I magistrati dell’ ANM definiscono la nuova legge ” una spada di Damocle ” della responsabilità civile

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“L’Assemblea Generale dell’ANM tenutasi a Roma il 9.11.2014, nel proclamare lo stato di mobilitazione dei magistrati, ha indetto la Giornata per la Giustizia. Da un capo all’altro del Paese l’Associazione Nazionale Magistrati ha indetto momenti di incontro e di confronto con la popolazione per far conoscere le proprie rivendicazioni. L’ANM di Trapani, oltre ad aprire il Tribunale di Trapani il prossimo 17 gennaio alla popolazione con un ricco programma di iniziative, ha diffuso un documento che diffondiamo in maniera integrale, riportante le firme del Segretario Fiammetta Lo Bianco e del Il Presidente Samuele Corso.

Il 17.1.2015 a partire dalle ore 10,00 i Tribunali saranno aperti alla cittadinanza per realizzare un momento pubblico di riflessione e confronto, in modo da diffondere una corretta informazione sull’attività giudiziaria, sensibilizzare sulle condizioni di lavoro dei magistrati e approfondire gli effetti distorsivi prodotti dalla riforma in materia di responsabilità civile dei magistrati. I magistrati trapanesi, con la proiezione di slide e filmati e con la recita di pièce teatrali, si soffermeranno sulle attuali condizioni di lavoro:

La spada di Damocle della responsabilità civile

L’art. 28 della Costituzione, pacificamente applicabile anche ai magistrati, afferma la regola in base alla quale “i funzionari e i dipendenti dello Stato e degli enti pubblici sono direttamente responsabili, secondo le leggi penali, civili e amministrative, degli atti compiuti in violazione di diritti. In tali casi la responsabilità civile si estende allo Stato e agli enti pubblici”.

Il codice di procedura civile del 1940, agli artt. 56, 57 e 74, aveva subordinato l’azione di responsabilità civile nei confronti dei magistrati all’autorizzazione del Ministro e ne aveva individuato l’ambito, limitandolo alle condotte dolose, al rifiuto, all’omissione e al ritardo di provvedere sulle domande o istanze delle parti e, in generale, di compiere un atto del loro ministero.

Tali disposizioni sono state abrogate per effetto del referendum popolare del novembre 1987. Fu, quindi, approvata la legge 13 aprile 1988 n. 117 (c.d. legge Vassalli). La disciplina della responsabilità civile dei magistrati in deroga alla normativa ordinaria del codice civile, non costituisce un’eccezione ritagliata in via esclusiva per la funzione giudiziaria.

Nel panorama dell’impiego pubblico: l’art. 23 DPR 3/1957 limita la responsabilità dei pubblici impiegati verso i terzi ai soli casi di dolo e colpa grave; l’art. 61 L. 312/1980 limita la responsabilità del personale docente e non docente degli istituti scolastici per i danni arrecati all’Amministrazione in connessione a comportamenti degli alunni, ai soli casi di dolo o colpa grave nell’esercizio della vigilanza.

Quanto alle attività professionali: l’art. 2236 c.c. prevede che “se la prestazione implica la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà, il prestatore d’opera non risponde dei danni, se non in caso di dolo o di colpa grave”.

Per i medici: l’art. 3 D.L. 158/2012, pur richiamando l’art. 2043 c.c., dispone però che il giudice tenga conto “anche nella determinazione del danno” del rispetto delle linee guida e delle buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica, rispetto che, anche in caso di colpa lieve, esclude ogni responsabilità in sede penale.

Mentre i medici intervengono per cercare di curare e salvare vite umane, i magistrati danno sempre torto a qualcuno. La funzione giudiziaria è conflittuale per definizione e ogni paragone con altre professioni è, comunque, improprio, perché i magistrati, qualunque decisione prendano, scontentano sempre taluna delle parti nei processi civili e gli imputati o le vittime nei processi penali.

L’attuale legge Vassalli prevede che i magistrati rispondano direttamente nella sola ipotesi di danni derivanti da fatti costituenti reato, commessi nell’esercizio delle loro funzioni. Nelle altre ipotesi in cui è prevista la risarcibilità dei danni derivanti dall’esercizio delle funzioni giudiziarie, il danneggiato può agire solo verso lo Stato, al quale è poi attribuita una limitata azione di rivalsa.

