Cie: ‘Eu 013 – L’ultima frontiera’: un doc sull’ergastolo bianco dei migranti

“Col documentario Eu 013 – L’ultima frontiera, per la prima volta delle videocamere sono riuscite a varcare i cancelli d’ingresso di un Centro di identificazione ed espulsione per migranti e per la prima volta è stato possibile vedere cosa significhi vivere dentro un Cie in Italia. Realizzato nel 2013 da Alessio Genovese e Raffaella Cosentino, grazie al sostegno di Open Society Foundations, il 24 giugno di quest’anno il video-reportage è stato proiettato al Parlamento Europeo di Bruxelles, altre due altre proiezioni sono state organizzate da associazioni e collettivi, attirando un notevole numero di partecipanti.

Sessanta minuti di riprese fra i Cie di Roma, Bari e Trapani, con immagini girate al porto di Ancona e all’aeroporto internazionale di Fiumicino, per comprendere come vengano svolti i controlli dei veicoli approdati a bordo delle navi e conoscere in che modo venga analizzato il profilo di un passeggero, per distinguere un comune turista da un soggetto intenzionato a non ripartire dal territorio europeo.

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Un video-documentario che meriterebbe di essere trasmesso in Italia e che permetterebbe ai cittadini interessati di affrontare il dibattito sulle politiche migratorie in maniera meno pregiudizievole e più informata.

Immagini che mettono in scena i visi, le storie e i pensieri delle persone recluse in centri che già nel 2013 costavano circa 55milioni all’anno e dai quali solo la metà delle persone in fermo venivano poi rimpatriate nei loro paesi d’origine. Circa otto mila soggetti ogni anno: donne e uomini detenuti fino a un periodo di 18 mesi per un illecito amministrativo, come ha spiegato il regista Alessio Genovese a conclusione dell’ultima proiezione a Bruxelles, il 25 giugno.

“Nei Cie sono detenute delle persone che non hanno un documento, e che quindi hanno commesso un reato amministrativo, nulla di più. Come se uno venisse arrestato per aver parcheggiato in divieto di sosta… Inoltre, l’inefficacia di queste strutture è dimostrata sia dai costi di gestione sia dai numeri delle persone che realmente vengono identificate ed espulse dopo essere passate da un centro di identificazione ed espulsione. Nel 2013, quando è stato girato il documentario, in Italia erano stati registrati circa 300mila irregolari. Di questi circa 4mila erano stati realmente rimpatriati”.

Tra le storie raccontate dal documentario EU 013 – L’ultima frontiera, si ascoltano le parole di persone che sono state in diversi centri, regolarmente uscite con l’ordine di lasciare il territorio italiano, ogni volta partite verso un altro paese europeo e puntualmente rimandate in Italia a causa del regolamento di Dublino, che prevede che il primo paese in cui viene identificato il richiedente asilo sia il solo in cui sia possibile presentare la domanda per ottenere lo status di rifugiato.

Si conoscono storie di persone che ogni 30 o 60 giorni vengono convocate in un ufficio per scoprire che hanno altri due mesi da fare all’interno del centro. Esseri umani che lamentano l’impossibilità di sapere quando e come usciranno da quella prigione, e che si sentono parte di un sistema che specula sulle loro vite per alimentare un business altamente redditizio.

Un “ergastolo bianco”, come lo ha definito uno dei detenuti del Cie di Milo, a Trapani, dove si alternano i mesi reclusi dentro un Cie a quelli passati fuori nella paura di poterci rientrare da un momento all’altro. Vittime di un circolo vizioso dove l’assenza di un permesso di soggiorno ti impedisce di trovare un lavoro regolare e la mancanza di un contratto non ti permette di avere i documenti in regola per uscire dallo stato di “clandestinità”.

“Dopo l’ingresso dell’Italia nell’area Schengen – spiega il regista Alessio Genovese – nel 1998 viene aperto il primo Cie, a Trapani. Una struttura che prima non era mai stata neppure concepita e che secondo me rappresenta la conseguenza di un processo sociale e culturale che non riguarda solo l’Italia ma che ha accomunato tutti gli stati dell’Unione Europea, entro i quali era necessario creare un sentimento comunitario che necessitava la presenza di un Altro, inteso come esterno e diverso da noi”.di Erika Farris (fonte:ilfattoquotidiano.it)

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