“Timbuktu”, il vero volto dello jihadismo

timbuktu
” È ora nelle sale italiane un film che, evitando di strillare proclami e di abusare nel mostrare violenza, permette di capire molto della penetrazione del fondamentalismo islamista in Africa. Ambientato in Mali, con piccoli aggiustamenti potrebbe valere per la Siria, l’Iraq o la Nigeria. È Timbuktu del mauritano Abderrahmane Sissako, candidato all’Oscar come miglior film straniero (effettivamente tragico ma bellissimo).
il trailer del film

Nella città maliana patrimonio dell’Unesco e famosa per le sue biblioteche, la “grande storia” – l’occupazione nel 2012 di Timbuktu da parte degli jihadisti, poi liberata dalle truppe francese – si intreccia con la “piccola storia” della famiglia tuareg di Kidane, che vive in una tenda tra le dune sabbiose insieme alla moglie, alla figlia e al giovanissimo guardiano della loro mandria di mucche.

Le due vicende si intrecciano quando Kidane uccide accidentalmente Amadou, l’agricoltore che aveva massacrato il bue della mandria, e sarà quindi giudicato secondo la nuova legge che hanno portato gli invasori.

Sullo sfondo, il regime di terrore, con divieti assurdi, corti improvvisate e lapidazioni, che gli islamisti impongono per controllare le vite degli abitanti. Quando gli jihadisti irrompono senza togliere le scarpe nella moschea tra i fedeli in preghiera, emerge come siano estranei al tessuto, profondamente islamico, di Timbuktu: si scontrano con l’imam locale, devono girare con interpreti.

Come la riflessione sul nazismo e la Shoah ci ricorda che è necessario fare, Sissako è bravissimo a mostrare come i terroristi non siano solamente dei “pazzi scatenati”, ma indaga i meccanismi alla base della loro trasformazione. Senza alcun ambiguità, ne riconosce i tratti umani, i dubbi e i cedimenti: il capo che fuma di nascosto tra le dune, l’ex rapper a cui è stato fatto il lavaggio del cervello, il quale pensa che, quando faceva musica, era nel peccato ma davanti alle telecamere si inceppa in balbuzie e non riesce a essere efficace nel registrare un messaggio di propaganda.

C’è poi la resistenza degli abitanti (musulmani) di Timbuktu, una città un tempo simbolo della tolleranza e della ricchezza culturale, per cui opporsi all’oscurantismo vuol dire suonare o cantare di notte. A rischio della vita.

E la speranza che l’estremismo che ha preso in ostaggio l’Islam non vincerà è rappresentata dalla scena forse più bella del film: due squadre di ragazzini che si divertono giocando a calcio senza pallone (sequestrato dagli jihadisti) tra “rigori d’aria” e pedate nel vuoto.

Il regista mauritano ha spiegato che la sua scelta di girare un film sui terroristi nasce da un episodio avvenuto il 29 luglio 2012 ad Aguelok, una piccola città nel Nord del Mali, quando una coppia di trentenni, genitori di due figli, sono morti lapidati. «La loro unica colpa», racconta, «era di non essere sposati. I mezzi di comunicazioni chiusero gli occhi, ma il video dell’assassinio fu pubblicato sul web».

Anche alcuni personaggi del film, interpretati talvolta da attori non professionisti, sono tratti dalla realtà: «Sono andato a Timbuktu», aggiunge Sissako, «quando è stata liberata dalle truppe francesi. La gente del posto mi consigliò di parlare con una venditrice di pesce che aveva accettato di indossare il velo contro la sua volontà ma aveva poi osato sfidare gli jihadisti. Ho visto anche quelle ragazze stuprate che chiamano vergognosamente “sposate con la forza”. Ho raccolto tutte queste testimonianze, con attenzione, cercando di restituirle in modo genuino, pudico, senza amplificarle».” di Stefano Pasta(fonte:famigliacristiana.it)

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