È ammessa l’azione contro lo Stato – e attualmente la rivalsa facoltativa dello Stato contro il magistrato – nel caso di un comportamento, di un atto o di un provvedimento giudiziario posto in essere dal magistrato con dolo o colpa grave nell’esercizio delle sue funzioni, ovvero per diniego di Giustizia.

Le ipotesi di colpa grave sono:
la grave violazione di legge determinata da negligenza inescusabile (ad esempio: perquisizione presso lo studio di un avvocato senza dare prima l’avviso al Presidente dell’Ordine degli avvocati);
l’affermazione, determinata da negligenza inescusabile, di un fatto la cui esistenza è incontrastabilmente esclusa dagli atti del procedimento (Tizio è condannato per rapina perché Caio lo ha riconosciuto; non è vero, Caio non l’ha mai riconosciuto oppure addirittura non esiste un testimone Caio);
la negazione, determinata da negligenza inescusabile, di un fatto la cui esistenza risulta incontrastabilmente dagli atti del procedimento (Tizio è assolto perché nessuno lo ha riconosciuto; non è vero, Caio lo ha riconosciuto);
l’emissione di provvedimento concernente la libertà della persona fuori dei casi consentiti dalla legge oppure senza motivazione (arresto per guida senza patente, non consentito dalla legge; oppure arresto per rapina senza spiegare quali sono le prove).

In ogni caso non può dare luogo a responsabilità l’attività d’interpretazione di norme di diritto né quella di valutazione del fatto e delle prove.

In tal modo si è voluto garantire il principio di indipendenza e imparzialità della giurisdizione, evitando le interferenze che un’azione civile diretta e incontrollata potrebbe produrre sul giudizio e le improprie strumentalizzazioni derivanti da azioni di natura puramente ritorsiva o esercitate in funzione di rimedio processuale e salvaguardando la serenità del giudizio dagli effetti distorsivi di impieghi impropri dell’azione di responsabilità e dalle conseguenze di azioni, pur fondate, esercitate però a fronte di un’attività delicata e intrinsecamente complessa.

Tra pochi giorni verrà discusso alla Camera il testo, già approvato dal Senato, di riforma della legge Vassalli sulla responsabilità civile dei magistrati. I magistrati contestano la modifica della legge Vassalli e la vulgata in base alla quale è l’Europa a chiedere una riforma incentrata sulla responsabilità civile del singolo magistrato per le proprie decisioni: nelle sentenze della Corte di Giustizia dell’Unione Europea si afferma la necessità di un rafforzamento dei diritti del cittadino che, ove lesi, vedranno la responsabilità diretta della Stato.

La proposta di legge di riforma opera profonde modifiche:
viene prevista la separazione fra l’ambito della responsabilità dello Stato e quello della responsabilità del magistrato;
i casi di responsabilità vengono modificati e resi più ampi, con l’introduzione, fra l’altro, dell’ipotesi del “travisamento del fatto o delle prove”;
viene integralmente eliminato il filtro di ammissibilità dell’azione di responsabilità e viene prevista l’obbligatorietà dell’azione di rivalsa;
vengono estesi i limiti della rivalsa.

La responsabilità civile comporta che il cittadino che non vede accolte le sue difese e che si sente danneggiato (una delle parti in causa è sempre scontentata) per una decisione presa anche nel corso del giudizio (decorsi tre anni dalla data del fatto che ha cagionato il danno e non solo quando la decisione è irrevocabile) può agire nei confronti dello Stato per il risarcimento del danno, dolendosi della soluzione adottata dal giudice.

Se viene approvata la riforma, poiché è previsto l’obbligo di rivalsa dello Stato nei confronti del magistrato, il giudice o pubblico ministero avrà interesse a costituirsi nel giudizio intentato dal cittadino contro lo Stato in modo da poter argomentare le proprie difese ed evitare, in caso di condanna dello Stato, di soccombere nel successivo giudizio di rivalsa dello Stato nei suoi confronti.

