Il lungo viaggio dei rifugiati invisibili

Immigrazione: a Salerno nave Etna con oltre 2mila profughi
“Nel 2014 sono sbarcati in Italia 166mila immigrati, ma solo 70mila hanno presentato domanda di asilo: gli altri usano il nostro Paese come corridoio per arrivare nel Nord Europa dove vogliono effettivamente andare. Fanno di tutto per non essere registrati: sarebbero costretti a fermarsi in Italia, come previsto dal Regolamento di Dublino. Una omissione che avviene spesso con il tacito assenso delle nostre autorità che si liberano così di molti stranieri.

ROMA – Gli sbarchi di stranieri in Italia, nel 2014, sono stati centosessantaseimila (altri 459 sono arrivati nella prima settimana del 2015). Per la maggior parte si tratta di siriani e eritrei in fuga dai conflitti dei loro paesi. Le domande di asilo, settantamila. Ciò significa che la maggior parte dei migranti sbarcati in Italia non è stata identificata. Centomila “invisibili” – così sono stati soprannominati – sono (o sono stati) presenti fisicamente sul nostro territorio. Ma non risultano in “banca dati”. Ci sono, ma ufficialmente non esistono. E per questo nessuno sa nulla di loro. Stando alle fonti del Viminale, gli “eventi migratori illegali” registrati nei primi 10 mesi del 2014 sono stati 945. Centotremila sono sbarcati in Sicilia (31 mila nel 2013), quasi tutti partiti dalla Libia (128 mila), 15 mila in Puglia (884 nel 2013), 20 mila in Calabria (3 mila nel 2013). A Lampedusa ne sono arrivati 4 mila contro i 13 mila dell’anno prima. Dei 149 mila, la maggior parte sono siriani (35 mila contro gli 11 mila del 2013) seguiti dagli eritrei (33 mila contro i 10 mila del 2013).

Poiché il Regolamento di Dublino III prevede che venga rispedito nel nostro Paese uno straniero foto-segnalato in Italia se fermato ad esempio in Germania, Francia o Svezia, la non-identificazione è tanto interesse degli stranieri quanto dell’Italia. Interesse dei migranti, perché altrimenti non riescono a ricongiungersi con i propri connazionali (comprensibile dunque che rifiutino in tutti i modi di farsi identificare da noi). Interesse dell’Italia, perché così si “libera” della gran parte degli stranieri: non li identifica a patto che se ne vadano. Patto non scritto, s’intende. Ma questo nostro modus operandi ha fatto arrabbiare l’Europa che, in estate – incredibilmente proprio mentre all’Italia toccava la Presidenza del Consiglio dell’Unione Europea – ha protestato energicamente con il nostro governo.

Colabrodo. I motivi della presa di posizione europea si intuiscono dalle statistiche ufficiali di Eurostat (ultimi dati disponibili aggiornati a giugno 2014): cinquecentomila domande di asilo sono state presentate in Europa nei dodici precedenti mesi. Questo dato dimostra che sono un colabrodo le frontiere europee (quindi anche quelle via terra del Nord-Est, e non solo quelle via mare del Sud, compresa la “porta” africana di Melilla). E conferma che l’emergenza degli “ingressi illegali” riguarda l’intera Europa. E non solo l’Italia. Secondo quei dati Eurostat, le richieste d’asilo in Germania negli ultimi dodici mesi (giugno 2013, giugno 2014) sono state 153mila (470 per milione di abitanti), in Svezia 67mila (la più alta proporzione rispetto alla popolazione, 1960 per milione di abitanti), in Francia 64mila (235 per milione di abitanti). In Danimarca “solo” 7mila domande, ma i migranti sono 470 per milione di abitanti. Visti questi numeri, va da sé che gli stati europei preferiscano che i centomila in transito nel nostro Paese se ne restino in Italia. E va da sé che l’Italia abbia un interesse diametralmente opposto: evitare che chi vuol raggiungere altri stati resti “bloccato” in Italia. Di qui, la tensione politica dell’estate scorsa.

