Un fantasma a Ponte Galeria. Migranti. Convocato in questura : viene rinchiuso nel Cie romano

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Pubblichiamo due interessanti articoli apparsi in rete perchè possa aprirsi un dibattito, sia dentro la categoria dei giudici di pace sia fuori ,su cosa stia accadendo nei Centri di Identificazione ed Espulsione in Italia, con il rischio che si corre di “fare di tutte le erbe un fascio” e non dimenticando che le convalide dei provvedimenti di trattenimento sono di competenza del potere giurisdizionale (attualmente dei giudici di pace) vero e proprio, e non del potere esecutivo ,sulla base dell’applicazione della normativa europea e nazionale…

“«Spesso sogno la mia isola/ il mare, la montagna, i fiumi,/ il verde della foresta tropicale / Ora sono una pianta sradicata». Così scrive, nella poesia Sogno, Sunjay Gookooluk, originario delle Isole Mauritius. Condannato a sopravvivere nel nostro paese come «pianta sradicata», ora Sunjay di nuovo si aggira tra le sbarre angoscianti del Cie di Ponte Galeria, da cui era stato liberato alcuni mesi fa.

È con l’inganno che lunedì scorso sarebbe stato sequestrato e condotto nel Cie. Convocato in questura per il ritiro di una notifica, sarebbe stato fatto salire su una volante con la scusa che occorreva «fotosegnalarlo». Poi trattenuto per 24 ore nei locali dell’Ufficio stranieri della Questura di Roma, senza poter contat­tare alcuno, neppure il suo avvocato, infine di nuovo a Ponte Galeria.
Sunjay è difficilmente espellibile poiché in Italia non c’è alcuna rappresentanza diplomatica delle Mauritius. Inoltre, egli ha presentato sia un ricorso contro un ordine di espulsione, sia un’istanza per il ricongiungimento familiare con la sorella, cittadina italiana. Quindi, che gli sia inflitta per la seconda volta la pena di un lager di Stato sembra essere cosa irrazionale e arbitraria.
Da ventisei anni nel nostro Paese, ha pagato oltre misura il suo debito con la giustizia, per usare una frase fatta: con otto anni di carcere (per reati legati allo spaccio di droghe) e in sovrappiù tre mesi di Cie. Sunjay ha riconosciuto i propri errori e si è riscattato nel senso più pieno del termine: in carcere ha studiato, ne ha letto l’intera biblioteca, ha perfezionato la lingua italiana (ne parla altre cinque), ha ottenuto due diplomi, è diventato abile mosaicista, ha perfino vinto un premio letterario. E, una volta nel Cie, ha messo a frutto sapere, esperienze e competenze per svolgere spontaneamente opera di media­zione culturale tra i “trattenuti” e con parlamentari e rappresentanti delle asso­ciazioni per i diritti dei migranti. Sarà forse quest’ultimo impegno che gli si vuol far pagare?
«Sono un fantasma», ripete spesso Sunjay. Lo dice con l’ironia che caratterizza il suo stile. E ha ragione a dirlo: privo di passaporto, quindi di qualsiasi altro documento di riconoscimento, ancora marchiato con lo stigma della pericolo­sità sociale, cosa contro la quale ha presentato ricorso più volte, sembra intrap­polato in un gelido meccanismo implacabile, del tutto indifferente alla persona che egli è e ai suoi diritti elementarmente umani. A ben riflettere, più che a una pianta sradicata o a un fantasma, Sunjay è metaforicamente assimilabile a Josef K., il protagonista del Processo di Franz Kafka: anch’egli, infatti, speri­menta la Legge come puro e perverso esercizio di persecuzione e sopraffazione.
Sebbene intelligente, colto e competente più di tanti cittadini italiani, Sunjay, prima d’essere di nuovo internato, coltivava aspirazioni assai modeste: libe­rarsi dello stigma infamante, ottenere un documento d’identità, quindi acqui­stare un camper in cui abitare e in cui, soprattutto, poter leggere e scrivere in pace.
«Non vogliono integrarsi» è uno dei leit motiv di razzisti di ogni risma, anche inconsapevoli. Ma che paese feroce è quello in cui si nega ai più vulnerabili ogni possibilità d’inserimento sociale e, come in questo caso, perfino il diritto a un’identità anagrafica e a una modesta dimora mobile? E che legge è quella che nega se stessa violando palesemente il principio della ri-socializzazione e riabilitazione degli ex detenuti?” Annamaria Rivera (fonte:ilmanifesto.it)

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“Da martedì sera, Sunjay Gookooluk, si trova nuovamente al Cie di Ponte Galeria. Scrittore e attivista, con il suo diario ha denunciato a fondo il trattenimento disumano subito nel Cie, raccontando (anche su Left) di quei tre mesi.

In Italia da più di vent’anni, Sunjay, come racconta anche nel monologo raccolto da Giulio Cavalli per Left, stava cercando di rifarsi una vita, a Roma. Ma «lunedì pomeriggio», racconta il giornalista Giacomo Zandonini, «ci siamo visti per prendere un caffè. Lo avevano chiamato per notificargli un atto alla questura di Trastevere e mi chiede di accompagnarlo, fiducioso che non sia nulla di grave. In effetti è il deposito di un ricorso relativo al gennaio 2013. Per ritirarlo serve però un documento: Sunjay tira fuori il bancomat, il codice fiscale, la fotocopia del passaporto delle Mauritius che ha perso… ma nulla. Bisogna portarlo alla questura centrale per un fotosegnalamento e, come dice più volte il sovrintendente di Polizia , in qualche ora sarà fatta. Arriva una volante e il sig. xxx scambia qualche occhiata di intesa con gli agenti. Chiediamo più volte che Sunjay possa tornare domani o faccia una delega all’avvocato per ritirare i documenti. Ma no, “facciamo subito così non ci si pensa più”. Sunjay viene caricato sulla volante dopo una breve perquisizione e il sequestro del cellulare. Non è in arresto ma non potrà comunicare con nessuno per 26 ore, durante le quali sarà tenuto, in gran parte, in una stanza con aria condizionata e luce accesa, seduto per terra senza poter mangiare né assumere i medicinali per il diabete. Da lì riportato nel Cie, dove finalmente riusciamo a contattarlo. L’ennesimo abuso, per cui Sunjay è pieno di rabbia. Ma ha anche, incredibilmente, fiducia e voglia di combattere, anche con la scrittura, come aveva fatto già in passato, vincendo concorsi letterari e pubblicando su Left. Una fiducia che il Cie spesso ti strappa via lentamente. Ora, è urgente diffondere, far conoscere la sua storia, fare pressioni, denunciare».
«Dostoevskij scriveva che se avessimo il potere di decidere dove nascere, ognuno di noi avrebbe scelto di nascere in una famiglia vera, agiata o almeno benestante», ha scritto Sunjay in una delle pagine del suo lungo diario. «Ma tutto questo non è stato concesso da dio a noi comuni mortali: perciò ognuno deve sopportare il proprio fallimento, la propria croce. Anch’io desidero ricostruire una vita sana e onesta, basata sul lavoro».”(fonte:left.it)

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