In tal modo, se non si è ancora concluso in via definitiva il processo nell’ambito del quale è stata assunta la decisione per cui il cittadino ha agito contro lo Stato e se il magistrato è intervenuto nel giudizio di responsabilità instaurato dal cittadino contro lo Stato, il magistrato dovrà astenersi dall’ulteriore trattazione del processo. In futuro il magistrato, comunque, non potrà trattare successivi processi nei confronti di quel cittadino.

Così si creeranno incompatibilità dei magistrati a cascata con inevitabili effetti di arretramento ed immobilismo dell’azione giudiziaria.

Quindi, sarà sufficiente intraprendere un’azione di responsabilità per scegliere il magistrato che più aggrada per il proprio processo e per ammonire i giudici che in futuro dovranno occuparsi del caso.

Tanto più che l’ipotesi di riforma prevede l’abolizione del filtro di ammissibilità della azione di responsabilità, con la conseguenza che il giudizio si instaurerà in assenza di qualsiasi vaglio preventivo o condizione di proponibilità e senza che tale abolizione sia compensata da meccanismi sanzionatori diretti a disincentivare azioni di responsabilità strumentali, ritorsive o intimidatorie: l’abolizione del filtro spalancherà le porte del giudizio non soltanto alle domande manifestamente infondate, ma perfino a quelle sfornite dei requisiti formali minimi; tale abolizione si pone in palese controtendenza rispetto alla scelta di diffondere e ampliare sempre più le soluzioni deflative che mirano a prevenire l’inutile proliferazione delle liti e ai casi particolari di delibazione preliminare dell’ammissibilità della domanda.

La riforma prevede l’introduzione dell’ipotesi di responsabilità – indeterminata e pericolosa – del “travisamento del fatto o delle prove” che impedirà qualsiasi decisione serena e libera: la funzione giudiziaria ha contenuto fortemente e tipicamente valutativo e le attività di interpretazione e di valutazione non possono tollerare limitazioni che discendano da simili prospettive di responsabilità civile.

Gli effetti gravemente distorsivi della riforma implicano che i magistrati saranno in balia di timori e condizionamenti e la qualità delle decisioni sarà compromessa.

Proprio nel momento in cui la magistratura ha smascherato un sistema criminale radicato anche nelle Istituzioni romane, la riforma della responsabilità civile dei magistrati ha il sapore di una rivalsa dei poteri forti che hanno mezzi e risorse per intentare continuamente cause di responsabilità civile.

Agli osannanti proclami di lotta alla corruzione e al crimine organizzato la politica risponde con un’azione punitiva verso la magistratura, mostrando ai cittadini la generalizzata possibilità di agire senza alcun filtro contro i magistrati.

La Sottosezione dell’ANM di Trapani ritiene che sul tema della responsabilità civile dei magistrati non si possano accettare mediazioni e arretramenti.

Bisogna dire NO a norme punitive per i magistrati.

Sono in gioco principi non negoziabili, che garantiscono non soltanto l’indipendenza e la terzietà del magistrato, ma la tenuta e l’efficienza del sistema giudiziario e, quindi, i cittadini stessi, in quanto un magistrato è sempre esposto al rischio di azioni potenzialmente ritorsive da parte di chi non ha visto accolte le sue difese.

È necessario portare avanti questa battaglia non per difendere un privilegio, ma per garantire l’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge.

I magistrati, quindi, chiedono:
la distinzione tra responsabilità diretta ed esclusiva dello Stato per violazione del diritto dell’Unione Europea, secondo quanto stabilito dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea, e responsabilità del magistrato, regolata dalle garanzie costituzionali che salvaguardano l’autonomia e l’indipendenza dei giudici;
la salvaguardia dell’attività di interpretazione delle norme di diritto e la valutazione serena del fatto e delle prove, il cui travisamento sarebbe ricompreso nelle nuove ipotesi dell’azione di responsabilità;
il mantenimento del filtro di ammissibilità, al fine di evitare azioni di responsabilità assolutamente infondate e, comunque, strumentali ai fini di interferire sul giudizio di merito;
l’eliminazione della nuova espressa previsione di obbligatorietà della rivalsa verso il magistrato;
il mantenimento dell’attuale limite di un terzo dello stipendio (che sarebbe elevato alla metà) per la rivalsa dello Stato e l’equiparazione del limite della trattenuta sullo stipendio (che sarebbe portata a un terzo) a quello degli altri dipendenti pubblici (un quinto).

