterebbero i pm, ha esposto a rischio di ritorsione la donna e la piccola.

Quanto esplose il caso, l’affaire Shalabayeva sfiorò il ministro dell’Interno Angelino Alfano e costò il posto all’ allora capo di gabinetto del Viminale, il prefetto Giuseppe Procaccini e il pensionamento anticipato dell’allora capo della segreteria del Dipartimento della Pubblica Sicurezza Valeri.

Secondo i giudici della Cassazione, ci fu troppa fretta da parte delle autorità italiane: «la contrazione dei tempi del rimpatrio e lo stato di detenzione e sostanziale isolamento della donna, dall’irruzione alla partenza, hanno determinato un irreparabile vulnus al diritto di richiedere asilo e di esercitare adeguatamente il diritto di difesa». Alla Shalabayeva non è stata nemmeno fatta la traduzione delle domande e la polizia – ha sottolineato la Cassazione – era a «conoscenza dell’effettiva identità della ricorrente», ossia sapeva che era la moglie di un dissidente ricercato (e attualmente detenuto in Francia). Quanto al passaporto falso della Repubblica Centrafricana – il motivo per cui la donna è stata espulsa – i supremi giudici hanno sostenuto che era valido e non contraffatto, così come validi erano anche i permessi di soggiorno rilasciati dal Regno Unito e dalla Lettonia.

A dicembre 2013, la Shalabayeva è tornata in Italia con la figlioletta Alua di sei anni e ad aprile scorso ha ottenuto l’asilo politico valido cinque anni. «Quello che accadde quella notte fu un rapimento. Voglio chiarezza e giustizia», disse la donna lo scorso maggio, quando presentò il ricorso contro la decisione della procura di Roma di richiedere l’archiviazione per la posizione di tre diplomatici kazaki, l’ambasciatore a Roma Andrian Yelemessov, il consigliere degli affari politici Nurlan Khassen e l’addetto agli affari consolari, Yerzhan Yessirkepov.”(fonte:lastampa.it)

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“I pm di Perugia hanno notificato l’avviso di garanzia a R. C., a M. I., ad altri 5 poliziotti e al giudice di pace per l’espulsione della moglie del dissidente kazako Ablyazov a maggio 2013

Sequestro di persona: è l’accusa che i pm di Perugia contestano al capo dello Sco (Servizio centrale operativo della Polizia) R. C., al questore di Rimini M I., ad altri cinque poliziotti e al giudice di pace per l’espulsione a maggio 2013 di Alma Shalabayeva, la moglie del dissidente kazako Muktar Ablyazov. La donna, prelevata nella villa di Casal Palocco a Roma, era stata espulsa insieme alla figlia di sei anni dopo un passaggio nel Centro di identificazione e di espulsione (CIE) di Ponte Galeria.

Le accuse nei confronti di C e I sono riferite a quando i due erano rispettivamente il capo della squadra mobile di Roma e il capo dell’ufficio stranieri della questura della Capitale. Con la stessa accusa, nel registro degli indagati della procura perugina – competente ad indagare in quanto è coinvolto un giudice del distretto di Roma – compaiono poi L A e F S, all’epoca rispettivamente dirigente della sezione criminalità organizzata e commissario capo della squadra mobile di Roma, V T, L S e S L, tre poliziotti in servizio presso l’ufficio immigrazione. Nell’informazione di garanzia inviata agli otto, secondo quanto apprende l’agenzia Ansa, si sostiene che i poliziotti e il giudice di pace, in concorso con alcuni funzionari dell’ambasciata del Kazakistan di Roma, il 31 maggio del 2013 hanno sequestrato la Shalabayeva e sua figlia di sei anni nella villa di Casal Palocco a Roma e successivamente le hanno espulse.

A luglio 2013, in seguito alle polemiche per l’operazione, si era dimesso il capo di gabinetto del ministero dell’Interno Giuseppe Procaccini (“Per senso delle istituzioni”). Procaccini, secondo le ricostruzioni, aveva infatti incontrato l’ambasciatore kazako Andrin Yelemessov per parlare dell’oppositore Ablyazov. Nonostante il passo indietro, ha sempre difeso il ministro Angelino Alfano dicendo che “non sapeva nulla della questione”.

Il 30 luglio 2014 la Cassazione, accogliendo il ricorso della Shalabayeva contro il decreto del giudice di Pace di Roma del 31 maggio 2013, aveva stabilito che la donna non doveva essere espulsa dall’Italia e il provvedimento di rimpatrio è viziato da “manifesta illegittimità originaria”. Secondo i giudici infatti ci fu troppa fretta da parte delle autorità italiane: “La contrazione dei tempi del rimpatrio e lo stato di detenzione e sostanziale isolamento della donna, dall’irruzione alla partenza, hanno determinato un irreparabile vulnus al diritto di richiedere asilo e di esercitare adeguatamente il diritto di difesa”. Alla Shalabayeva non è stata nemmeno fatta la traduzione delle domande e la polizia – ha sottolineato la Cassazione – era a “conoscenza dell’effettiva identità della ricorrente”, ossia sapeva che era la moglie di un dissidente ricercato (e attualmente detenuto in Francia). Quanto al passaporto falso della Repubblica Centrafricana – il motivo per cui la donna è stata espulsa – i supremi giudici hanno sostenuto che era valido e non contraffatto, così come validi erano anche i permessi di soggiorno rilasciati dal Regno Unito e dalla Lettonia.

A dicembre 2013, la Shalabayeva è tornata in Italia con la figlioletta Alua e ad aprile scorso ha ottenuto l’asilo politico valido cinque anni. “Quello che accadde quella notte fu un rapimento. Voglio chiarezza e giustizia”, disse la donna lo scorso maggio, quando presentò il ricorso contro la decisione della procura di Roma di richiedere l’archiviazione per la posizione di tre diplomatici kazaki, l’ambasciatore a Roma Andrian Yelemessov, il consigliere degli affari politici Nurlan Khassen e l’addetto agli affari consolari, Yerzhan Yessirkepov.”(fonte:ilfattoquotidiano.it)

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