Micromega: articolo su “l’ultima frontiera” docufilm di Raffaella Cosentino ed Alessio Genovese

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Pubblichiamo un articolo apparso in micromegaonline sull’ultimo film documentario “l’ultima frontiera”…(…e “qualcuno dice che le udienze di convalida dei trattenimenti durano troppo…)

“L’ultima frontiera” – il docufilm dei giornalisti Raffaella Cosentino e Alessio Genovese – è un prezioso lavoro: sia una denuncia delle brutalità subite dai migranti nei Cie che una dura critica alle politiche migratorie post accordo di Schengen. Venerdì scorso l’anteprima a Roma, al Cinema Aquila (Pigneto).
il trailer del film l’ultima frontiera”

“Tutto esaurito, terminati i biglietti sia per la prima che per la seconda proiezione”. Le persone sono molte, moltissime. Alla fine saranno quasi 500 i presenti. “Un successo sopra ogni aspettativa”, ringraziano emozionati i due registi. Un sintomo, qualcosa si sta muovendo.

Le proteste delle “bocche cucite” sotto Natale, le varie rivolte dei migranti reclusi e l’azione di Khalid Chaouki, deputato Pd che per protesta si è rinchiuso nel centro di Lampedusa, hanno certamente posto i riflettori dell’opinione pubblica su una questione per troppo tempo dimenticata. “Il film ha lo scopo di costruire un immaginario collettivo sul tema, dando una dimensione umana e universale” spiega Raffaella Cosentino. Un mese e mezzo il tempo delle riprese; Ponte Galeria, Trapani e Bari le strutture visitate. L’autorizzazione del ministero degli Interni, l’allora ministro Cancellieri, era per entrare nei Cie solo per due giorni di fila. “Rispetto alla circolare del 2011 di Maroni che vietava l’ingresso sia ai giornalisti che ai politici – prosegue la regista – adesso è poco più facile ispezionare i centri ma siamo ben lontani da un’idea accettabile di libertà di stampa e informazione”. Il cronista deve sempre avere il permesso della prefettura che dà l’autorizzazione con discrezionalità e molto tempo dopo. “A luglio scorso ho fatto richiesta per entrare nella struttura di Mineo (dove la scorsa estate è morto un giovane eritreo, ndr) e non ho ancora avuto risposta “ conclude Cosentino.

Il documentario, della durata di circa un’ora e in concorso al 43esimo Festival di Rotterdam con proiezioni il 26, 27 e 31 gennaio, oltre a mostrare la disumanità di tali strutture evidenzia – attraverso le interviste e dando voce alle storie dei reclusi – la totale inefficacia dei Cie, i quali svolgono più una funzione di criminalizzazione del fenomeno migratorio e di meccanismo di controllo, in una logica tutta securitaria, che un vero elemento di contrasto ai “clandestini”.

Secondo i dati della Polizia di Stato e trasmessi nell’ultimo rapporto sui Centri redatto dell’associazione MEDU (Medici per i Diritti Umani), dal 2008 al 2012 sono transitati nei Cie in media solo 8.800 migranti all’anno. L’1 per cento degli irregolari presenti in Italia a fronte di 55 milioni di euro l’anno spesi per il mantenimento e la gestione. La stragrande maggioranza giunge in Italia con un regolare permesso turistico e non – come molti media vorrebbero far credere – coi “barconi della morte” via mare.

L’80 per cento degli “ospiti” nei Cie proviene dalle carceri nostrane: scontata la pena con la giustizia italiana, in mancanza di documenti, vengono spediti appunto nelle strutture di identificazione. E l’efficacia espulsiva dell’uso dei Cie è abbastanza ridotta: in media neanche il 50 per cento dei trattenuti viene poi di fatto rimpatriato. Numeri irrisori. Dopo la detenzione amministrativa al migrante – non identificato – viene rilasciato un foglio di via di 7 giorni. Un brevissimo lasso di tempo per lasciare l’Italia. “Ho provato ad andare in altri Paesi d’Europa ma non ci riesco: alla frontiera mi fermano e mi rimandano in Italia (così come indica la normativa Schengen, ndr), dove ovviamente mi spediscono nuovamente nei Cie”, denuncia un ragazzo maghrebino, la sua vita è così da anni. Tra folle burocrazia e detenzione. Altri scelgono direttamente la clandestinità. “Ma chi te lo dà un lavoro senza alcun documento? Molti tra l’altro se ne approfittano per darci qualche spiccio a nero” racconta un altro, eppure “chiederei solo un permesso di soggiorno temporaneo, il tempo necessario per trovarmi un’occupazione e regolarizzarmi”. Invece nessun percorso di reinserimento socio-lavorativo. Un foglio di via e, ovviamente, un arrivederci.