I magistrati trapanesi rifiutano qualsiasi forma di acquiescenza, anche soltanto parziale, all’aggravamento della responsabilità civile dei magistrati, che rischierebbe di spazzare via la vitalità della funzione giudiziaria manifestata durante tutta la storia repubblicana.

La sottosezione dell’ANM di Trapani – sintetizzando lo stato di profonda delusione e amarezza, ma anche l’orgoglio e la dignità dei magistrati – fa appello alla sensibilità dei cittadini per impedire l’approvazione di una riforma in grado di cambiare l’essenza della giurisdizione.
Organici dei magistrati non aggiornati

L’Italia è certamente la culla del diritto, essendo prima in Europa per numero di avvocati (226.202 nel 2012).

Lo stesso primato, però, non riguarda i magistrati in servizio.

In Italia svolgono funzioni di primo grado 4.931 giudici togati su 6.347 e svolgono funzioni di pubblico ministero 1.900 magistrati togati.

L’organico della Corte d’Appello di Palermo – in Italia la seconda per produttività dopo Torino – è fermo alle previsioni del 1942.

A Trapani non è mai stata istituita un’apposita Sezione (con almeno cinque giudici e un presidente) che si occupi in maniera stabile di Misure di Prevenzione, nonostante i tre giudici che si occupano di tale settore (oltre ad occuparsi di altri affari) hanno un carico di lavoro enorme, sono competenti su tutta la provincia di Trapani e gestiscono un patrimonio immenso, ivi compreso quello riconducibile a Matteo Messina Denaro.
Geografia giudiziaria inadeguata alle reali richieste di Giustizia

Ci sono numerosi Uffici Giudiziari in continua sofferenza rispetto al numero effettivo dei magistrati e al numero di procedimenti trattati.

Nelle sedi del Sud spesso arrivano magistrati di prima nomina provenienti dalle regioni settentrionali che appena possono tornano nelle zone di provenienza, lasciando continuamente scoperti i posti che non sempre vengono coperti con altri magistrati a seguito di trasferimento, ma spesso bisogna aspettare gli altri magistrati di prima nomina che ovviamente dopo poco lasceranno nuovamente scoperti i posti in organico.

Occorre una corretta redistribuzione delle piante organiche per conseguire la massima ottimizzazione delle risorse sul territorio.
Carichi di lavoro insostenibili

I dati della Commissione Europea per l’Efficienza della Giustizia (CEPEJ) pubblicati nel 2014 rivelano che l’Italia ha 10,6 giudici ogni 100 mila abitanti, tanti quanti la Francia e il Regno Unito, contro i 24,7 della Germania.

Nel 2012 in Italia:
nel settore civile in primo grado sono state promosse 1.559.779 nuove cause e sono state definite 2.047.289 cause: i giudici italiani si sono collocati secondi in Europa dopo la Russia;

ogni 100.000 abitanti sono state iniziate in primo grado 2.613 cause e ne sono state definite 3.430; in Germania sono state iniziate 1.961 nuove cause e definite 1.968; in Francia sono state iniziate 2.575 nuove cause e ne sono state definite 2.555;
nel settore penale in primo grado sono iniziati 1.532.809 nuovi processi (Italia seconda in Europa dopo la Turchia) e sono stati definiti 1.434.169 processi: ancora una volta i giudici italiani si sono collocati secondi in Europa dopo la Turchia;
ciascun pubblico ministero in primo grado ha trattato in media 1.811,3 nuovi casi (Italia seconda in Europa dopo la Francia) e ha definito 1.603,5 procedimenti (Italia terza in Europa dopo Francia e Austria);

In Italia i magistrati lavorano molto più dei colleghi francesi e tedeschi.

L’arretrato si crea non perché i magistrati lavorano poco, ma perché si fanno troppi processi! Negli ultimi anni il contenzioso è triplicato, perché in Italia tutto finisce davanti al giudice, anche quello che non dovrebbe.

L’anomalia non sono i magistrati, ma la litigiosità fuori misura e controllo e un sistema normativo che tutela più chi viola la legge che le vittime.

I magistrati – le cui funzioni non consentono la predeterminazione di orari di lavoro – sono chiamati a rispondere, sia per le valutazioni di professionalità, sia in sede disciplinare, del numero di procedimenti definiti.