Il problema, del resto, non è certo di polizia, ma politico e rientra nelle sempre più pressanti richieste di modifica del Regolamento di Dublino III che dovrebbero consentire al profugo di scegliere lo stato di destinazione: soluzione caldeggiata dagli stati del Sud Europa, compresa l’Italia (che avrebbe potuto approfittare del suo semestre di guida, ma non l’ha fatto). E fortemente osteggiata da quelli del Nord.

Bacchettate. Per Khalid Chaouki, deputato Pd, coordinatore “Intergruppo parlamentare immigrazione”, “l’Italia per avere voce in capitolo e cambiare il “regolamento di Dublino III” deve innanzitutto rispettarlo, anche e soprattutto per garantire i più vulnerabili che, perdendosi nelle maglie della non identificazione, rischiano di cadere vittime della tratta e dello sfruttamento”. “Garantire l’identificazione dei richiedenti asilo, però – aggiunge Chaouki – significa spesso andare contro la loro stessa volontà. Molti rifugiati, infatti, manifestano la loro intenzione di non lasciare le proprie impronte digitali al fine di trasferirsi in altri paesi europei e ricongiungersi con eventuali parenti”.

Di fronte alle bacchettate europee alle autorità italiane, il ministero dell’Interno ha reagito il 23 settembre con una circolare che disponeva la distribuzione di 162mila volantini informativi in diverse lingue agli stranieri appena arrivati, ammonendoli che, se si fossero rifiutati di essere identificati, la polizia li avrebbe foto-segnalati “con l’uso della forza”. E li avrebbe denunciati all’autorità giudiziaria. Il volantino non spiegava come fosse possibile denunciare delle persone prive di identità. Inoltre, conteneva una incredibile stranezza solo per gli stranieri francofoni: l’avviso che, oltre ai rilievo delle impronte digitali, sarebbero stati sottoposti all’acquisizione delle “impronte dei palmi delle mani” (des palmes des mains). Peccato che le impronte palmari, a causa di problemi informatici, al momento non possano essere usate per le comparazioni. Ma tant’è.

Volantini. Due giorni dopo la circolare sui volantini, il Viminale emetteva una seconda circolare con le “indicazioni operative” alle questure italiane per la regolarizzazione mediante foto-segnalameno e rilievi dattiloscopici tutti gli “ingressi illegali”. Le circolari del Viminale hanno svegliato un po’ le questure, ma è rimasto il fatto che non è possibile materialmente obbligare qualcuno a farsi sottoporre a foto-segnalamento. Nella pratica, le due iniziative del ministero dell’Interno hanno sortito due effetti negativi. Il primo è che ha messo in difficoltà le forze dell’ordine perché non hanno strumenti e mezzi per foto-segnalare tutti i migranti. Il secondo è che ha spaventato i migranti che, temendo il possibile uso della forza nei loro confronti, sono stati ancor più incentivati a opporre resistenza, oppure a sottrarsi a ogni controllo non appena messo il piede in Italia.

A quasi tre mesi dalle due circolari del Viminale sul foto-segnalamento, (all’epoca gli “ingressi illegali” erano 130mila), sono stati registrati altri 36mila sbarchi. E la prassi di non identificare tutti gli stranieri, ma solo una minima parte, continua. Lo conferma Desio De Meo, dell’organizzazione “Farsi Prossimo”: è il responsabile del centro di accoglienza “Casa Suraya”, una delle strutture che a Milano accolgono i profughi siriani di passaggio in città. “Chiediamo ai nostri ospiti se siano stati foto-segnalati da qualche parte – raconta – E la risposta è sempre ‘no'”. Certo è che i flussi migratori si sono praticamente tiplicati nel corso del 2014 rispetto all’anno precendente. Per fronteggiare un’emergenza di simili proporzioni sarebbe stato necessario garantire un adeguato investimento di uomini e mezzi, anche con il contributo dell’Europa. E invece il dibattito politico è stato praticamente tutto assorbito e ridotto al superamento di Mare Nostrum con Triton.

