La Corte di Strasburgo: “L’accoglienza dell’Italia ai rifugiati non garantisce il rispetto dei diritti umani”

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Pubblichiamo un importante articolo sull’attuale situazione italiana in tema di immigrazione come vista dalla Corte di Strasburgo.

“Si chiama “Regolamento di Dublino” ed è il punto critico delle politiche dell’Unione europea in materia di immigrazione. I suoi meccanismi sono all’origine di decisioni di grande rilevanza. In una certa misura anche della fine dell’operazione Mare Nostrum. Pochi giorni fa (il 4 novembre) la Corte europea ha emesso una sentenza che colpisce questa normativa al cuore. Una sentenza per certi aspetti rivoluzionaria. Ma andiamo con ordine.

La norma-chiave del regolamento di Dublino è che lo Stato competente a occuparsi di una domanda di asilo è il primo Stato europeo dove il richiedente ha messo piede. Norma criticatissima dalle associazione umanitarie e dai Paesi di frontiera, Italia in particolare. In concreto, infatti, succede che la maggior parte dei migranti che – per esempio – arrivano a Lampedusa, abbiano come meta finale del loro viaggio altri Stati europei dove già risiedono dei loro familiari. Ma quando vengono individuati attraverso le impronte digitali, sono obbligati a chiedere l’asilo all’Italia e a stabilirsi da noi.
Questo meccanismo viene aggirato in vari modi, anche col tacito consenso degli Stati di confine che a volte chiudono più di un occhio: evitano di identificare i migranti, li lasciano transitare per il loro territorio nazionale e poi varcare la frontiera. L’Italia ha praticato con larghezza questa politica furbetta. E gli altri Paesi, primo tra tutti la Germania, appena se ne sono accorti hanno fatto la voce grossa. L’operazione “Ius maiorum”, che in queste settimane ha determinato un’attività massiccia di identificazione dei migranti presenti in Italia, ha avuto anche lo scopo di dimostrare agli altri Paesi che le astuzie sono finite.
La sentenza della Corte europea si riferisce a la più tipica delle situazioni penose causate dal regolamento di Dublino. I cittadini afghani Golajan Tarakhel, classe 1971, sua moglie Maryam Habibi, 1981, i loro sei figli, nati tra il 1999 e il 2012, dopo una lunga peregrinazione tra il Pakistan e l’Iran, nell’estate del 2012 decisero di fuggire in Europa, s’imbarcarono in Turchia e, il 16 luglio di quell’anno, approdarono, assieme ai cinque figli più grandi, nelle coste della Calabria. Subito furono sottoposti alle procedure di identificazione e trasferiti al Cara (Centro accoglienza richiedenti asilo) di Bari. Il 28 luglio si allontanarono e raggiunsero l’Austria e poi la Svizzera.
Benché avessero fornito false generalità, i Tarakhel erano stati registrati in Italia attraverso le impronte digitali. Per questo, appena furono identificati, la Svizzera – in ossequio al regolamento di Dublino – ordinò che lasciassero Losanna, dove si era stabiliti, per rientrare in Italia. Contro questa decisione, col sostegno della Organizzazione non governativa “Aiuto” delle Chiese evangeliche della Svizzera (Aces), i Tarakhel (che nel frattempo sono rimasti in Svizzera) hanno fatto ricorso alla Corte europea. E hanno avuto ragione.
Secondo i giudici di Strasburgo, la Svizzera, prima di adottare il provvedimento di espulsione, avrebbe dovuto chiedere garanzie alle autorità italiane sulle condizioni di accoglienza e sulla tutela dell’unità del nucleo familiare. Anche perché non era possibile escludere a priori che in Italia la famiglia Tarakhel avesse difficoltà a trovare un alloggio adeguato e fosse ospitata in strutture sovraffollate e insalubri. Un quadro che corrisponde al rischio di “trattamenti inumani e degradanti”. Un rischio davanti al quale qualunque espulsione è vietata.

Attenzione, nonostante le apparenze, la sentenza non è una condanna senza appello del sistema italiano di accoglienza. Al contrario, i giudici di Strasburgo riconoscono che ci sono stati dei miglioramenti e sottolineano che le condizioni dei richiedenti asilo in Italia non possono essere in alcun modo paragonate a quelle della Grecia, un Paese rispetto al quale la stessa Corte aveva bloccato qualunque tipo di rinvio da parte degli Stati dell’Unione. Ma è proprio questo passaggio in apparenza contraddittorio a rendere ancora più significativa la decisione. La Corte europea ha in sostanza stabilito che i rimpatri in base al regolamento di Dublino vanno decisi caso per caso e che gli automatismi non sono ammessi.
“La sentenza – ha dichiarato al sito swissinfo.ch Philippe Bovey, il segretario della Ong “Aiuto” – stabilisce chiaramente che, nel caso di una famiglia, è necessario assicurarsi che sia rispettato l’interesse superiore dei bambini e protetto il diritto all’unità familiare. Immagino che, per analogia, questa esigenza dovrà essere soddisfatta anche nel caso di una persona malata, di un minore non accompagnato o di un anziano”.
“E’ importante – commenta il direttore del Consiglio italiano dei rifugiati, Christopher Hein – che la Corte riconosca con forza che i richiedenti asilo appartengono di per sé ad una popolazione particolarmente svantaggiata e vulnerabile che richiede pertanto una particolare protezione, ancor più se tra di loro ci sono minori. Sappiamo che il sistema d’accoglienza di rifugiati e richiedenti asilo in Italia, nonostante i grandi passi avanti fatti proprio negli ultimi mesi, presenta ancora lacune molto gravi in quanto a lunghi periodi d’attesa per trovare un posto, per esempio in Sicilia e a Roma, e anche per le condizioni a volte davvero inumane nei Cara. Speriamo quindi che la sentenza dia impulso a ulteriori sforzi per l’adeguamento del nostro sistema ai migliori standard europei” .
Hein, contemporaneamente, sottolinea che i miglioramenti sono stati davvero notevoli, in particolare per casi come quello dei Tarekhen. Infatti oggi in Italia una famiglia numerosa con bambini viene considerata “gruppo vulnerabile” ed è perciò accolta al di fuori dei centri CARA, nel “sistema Sprar”, la rete dei comuni grandi e piccoli che hanno messo alloggi a disposizione dei rifugiati.
Ma questa buona notizia – altro dei paradossi del granitico regolamento di Dublino – potrebbe diventare una cattiva notizia per i diretti interessati. E’ infatti possibile che la Svizzera faccia ripartire la procedura, chieda (e ottenga) sufficienti rassicurazioni dall’Italia e, alla fine, decreti in modo legittimo l’espulsione. Perché nella categoria dei “trattamenti inumani” non rientra il fatto che cinque ragazzini asiatici, dopo essersi faticosamente inseriti in un paese europeo, vengano spediti altrove.”di Giovanni Maria Bellu (fonte:notizie.tiscali.it)

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