Le statistiche hanno assunto un peso fondamentale nel lavoro dei magistrati a discapito della valutazione della qualità dei provvedimenti.

Di recente, però, il Consiglio Consultivo dei Giudici Europei, organo consultivo del Consiglio d’Europa, ha adottato l’Opinione n. 17 del 24 ottobre 2014 sulla valutazione del lavoro dei giudici, la qualità della giustizia e il rispetto per l’indipendenza giudiziaria, affermando che le valutazioni devono condursi sulla base di criteri qualitativi – quali competenza professionale (la conoscenza del diritto, la capacità di condurre procedimenti giudiziari, capacità di scrivere decisioni motivate), competenze personali (capacità di far fronte al carico di lavoro, capacità di decidere, apertura alle nuove tecnologie), competenze sociali, vale a dire la capacità di mediare, il rispetto per le parti, e, inoltre, la capacità di dirigere per coloro le cui posizioni lo richiedono – e quantitativi. Una valutazione non dovrebbe essere mai il risultato della considerazione di soli dati statistico-quantitativi, né essere incentrata solo sulla produttività. Quest’ultima può essere infatti influenzata da più fattori, quali le risorse a disposizione del giudice, che se carenti e non adeguate implicano una precisa responsabilità dello Stato. La qualità, e non solo la quantità, delle decisioni giudiziarie deve essere al cuore della valutazione. Per valutare la qualità della decisione di un giudice, i valutatori devono concentrarsi sul metodo adottato dal giudice nel suo lavoro piuttosto che sul merito delle decisioni individuali (quest’ultimo può essere considerato soltanto attraverso il processo di appello). I valutatori devono considerare tutti gli aspetti che costituiscono una buona prestazione giudiziaria, in particolare le conoscenze giuridiche, la capacità di comunicazione, la diligenza, l’efficienza e l’integrità. A tal fine i valutatori devono considerare il lavoro del giudice in tutta la sua ampiezza nel contesto in cui quel lavoro è realizzato.

L’ANM chiede che si provveda alla copertura degli organici della magistratura, onde fornire tempestiva risposta alla crescente domanda di Giustizia e che nelle valutazioni di professionalità si tenga sempre più conto della qualità delle decisioni e del contesto lavorativo.
Responsabilità disciplinare

Altra critica ricorrente mossa alla magistratura italiana, attiene alla presunta inefficacia del sistema disciplinare che fa capo al C.S.M., che, essendo in prevalenza costituito da magistrati, non applicherebbe quasi mai sanzioni alla categoria che lo esprime.

E’ evidente che l’attribuzione dei poteri disciplinari ad un organismo i cui rappresentanti sono in prevalenza eletti dagli stessi magistrati costituisce una garanzia per assicurare l’indipendenza della magistratura da altri poteri.

Anche in ordine a tale tema, può essere utile esaminare i dati statistici relativi alle sanzioni disciplinari applicate dal C.S.M. rispetto a quelle applicate dagli altri organismi disciplinari europei.

L’Italia si colloca al di sopra della media europea per i procedimenti disciplinari (142 nel 2012) e per le condanne (53 nel 2012) dei magistrati.

Peraltro, i nuovi orientamenti assai restrittivi della giurisprudenza disciplinare sui ritardi nel deposito dei provvedimenti non tengono adeguatamente conto dei carichi di lavoro ormai insostenibili in cui i magistrati sono costretti a lavorare.

L’ANM chiede che nella valutazioni di professionalità e nei procedimenti disciplinari si tenga conto delle condizioni di lavoro e degli effettivi carichi di lavoro dei magistrati.
Mancanza di personale amministrativo

Dal 1999 non si bandisce un concorso per cancellieri e gli organici sono al collasso con una carenza di 9.000 unità.

A Trapani nel settore penale si vive una situazione di equilibrio precario nell’organizzazione delle udienze rispetto al personale di cancelleria; è stato previsto internamente un numero di udienze per magistrato con l’assistenza necessaria del cancelliere; se sorge l’esigenza di effettuare una udienza in più il personale di cancelleria non è nelle condizioni numeriche per poter assistere il magistrato; anche se il magistrato volesse produrre di più (nel numero di udienze), non può farlo per la mancanza di un adeguato organico del personale di cancelleria.