Un piano nazionale. “In Italia – denuncia Daniele Tissone, segretaio Cgil-Silp – nonostante tante chiacchiere, non abbiamo ancora un piano nazionale per la gestione dell’emergenza immigrazione. Ciò genera una gestione dell’accoglienza in una situazione, questa sì, di continua emergenza”. “La prova della mancanza di un piano arriva dai Cie: dei tredici previsti in Italia, ce ne sono in funzione cinque o sei operanti al 50 per cento che ospitano (a fronte di decine di migliaia di “ingressi illegali”) circa 400 stranieri in attesa di indentificazione e espulsione”. “Negli ultimi anni – conclude Tissone – il 60 per cento di tutti i migranti “irregolari” rintracciati sul nostro territorio, pur essendo transitati nei Cie, di fatto è rimasto in Italia, segno del fallimento dell’obiettivo che si era posto il legislatore. Oggi, meno del 50 per cento degli stranieri chiede asilo in Italia, gli altri si rifiutano. E noi cosa dovremmo fare secondo il Viminale? Denunciare chi si oppone all’identificazione e intasare le procure? Senza contare che a volte può capitare che i rilievi fotografici fatti dalle nostre scientifiche siano inseriti nella banca dati nazionale che non dialoga con quella europea”.

Sulla stessa linea il sindacato indipendente Coisp. “A metà dicembre, a Padova – tuona Franco Maccari – cinquantaquattro stranieri si sono rifiutati di farsi foto-segnalare. Mi fa ridere pensare che dovremmo denunciarli se non sappiamo chi sono. Di questi, quarantadue nella notte si sono dileguati”. “Al Brennero – continua il leader Coisp – è un disastro, una Lampedusa di montagna: la polizia austriaca si piazza sui treni e rispedisce indietro tutti i migranti che arrivano dall’Italia. E il Viminale cosa fa? Chiude 267 uffici, ottanta dei quali della Polizia ferroviaria. E poi distribuisce quei volantini che ci hanno creato solo disagi e difficoltà”.

Finanziamenti. Per Giuseppe Tiani, segretario del Siap, “la carenza di uomini e mezzi rende di fatto impossibile foto-segnalare tutti gli stranieri. Penso che per affrontare questo problema servano finanziamenti straordinari. Ma alla luce di quanto è emerso nell’inchiesta “Mafia Capitale”, penso che i fondi debbano essere gestiti dalla polizia”. Per Lorena La Spina, segretario dei Funzionari di polizia, “il notevole aumento dei flussi migratori ha complicato enormemente l’organizzazione dei servizi di foto segnalamento sul territorio, ad esempio in prossimità dei punti di arrivo o smistamento, così da ridurre possibilità di fuga e di elusione. Si tratta di un’attività molto difficile da compiere senza la collaborazione degli interessati, con particolari criticità per i nostri operatori. Anche per questo sarebbe auspicabile una modifica del Regolamento di Dublino, che potrebbe favorire proprio la partecipazione da parte degli stranieri alle procedure di identificazione, con effetti positivi sulla sicurezza del nostro Paese e dell’intera Europa”.

MELILLA – Mamadou sta seduto su una roccia, lo sguardo rivolto verso il mare, il cappuccio della felpa sulla testa per proteggersi dal vento. Ha diciassette anni e viene dal Mali, e da quattro mesi è tra i circa quattromila abitanti di quella che è una vera e propria tendopoli sulle pendici di una montagna impervia, esposta ad ogni tipo di intemperia. Tende fatte di sacchi di plastica, coperte raccolte dai bidoni dell’immondizia, piccoli falò per riscaldarsi, e nulla più.

Scappato dalla guerra nel nord del Mali, dalla povertà, dalla violenza e dalla fame, Mamadou ha attraversato Mauritania e Algeria prima di raggiungere questo monte che si erge di fianco alla città marocchina di Nador e guarda dall’alto la piccola enclave spagnola di Melilla, la porta d’Europa in Africa.