Erroneamente si pensa che tutto derivi dalla Bossi-Fini, non è così. Essa ha peggiorato le condizioni ma la madre delle leggi è la Turco-Napolitano (centrosinistra). Ancora oggi è in vigore il Testo unico dell’Immigrazione datato 1998. Da allora il periodo di trattenimento nei centri (si chiamavo Cpt) è passato dagli iniziali trenta giorni a sei mesi fino agli attuali 18 previsti dal pacchetto sicurezza dell’ex Ministro degli Interni Maroni del 2009, e i luoghi di privazione o limitazione della libertà personale dei migranti si sono moltiplicati: ai Cpta, poi denominati Cie, si sono affiancati i Centri di Primo Soccorso e Accoglienza, come quelli di Lampedusa o di Pozzallo, i Cda, semplicemente Centri di Accoglienza, i già citati Cara, che seppur in modo meno radicale inibiscono la libertà di movimento dei richiedenti asilo.

Evidente l’enorme business di chi gestisce i centri, gli enti sono stabiliti tramite una gara di appalto. La maggior parte sono cooperative riconducibili ad area cattolica. “La Chiesa – affermano i registi – deve aprire una riflessione al suo interno su questi enti gestori dei Cie che tra l’altro non denunciano mai gli abusi”.

A Trapani nel 1998 nasce il primo Cpt, nel 1999 un rogo in cui perdono la vita sei migranti. Proprio di Trapani è Alessio Genovese, allora diciottenne, che da quel momento ha iniziato ad occuparsi della tematica. Secondo lui abbiamo un approccio culturale sbagliato sull’immigrazione e va ripensato il processo storico di Schengen: “Lì una comunità, quella europea, ha deciso di costituire una propria identità alzando un muro nei confronti dell’altro, dello straniero. Il discorso securitario e di difesa dei Cie è del tutto ideologico: siamo di fronte ad un evidente spreco di denaro pubblico che potrebbe essere utilizzato a servizio dell’integrazione o dei territori”. Invece si sceglie la via della detenzione, della militarizzazione e della desertificazione.

Qualsiasi tipo di umanizzazione dei Cie – riduzione della permanenza e miglioramento delle condizioni interne – viene respinto al mittente dai registi. “Come si sono chiusi i manicomi, così vanno superati questi centri: i migranti vi sono reclusi non per quel che hanno commesso ma per quel che sono. E’ un discorso pericolosissimo, in futuro cambiando criterio potrebbe colpire qualsiasi categoria di persona”.
“Innanzitutto un profondo ringraziamento all’amico e regista Alessio Genovese e un altrettanto affettuoso e dolcissimo ringraziamento all’amica e regista Raffaella Cosentino, che con la loro tenacia e determinazione stanno facendo scoprire a tutti una terribile realtà per troppo tempo tenuta nascosta.
Sono loro ad avermi convinto a partecipare al documentario, per denunciare la vita disumana che si conduce all’interno dei Cie.
Ho conosciuto Raffaella e Alessio nel marzo-aprile del 2013, prima avevo vissuto l’incubo dei Cie, campi di concentramento resi soltanto un po’ più vivibili e raffinati rispetto a quelli del passato.
In questi posti non ci chiamano per nome, ma con un numero, e ciò mi ricorda il passato, quello brutto, in cui un numero era impresso sulla pelle degli ebrei e c’erano delle razze prescelte. Oggi nei Cie ci danno un tesserino, con la nostra foto e i nostri dati anagrafici, ma quando ci chiamano lo fanno col numero di riferimento, non col nostro nome.
Ho un sogno, il sogno che l’umanità non cada negli sbagli del passato e che non ci siano più popoli di serie A e popoli di serie B, ma un unico popolo del mondo, senza più frontiere.
E ho una grande speranza che vengano presto abbattute queste mura in cui sono nuovamente imprigionato oggi e venga data anche allo straniero, che in passato ha commesso degli errori, la possibilità di integrarsi.”
E’ uscito “L’ultima frontiera”, un importante documentario che mostra per la prima volta dall’interno il volto disumano dei centri di detenzione ed espulsione dei migranti. Oltre ad evidenziare la totale inefficacia e il business economico di tali strutture. Possono essere umanizzate? “No, vanno chiusi come fu per i manicomi”, la replica dei due registi
.di Giacomo Russo Spena

Le immagini parlano chiaro. Più di mille editoriali su giornali o riviste. Sono crude, a volte strazianti. Un pugno allo stomaco. “Libertà”, invocano da dietro le sbarre. E poi le riprese all’interno delle strutture: il migrante che si ribella all’espatrio forzato, l’altro alle prese con attacchi di panico, un terzo depresso e sotto psicofarmaci. Le svastiche sui muri a denunciare quella detenzione, per loro, “nazista”. Le stanze sporche, i luoghi degradati. Le tante testimonianze.

“Sono da 26 anni in Italia, ormai mi sento cittadino italiano. Voglio sposarmi, lavorare e vivere qui perché non mi viene data la possibilità?” racconta un marocchino in un perfetto slang milanese rinchiuso nel Centro di Identificazione ed Espulsione (Cie) di Ponte Galeria di Roma. Le istantanee mostrano anche l’aeroporto di Fiumicino e si soffermano su una responsabile della polizia alla dogana, un’eccellenza invidiata da tutta Europa, che all’aeroporto durante un briefing spiega ai suoi come individuare il “clandestino”, come respingerlo malgrado abbia un regolare passaporto.”
(fonte:micromegaonline)

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