È stato istituito l’Ufficio per il Processo con l’inserimento dei “precari della Giustizia”: tirocinanti neolaureati che per 18 mesi dovrebbero ricevere un compenso di €400,00 (ma che ancora non hanno mai visto un soldo) e giudici onorari con incarichi triennali.

L’errore di non investire nella Giustizia sta nel considerare la Giustizia un costo dello Stato: invece è una fonte di entrate. Fra multe, ammende e beni confiscati (2.037 milioni di euro confiscati alla mafia in un anno), ci sono risorse sufficienti per mantenere i costi del servizio Giustizia e per garantire una Giustizia moderna ed efficiente.

L’ANM chiede che si provveda con urgenza alla riqualificazione ed alla formazione permanente del personale amministrativo in servizio e all’assunzione di nuovo personale in misura adeguata alle impellenti esigenze di lavoro e che si intervenga in maniera forte nel settore dell’organizzazione, con una stabile disciplina della magistratura onoraria e la piena realizzazione dell’Ufficio del Processo.
Mancanza di strumenti informatici adeguati alle riforme del processo telematico concepito in modo non organico

Il processo telematico è uno dei volani per una Giustizia efficiente e per la ripresa economica.

Occorre richiamare l’attenzione sulla contrazione delle risorse appostate, sui limiti e ritardi dei programmi e sull’inadeguatezza delle strutture informatiche.

Troppe lentezze e troppe difficoltà nella trasmissione degli atti dei magistrati e degli avvocati.

L’ennesimo blocco nazionale avvenuto il 18.12.2014 a seguito di un cavo tranciato a Roma (per la seconda volta in un anno!) denota la estrema fragilità e approssimazione di un quadro che non ha un sistema di continuità e politiche di disaster recovery.

Dal 15.12.2014 sono entrate in vigore le notifiche telematiche nel processo penale in base ad una legge del 2009 modificata nel 2012: solo il giorno prima è stata emanata una circolare da parte del Ministero della Giustizia che è stata sostanzialmente smentita due giorni dopo da una relazione del Massimario della Corte di Cassazione; allo stato non è stato ancora chiarito in maniera definitiva se la norma che prevede le notifiche telematiche sia già efficace o meno.

L’ANM chiede un ammodernamento organico degli strumenti di lavoro, un corretto processo di informatizzazione, che non cerchi di realizzare risparmi attraverso l’imposizione ai magistrati di compiti impropri e di un inaccettabile aggravio delle modalità di lavoro; hardware e software adeguati ed una rete efficiente; formazione qualificata e assistenza tempestiva, a sostegno del processo civile telematico e del nascente processo penale telematico.
Riforme farraginose e disorganiche

Alcune riforme normative spesso creano numerose difficoltà interpretative e incertezza tra gli stessi operatori del diritto.

Alcune riforme, come quella della messa alla prova, non sono supportate da strumenti idonei e personale qualificato: c’è il rischio che la messa alla prova (cui consegue, in caso di esito positivo della prova, l’estinzione del reato) si trasformi in un sistema ridicolo, perché gli operatori non sono dotati di mezzi e risorse per sviluppare progetti individualizzati efficaci; i progetti di messa alla prova piuttosto che prevedere in maniera generalizzata la frequenza occasionale di centri per anziani, dovrebbero intervenire in termini preventivi, per evitare il rischio di recidiva, e riparatori, per ricucire i rapporti con le vittime dei reati.

Significative problematiche si pongono per gli accordi di separazione e divorzio quando vi siano figli minori o non economicamente autosufficienti: in questi casi il pubblico ministero deve autorizzare l’accordo e, laddove lo neghi, deve trasmettere gli atti al Presidente del Tribunale; ma non è chiaro come si avvia la procedura nel caso in cui il pubblico ministero non dia l’autorizzazione (si iscrive la causa a ruolo? chi paga il contributo? quando?); inoltre, sussiste l’obbligo normativamente previsto, sia a livello nazionale sia a livello europeo, di ascoltare il minore, salvo che sia manifestamente superfluo; la decisione non viene riconosciuta a livello europeo se il minore non viene sentito o se non si motiva nel provvedimento la ragione della manifesta superfluità; non vi è alcuna previsione sul soggetto deputato ad ascoltare il minore negli accordi di separazione e divorzio conclusi davanti agli avvocati e ciò costituisce un problema in quanto gli avvocati, in base ad una previsione del codice deontologico, non possono procedere all’ascolto del minore sulle circostanze oggetto delle controversie familiari; la legge non si è fatta carico di prevedere alcunché sul punto, nonostante il legislatore si proclami così attento alle richieste comunitarie!!!!
Riforme blande

Recentemente è stato introdotto il reato di autoriciclaggio ma in una versione talmente soft che rischia di rimanere inapplicato.

