REPORTAGE DALL’ULTIMO CARCERE DEI MIGRANTI «CLANDESTINI» Uomini in gabbia, senza diritti Vite d’inferno nel Cie di Torino

cietorino
Pubblichiamo l’articolo da Il Manifesto di ieri 9 agosto 2015

“Visita «guidata» nel Cie di Corso Brunelleschi
a Torino, grazie alla campagna LasciateCIEntrare
che per la prima volta
apre le porte (ma senza immagini) alla struttura
che ospita 81 migranti nel limbo dei diritti
fondamentali. Venerdì il termometro ha toccato
i 38,5 gradi e nelle gabbie le vite d’inferno
erano ancora più difficili.

Testimonianze in presa diretta, mentre c’è chi è in sciopero della
fame e due migranti gay sono isolati «per
proteggerli». Sul muro scritte di rabbia. E «Basta
» in tutte le lingue. Uscita di scena la Croce
Rossa, il Cie ora è gestito da Gepsa Sa e Acuarinto
di Agrigento.

Un cortile ampio, il selciato rovente,
casette sparse, circondate
da sbarre altissime. Fuori dalle
mura di questa fortezza, oltre al filo
spinato, svettano i palazzi di Torino
che si affacciano come se niente fosse
su un’architettura angosciante. Dentro
alle gabbie ci sono i migranti, clandestini,
in attesa di lunga, talvolta infinita,
identificazione in vista di rimpatrio
o espulsione. Si avvicinano alle reti
metalliche: raccontano pezzi di vita,
protestano per le condizioni insostenibili,
sudano; alcuni sono in sciopero
della fame. Poi, rimangono nelle gabbie
– non sono esemplari, sono esseri
umani – mentre ce ne andiamo via.
Questo limbo di cemento sospeso
nella metropoli sabauda è il Cie di corso
Brunelleschi, anche se in realtà l’ingresso
è in via S. Maria Mazzarello. Venerdì
il termometro ha toccato i 38,5
gradi, temperatura record. Grazie alla
campagna LasciateCIEntrare siamo riusciti
ad accedere per la prima volta.
Non è stato facile, da tempo il movimento
lo chiedeva. La campagna è nata
nel 2011 per contrastare una circolare
del Viminale che vietava l’accesso
agli organi di stampa nei Cie e nei Cara
(Centri di accoglienza per richiedenti
asilo). Appellandosi al diritto-dovere
di esercitare l’articolo 21 della Costituzione
(libertà di stampa), ha ottenuto
l’abrogazione della circolare e oggi si
batte per la chiusura dei Cie, l’abolizione
della detenzione amministrativa e
la revisione delle politiche sull’immigrazione.
Un risultato ancora lontano.
Sono 81 gli ospiti della struttura di
Torino, tutti uomini. I paesi di origine
sono Marocco, Tunisia, Nigeria e Senegal,
ma anche Albania, Georgia, Algeria
e Ghana. Vivono in piccoli edifici,
per nulla confortevoli; dalle porte si intravvedono
camere spoglie, letti sgangherati,
televisioni appese al soffitto,
muri scrostati dentro e incendiati fuori,
segno delle ultime rivolte.
Il centro, un tempo Cpt (Centro di
permanenza temporanea), fu inaugurato
nel 1999 nel quartiere di Pozzo
Strada, zona ovest di Torino, in
un’area della storica caserma Cavour,
tra via Monginevro e corso Brunelleschi.
È stato il primo in Italia per effetto
della legge Turco-Napolitano. Si diceva
dovesse essere una struttura provvisoria,
in attesa di altre soluzioni. Nel
2010 è stato, invece, ampliato con 11
milioni di euro. Negli ultimi mesi, dopo
14 anni di gestione da parte della
Croce Rossa, è stato assegnato al raggruppamento
temporaneo di imprese
formato dalla francese Gepsa (controllata
dalla multinazionale Gdf Suez),
leader nella logistica di penitenziari e
centri di detenzione, e all’associazione
culturale Acuarinto di Agrigento, unici
concorrenti ad aver partecipato alla gara
d’appalto, nonché gli stessi gestori
del Cie di Ponte Galeria a Roma.
«L’attuale capienza» spiega il direttore
del centro, Emilio Agnello, membro
di Acuarinto, «è di 90 persone, nel bando
erano 180, ma alcune strutture sono
state danneggiate da precedenti rivolte.
Tre sono i mediatori: un palestinese,
una camerunense e una nigeriana.
Siamo gli unici senza divisa». Il resto
degli operatori sono agenti di polizia
e militari dell’esercito, un’interforze.
«Su 81 trattenuti il 35-40% arriva direttamente
dal carcere, l’80% è stato in
passato detenuto, il reato più comune
è spaccio di stupefacenti; 17 hanno richiesto
asilo ma i casi di accoglimento
sono molto rari», spiega un ispettore
di polizia, che opera da oltre dieci anni
nel Cie di Torino. Accanto a loro, in
una delle stanze per le convalide del
«trattenimento dei cittadini stranieri»,