Qui ha incontrato migranti provenienti da buona parte dell’Africa subsahariana. Ci sono Maliani, Senegalesi, Camerunensi, Liberiani, Ghanesi, Guineensi, tutti giunti su queste pendici rocciose con un unico obiettivo: superare il muro che divide il Marocco da Melilla. Una tripla barriera di 12 chilometri, controllata da dozzine di telecamere e pattugliamenti continui da parte della Guardia Civil spagnola. Una fortezza apparentemente inespugnabile, ma non per queste persone in fuga da una vita di stenti che sognano un futuro migliore. Tre o quattro volte alla settimana i migranti scendono a ondate dal Monte Gurugu e, dopo aver studiato la posizione delle guardie, provano a saltare il muro. Quelli che ce la fanno vengono portati al CETI (Centro de Estancia Temporal de Inmigrantes), un centro di primo soccorso sull’orlo dell’esplosione con quasi duemila persone in spazi studiati per al massimo cinquecento, in attesa di conoscere il loro destino, gli altri, fermati dalla Guardia Civil, vengono rispediti immediatamente in Marocco dove finiscono nelle mani delle forze di sicurezza di Rabat.

“Una chiara violazione delle leggi internazionali – spiega José Palazon, un attivista di Melilla – che espone i migranti a nuove violenze in un Paese che non rispetta i diritti umani. Ogni volta che c’è un tentativo di salto del muro, centinaia di migranti rimangono feriti, non dalla barriera di ferro, ma dai bastoni della polizia marocchina”. E’ questo il più grande incubo dei migranti in attesa di entrare a Melilla: la polizia marocchina. Lo è sia di quelli che vivono tra gli alberi sul monte Gurugu sia di quelli che si nascondono nelle periferie delle città del Marocco in attesa di arrivare in Europa (circa 80mila persone secondo una recente stima).

L’intervento dei soldati. “Quasi ogni giorno all’alba, i soldati marocchini lasciano la loro base ai piedi del Gurugu e vengono a distruggere il nostro accampamento e tutte le nostre cose”, racconta Idriss che a stento riesce a camminare a causa dei colpi ricevuti da parte dei soldati. “Abbattono le tende, le bruciano, gettano via il poco cibo che abbiamo messo da parte, ci rubano i soldi, i telefoni, e se riescono a prendere qualcuno di noi lo arrestano, lo picchiano e lo portano a Rabat. Cadiamo dai dirupi, molti di noi si rompono braccia e gambe, non abbiamo medicine con le quali curarci. Abbiamo smesso di contare i morti”.

Mamadou porta addosso ancora i segni dell’ultimo pestaggio ricevuto, sull’avambraccio sinistro, una larga ferita da poco cicatrizzata. Freddo, fame, disagi e violenze sono all’ordine del giorno sul Monte Gurugu. Un monte che ogni anno che passa sembra sempre più un girone dantesco, dove solo tre o quattro ragazze hanno il coraggio di vivere invece di unirsi alle donne nascoste nelle foreste di Selouane in attesa di una piccola barca che le possa portare, con i loro figli, sulla spiaggia di Melilla.

Non tutti i migranti infatti provano ad entrare a Melilla saltando il muro. Quelli che lo fanno sono i più disperati, quelli che hanno speso tutti i soldi racimolati prima della partenza durante il viaggio fino a qui, quelli ai quali i soldi sono stati rubati dalla polizia e dai soldati, dalla mafia che controlla il traffico di migranti. Quelli che se lo possono permettere provano ad arrivare a Melilla via mare, o comprando passaporti falsi (per lo più le persone provenienti dal Medio Oriente e dagli altri paesi nord africani). Altri pagano duemila euro per un passaggio in auto. Ma non nel sedile del passeggero, bensì nel doppiofondo del bagagliaio, vicino al motore, al tubo di scappamento. “Un rischio enorme per la vita, queste persone rimangono ore senza aria, a temperature elevate – spiega Juan Antonio Martin Rivera, luogotenente della Guardia Civil – Da quello che sappiamo solamente qui i migranti provano ad attraversare la frontiera in questo modo”.