Occorre rafforzare gli strumenti di contrasto alla criminalità organizzata e alla criminalità economica.
Frustrazione per il lavoro svolto

La prescrizione costituisce una vera e propria spada di Damocle durante il processo; quando matura la prescrizione (120.000 processi all’anno) viene vanificato tutto il lavoro precedentemente svolto.

Anche l’indulto – ancora oggi i magistrati applicano l’indulto approvato nel 2006 – manda per aria tutto il lavoro fatto; spesso mentre si fanno i processi e si scrivono le sentenze si sa già che in caso di condanna l’imputato potrà godere dell’indulto, ma si è costretti ugualmente ad istruire i processi e a redigere le motivazioni delle sentenze.
Mancate riforme e proposte dell’ANM

Finora il debitore non ha pagato il creditore perché gli conveniva andare in causa e resistere in giudizio, così alla fine, se mai si fosse dimostrato che quei soldi li doveva, li avrebbe pagati dopo anni, e a un interesse molto minore di quelli che avrebbe versato alla banca se avesse chiesto un prestito per pagare subito.

Per risolvere il problema solo di recente è stato imposto un tasso di interesse giudiziale molto più salato di quello bancario, per scoraggiare i debitori dal resistere in giudizio.

Per ridurre l’arretrato civile è stata recentemente prevista la possibilità per le parti di chiedere nei giudizi pendenti la trasmigrazione della lite in sede arbitrale: appare inverosimile che le parti, dopo aver esaurito l’istruttoria o trattato una causa magari per molti anni chiedano di andare davanti agli arbitri piuttosto che attendere la decisione del giudice!

Occorre, piuttosto, ridurre il numero dei processi: a fine anno 2012, nonostante gli sforzi profusi dai magistrati, l’Italia ha avuto il primato europeo per le pendenze civili in primo grado con un numero di cause pari a 3.308.692, mentre tutti gli altri 47 Stati hanno chiuso con un saldo inferiore a 800.000 ad eccezione di Francia (1.428.811) e Spagna (1.270.383).

Vanno cambiate le norme per rendere non convenienti i giudizi e i ricorsi a chi ha torto o è colpevole.

La medesima situazione si registra nel settore penale: a fine anno 2012 erano pendenti in primo grado 1.454.452 processi, mentre tutti gli altri Paesi si sono attestati ben al di sotto di 600.000 processi con l’eccezione della sola Turchia (1.298.008).

Nella prospettiva del nuovo codice di procedura penale del 1988 il processo ordinario (il dibattimento dove si assumono le prove davanti al giudice), comportando un enorme dispendio di energie e tempi, doveva essere riservato a casi marginali, mentre la maggior parte dei processi avrebbe dovuto definirsi con i riti alternativi (soprattutto patteggiamento e abbreviato) che comportano in caso di condanna uno sconto di pena non indifferente.

Nella pratica giudiziaria è stato, invece, privilegiato il processo ordinario, spesso con l’adozione da parte dei difensori di tecniche dilatorie in vista della maturazione della prescrizione.

L’incentivo a farsi processare e a ricorrere in tutti i gradi di giudizio si chiama prescrizione: negli USA il 90% degli imputati si dichiara colpevole e patteggia, perché, se un imputato si dichiara innocente, si fa processare col rito ordinario e poi si scopre che era colpevole, gli vengono irrogate pene così alte da disincentivare gli altri a mentire; in Italia si può patteggiare senza dichiararsi colpevoli e, poi, addirittura ricorrere in Cassazione contro il patteggiamento concordato con il pubblico ministero; intanto la prescrizione continua a correre e può scattare un minuto prima della sentenza definitiva; per questo il 15% dei ricorsi in Cassazione sono contro i patteggiamenti.