siede la dirigente della prefettura Valeria
Sabatino che sottolinea: «Qui, sono
vietate fotografie e riprese». Oltre il
70% dei migranti viene rimpatriato. Gli
altri, una volta ricostruita l’identità
all’interno del Cie, ricevono il decreto
prefettizio di espulsione: viene intimato
di abbandonare il territorio italiano
entro sette giorni.
Superati gli uffici, si arriva nel cuore
della struttura, in uno dei buchi neri
del XXI secolo, dove le persone rischiano
di fermarsi fino a 90 giorni. Dietro
alle reti, si intravvedono le sagome dei
reclusi. Alcuni si riparano nei pochi
spazi d’ombra. Altri ci vengono incontro.
Ndoje è alto, indossa la maglia di
una tuta e gronda di sudore. È senegalese
e padre di tre figli.
Scandisce le parole, conosce
bene l’italiano:
«Puoi aver commesso
reati, ma dopo aver
scontato una pena devi
poterti reinserire nella
società, non finire in
un Cie. Noi, ricordatevi,
prima di tutto e prima
di essere clandestini,
siamo esseri umani.
Non meritiamo un trattamento
simile. La storia
un giorno condannerà i responsabili
». Alle sue spalle si fa largo Chkara, 27
anni, origine maghrebina. Ha vissuto a
Como, dove si è fatto un po’ di carcere
e ha incominciato a seguire un percorso
terapeutico con il Sert locale. Mi allunga
un foglio tra le sbarre: «Leggi! È il
report di un educatore dell’Asl, spiega
che una comunità di recupero, La Centralina
di Morbegno (Sondrio), è disposta
a prendermi in affidamento. Dice
che non sono cattivo né pericoloso. Io
sogno un’altra vita».
Le voci si accavallano, si sente gridare
«Charlie», come gli americani chiamavano
i vietcong. Così i migranti reclamano
l’attenzione dei militari che
presidiano il campo. Qualcuno invoca
soccorsi, si sente male. In 6-7 stanno facendo
lo sciopero della fame per protesta.
Le camere sono bollenti, gli operatori
sostengono siano climatizzate.
«Non è vero e, quando c’è, il condizionatore
non funziona. Si stava meglio
in carcere», racconta Ahmed, marocchino,
da 14 anni in Italia, di cui 5 e
mezzo passati in una casa circondariale,
dopo un arresto per spaccio. È stato
portato nel Cie, mesi dopo aver scontato
la pena, perché senza documenti:
«Nella vita si fanno sbagli, ma questo
non giustifica un trattamento disumano.
Ho deciso di fare lo sciopero della
fame». Per chi sceglie questa forma di
protesta nonviolenta, l’obiettivo è raggiungere
«condizioni al limite» per essere
rilasciati se diventano incompatibili
con la reclusione. Yassine, marocchino,
ha il corpo tagliuzzato, parla della
sua compagna italiana: «È incinta e
vorrei sposarla», racconta mentre riceve
un po’ di caffé da un georgiano che
lamenta problemi di cuore.
Maxwell ha 35 anni, proviene dal
Ghana, faceva il muratore è nel Cie da
17 giorni, ha problemi di tossicodipendenza:
«Ci danno il metadone, ma non
vedo l’ora di rivedere la luce». Jabali, tunisino
21 anni, ha il volto di un ragazzino
e non vuole tornare in Nord Africa:
«Sono arrivato minorenne, nel 2007, e
a Udine ho frequentato la scuola, incominciando
a vivere come un qualsiasi
coetaneo italiano. Sono qui da 50 giorni
e mi vogliono spedire in Tunisia, ma
non voglio. Che ci vado a fare lì? Ormai
la mia vita è in Italia». Aidarai Abedì la
pensa diversamente: «Io, invece, voglio
tornare in Albania. Mia madre sta
male, voglio andarmene da qui, non
mi interessa far casino. Voglio solo
riabbracciare la mia famiglia».
Nella zona detta dell’Ospedaletto,
utilizzata per «l’isolamento medico
non disciplinare» precisa la dirigente
della prefettura, ci sono due giovani,
un senegalese e un nigeriano del Biafra.
Gli operatori dicono che sono stati
collocati lì perché omosessuali, «per
proteggerli». «Io non l’ho scelto – spiega
il secondo – qui dormiamo su letti
di ferro, senza materassi. Vogliono rispedirmi
in Nigeria, ma lì mi ucciderebbero.
Ho chiesto asilo politico».
Le altre stanze dell’Ospedaletto sono
danneggiate, i muri sono pieni di
scritte: «Georgia = Mafia», «Dio è grande
», «Fuck» declinato in vari modi. E
soprattutto «Basta» in tutte le lingue.
TORINO
Privatizzazione della detenzione amministrativa,
questo il futuro, se
non già il presente dei Cie.
«Sebbene le norme consentano l’affidamento
della gestione a soggetti di natura
privata, è lecito sollevare dubbi sulla scelta
dello Stato di “ritirarsi” da settori delicati,
come quello dell’immigrazione,