Lo stesso sogno. Tutti hanno lo stesso sogno: l’Europa. Un’Europa che invece non li vuole, che chiude gli occhi davanti alle violenze, sia marocchine che spagnole, sempre più spesso denunciate dalle ong. Secondo Abdelmalik El Barkawi, delegato del governo spagnolo a Melilla, “l’enclave sta affrontando una pressione migratoria senza precedenti” e probabilmente è per questo motivo che il governo di Mariano Rajoy non ha detto nulla sulla nuova, ulteriore, barriera che il Marocco sta costruendo attorno a Melilla. Un muro con filo spinato che, secondo alcuni giornali locali, sarebbe stato finanziato con parte dei cinquanta milioni di euro ottenuti dalla Spagna dall’Unione Europea per rafforzare le proprie frontiere. “Affermazioni prima confermate e poi smentite da Madrid”, dice padre Esteban Velazquez, gesuita, uno dei pochi a fornire aiuto ed assistenza ai migranti che si trovano in territorio marocchino.

Abbandonati a se stessi, intrappolati alle porte dell’Europa, vittime impotenti di violenze continue, i migranti sub sahariani “sono costretti anche ad affrontare deportazioni illegali da parte del governo spagnolo. Quando un migrante passa la frontiera si trova in territorio spagnolo e non può essere rimandato in Marocco. Ha il diritto di avere a disposizione un traduttore e un avvocato, e può fare richiesta d’asilo. Il governo di Madrid non ha alcun diritto di riportare i migranti in un Paese nel quale la loro vita è in pericolo”, afferma Teresa Vazquez Del Rey, avvocato del CEAR (ComisionEspanola de Ayuda al Refugiado).

A un centinaio di chilometri da Nador e Melilla c’è la città di Oujda, un’area di transito per molti migranti sul confine algerino. Qui la vita per le persone in attesa di partire per l’Europa sembra essere leggermente migliorata da quando, nel settembre 2013, il governo marocchino ha deciso di dirottare i migranti arrestati a Nador non più qui, ma a Rabat. “Prima le violenze erano quotidiane”, racconta Abdullah, 35 anni dal Burkina Faso. “Molte persone stanno iniziando a capire che tentare di arrivare in Europa è davvero troppo pericoloso. Quindi in centinaia hanno fatto domanda per un permesso di residenza qui in Marocco per provare a vivere e lavorare nel Paese”. La maggior parte dei migranti di Oujda vivono al FAC, una sorta di piccolo campo fatto di tende allestito all’interno del campus dell’Università Mohamed I. Sono aiutati dagli studenti e il clima che si respira sembra apparentemente calmo. Tuttavia i giornalisti non sono i benvenuti perché qui la presenza della mafia nigerina, che controlla il traffico di uomini e donne, è molto forte.

Sceriffi.Perché, allora, la situazione nella quale si trovano a vivere i migranti a Oujda e a Nador è così diversa? Padre Esteban Velazquez non ha dubbi: “Perché a Nador, e nella vicina Beni Ensar, c’è la frontiera spagnola e il governo di Madrid ha delegato il ruolo di sceriffo alla polizia marocchina”.

Violenze, mafia, arresti, nulla sembra essere in grado di scalfire la forza di volontà di queste persone, di questi migranti che da più di cinque anni vivono e si nascondono in Marocco, su di un monte, per riuscire ad entrare a Melilla. “Un mio amico, Moussa, è stato sul Gurugu per cinque anni, ha provato sessantasette volte a saltare il muro” racconta Ibrahim mentre gioca a carte in una piccola tenda adibita a casinò sulle pendici del monte. “La sessantottesima volta ce l’ha fatta. Possono trattarci come animali, picchiarci, rubarci tutto, ferirci, anche ucciderci, ma non sanno da cosa scappiamo e non sanno quanto sia forte il nostro desiderio di arrivare in Europa. Non abbiamo nulla da perdere, nemmeno la nostra vita”. di GIULIA CARRARINI, TOMASO CLAVARINO e ALBERTO CUSTODERO (fonte:inchieste.repubblica.it)

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