Nel 2013, a fronte di quasi 53.000 ricorsi per Cassazione in materia penale, il 15,9% dei procedimenti è stato definito con decisione di rigetto e il 17,7% con annullamento (con rinvio nel 9,9% dei casi, senza rinvio nel 7,8%); ma il dato più allarmante è che il 64,3% dei definiti è stato dichiarato inammissibile.

Nel Regno Unito, invece, le impugnazioni pretestuose vengono bollate con la stampigliatura “perdita di tempo” (“loss of time”).

L’attuale sistema italiano prevede che in caso di condanna si possa proporre impugnazione (per qualsiasi tipologia di reato), ma se è solo l’imputato a proporre impugnazione vi è il divieto da parte del giudice d’appello o della Corte di Cassazione di emettere una sentenza con effetti peggiorativi rispetto alla sentenza impugnata (divieto di reformatio in peius): così tutti i condannati propongono impugnazione, tanto non hanno nulla da perdere, anzi guadagnano in termini di tempo rispetto all’auspicata maturazione della prescrizione.

La prospettiva dell’amnistia o dell’indulto, poi, riduce ulteriormente le richieste di riti alternativi e incentiva ancor di più i comportamenti dilatori e le impugnazioni: se la sentenza diviene definitiva il condannato deve scontare la pena, ma se riesce a differire il passaggio in giudicato della sentenza potrebbe arrivare un provvedimento di clemenza.

Bisognerebbe arrestare il decorso della prescrizione dopo il rinvio a giudizio e comunque non oltre la sentenza di primo grado e si dovrebbe abolire il divieto di reformatio in peius del sistema delle impugnazioni per scoraggiare in modo efficace i ricorsi dilatori e pretestuosi.

È auspicabile una depenalizzazione profonda dei reati bagatellari o degli illeciti facilmente accertabili in via amministrativa; invece, si demanda alla magistratura la funzione di supplenza rispetto all’inefficienza politica e amministrativa.

La mancata approvazione di una riforma seria dei reati contro la pubblica amministrazione e soprattutto della corruzione non consente una adeguata lotta al marcio che attanaglia le istituzioni: secondo le stime il costo della corruzione per l’assenza di una vera riforma ammonta a 60 miliardi di euro l’anno.

L’ANM chiede che si realizzino con urgenza vere riforme dirette a rendere efficiente il servizio Giustizia.

Condizioni precarie di sicurezza

I magistrati vittime di mafia:

5.5.1971 Pietro Scaglione

25.9.1979 Cesare Terranova

6.8.1980 Gaetano Costa

25.1.1983 Giangiacomo Ciaccio Montalto

29.7.1983 Rocco Chinnici

2.4.1985 attentato a Carlo Palermo

14.9.1988 Alberto Giacomelli

25.9.1988 Antonino Saetta

21.9.1990 Rosario Livatino

9.8.1991 Antonino Scopelliti

23.5.1992 Giovanni Falcone e Francesca Morvillo

19.7.1992 Paolo Borsellino

tutti gli angeli delle scorte e le vittime innocenti.

Continue minacce arrivano non solo ai magistrati più esposti, ma segnali allarmanti giungono anche a chi opera senza clamore. Nel solo distretto di Palermo su circa 500 magistrati quasi 100 sono tutelati o scortati. Questi sono solo alcuni dei temi generali attinenti alle condizioni di lavoro dei magistrati, molte altre questioni si aprono se si scende nel dettaglio delle norme civili o penali, processuali o di ordinamento giudiziario.

In ogni caso siamo ben consapevoli che i magistrati sono tutt’altro che perfetti, che alcuni di essi non amano il proprio lavoro o non sanno organizzarlo, che ci sono sacche di inefficienza riconducibili anche a responsabilità interne; che moltissimo si potrebbe fare per migliorare il funzionamento dell’organo di autogoverno ed il servizio Giustizia nel suo complesso, ma tutto ciò non può portare ad assistere inerti alla distruzione di una istituzione cui è demandato infine il compito di salvaguardare lo Stato di diritto.”

Il Segretario Fiammetta Lo Bianco Il Presidente Samuele Corso
(fonte:marsalanews.it)

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