in cui si misura la civiltà
di un paese», lo sostiene Daniela
Bauduin , avvocato amministrativista,
che oltre ad aver
pubblicato Glossario dei diritti
in divenire con Elena Faletti,
ha collaborato alla stesura di
un testo importante come Contro
il reato di immigrazione
clandestina (Ediesse) di Giancarlo
Ferrari, già avvocato distrettuale
dello Stato.
«Una gestione avveduta del
fenomeno immigrazione» spiega
Bauduin, «richiederebbe
una maggiore presenza del
“pubblico”, nel rispetto dei
principi costituzionali e delle
convenzioni internazionali sui
diritti umani, al di fuori di
quell’approccio emergenziale
che, del tutto inspiegabilmente,
ancora viene richiamato
per giustificare scelte eccezionali
e derogatorie».
Secondo il Testo unico delle
disposizioni sull’immigrazione
e sulla condizione dello straniero, infatti,
spetta alla prefettura scegliere il soggetto
gestore, mediante una gara d’appalto, e
quindi controllarne l’attività svolta. A proposito
del Cie di Torino, l’11 aprile 2014
scadeva la convenzione stipulata nel triennio
precedente con la Croce Rossa Italiana
(persona giuridica pubblica), poi
prorogata in attesa della conclusione della
nuova gara. Che è stata aggiudicata
all’unico concorrente: il raggruppamento
temporaneo di imprese la società Gepsa
Sa (mandatario) con sede legale a Rueil
Malmaison Cedex (Francia) e l’associazione
culturale Acuarinto (mandante) con
sede legale ad Agrigento.
«Non è stato, invece, reso pubblico»
contesta l’avvocato Daniela Bauduin, «il
contratto stipulato tra la prefettura di Torino
e l’ente cui è stato aggiudicato l’appalto,
la cui accessibilità risulta, al momento,
sottoposta al vaglio del ministero
dell’interno. Questa decisione suscita perplessità
in virtù dei principi di trasparenza
e pubblicità dell’attività amministrativa,
così come censurabile è la mancanza
di adeguata diffusione dei dati relativi al
funzionamento effettivo dei Cie, anche allo
scopo di valutare l’entità delle risorse
pubbliche impiegate durante la loro gestione
». Per esempio, chi sono i fornitori
della struttura? Quali generi di prima necessità
vengono acquistati?
Passano gli anni e si dimenticano le radici
del problema. È bene ricordare come,
nell’ordinamento giuridico italiano,
la possibilità di trattenere gli stranieri
destinatari di un provvedimento
di espulsione in appositi
centri di permanenza temporanea
sia stata introdotta dalla legge Turco-
Napolitano che porta la data
del 6 marzo 1998.
«Tali strutture, in seguito denominate
Centri di identificazione ed
espulsione, sono luoghi in cui persone
prive di un valido titolo di soggiorno
nel territorio nazionale vengono
detenute» sottolinea ancora
l’avvocato Bauduin, «senza aver
commesso un reato accertato con
sentenza passata in giudicato. La
legittimità costituzionale dei Cie è
stata contestata da più voci, così
come è stata denunciata la violazione
di diritti fondamentali riconosciuti
dalla nostra Costituzione repubblicana
a “tutti” e non solo ai
cittadini».
Si tratta di una detenzione «amministrativa
» disposta per il solo
fatto di possedere lo stato giuridico
di «irregolare», spesso acquisito
per il venir meno del permesso di
soggiorno, anche a seguito della perdita
del posto di lavoro.
«Una misura di privazione della libertà
» conclude l’avvocato Bauduin, «che
viene disposta nell’ambito di un procedimento
amministrativo, quindi al di fuori
del processo penale e delle garanzie che
esso offre sul versante del diritto di difesa
(articolo 24 della Costituzione)». (M.Rav.)
Stanze danneggiate, mura
piene di scritte e alcuni ospiti
in sciopero della fame. Jabali:
«Arrivato in Italia da minorenne. Qui
da 50 giorni. Vogliono spedirmi in
Tunisia. Che ci vado a fare?»
Reportage dall’ultima struttura della Turco-Napolitano: un centinaio
di «clandestini» con pezzi di vita che aspettano solo di essere raccontate
TUNNEL SENZA USCITA
L’infernale
gabbia del Cie
Uscita di scena la Croce Rossa, la
gestione è stata affidata ai francesi
di Gepsa Sa e Acuarinto di Agrigento.
Ma sulla gara d’appalto e sull’uso dei
soldi pubblici non c’è trasparenza.
Il diritto / DANIELA BALDUIN, AVVOCATO AMMINISTRATIVISTA
«Qui scatta la detenzione senza reato accertato
È una violazione della nostra Costituzione»”(fonte:ilmanifesto.it)

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